I DUE FOSCARI      

Giuseppe Verdi                                       
Opera in three acts in Italian
Libretto: Francesco Maria Piave
Premièr at Teatro dell’Opera di Roma – 3 November 1844
26, 29, 31 December 1957                                
Teatro La Fenice, Venezia    

OPENING PERFORMANCE OF TEATRO LA FENICE DI VENEZIA

Conductor: Tullio Serafin
Chorus master: Sante Zanon
Stage director: Franco Enriquez
Scene and costumes: Veniero Colasanti & John Moore

Francesco Foscari Doge of Venice GIANGIACOMO GUELFI baritone
Jacobo Fiesco his son MIRTO PICCHI tenor
Lucrezia Contarini wife to Jacopo LEYLA GENCER soprano [Role debut]
Jacobo Lorendano member of the Council of Ten ALESSANDRO MADDALENA bass
Barbarigo Senator, member of the Council OTTARINO BEGALI tenor
Pisana friend and confidante of  Lucrezia MARISA SALIMBENI soprano
Attendant on the Council of Ten AUGUSTO VERONESE tenor
Servant of the Doge UBERTO SCAGLIONE bass

Time: 1457
Place: Venice

Recording date 

Photos © GIACOMELLI, Venezia

Drawings © Veniero Colasanti e John Moore

 


GENCER ALLA FENICE
 
I DUE FOSCARI 
STAGIONE 1957 – 1958






CONTRACT FOR THE PERFORMANCES
1957.08.29

FROM THE SEASON PROGRAMME OF TEATRO ALLA FENICE
2023.10.06

CORRIERE DELLA SERA                                          
1958.12.31       

OPERA MAGAZINE                                       
1958 March

RADIOCORRIERE.TV                                                  
1958.08.01                                                     

KOBBE'S COMPLETE OPERA BOOK                                   
1976

IL PICCOLO                                
1983.10.18

COMPLETE RECORDING                        
1957.12.31


FROM CD BOOKLET
I DUE FOSCARI
LUIGI BELLINGARDI

Reso celebre dall'affermazione di Nabucco (9 marzo 1842) e dei Lombardi alla prima crociata (11 febbraio 1843), egualmente alla Scala, Verdi (Roncole di Busseto, Parma 1813-Milano 1901) cominciò a ricevere inviti da altri teatri italiani, principalmente dalla Fenice che commissionò al musicista un'opera nuova. Verdi prese in esame vari soggetti, tra cui Cola di Rienzi, La caduta dei Longobardi, Caterina Howard, ma soffermò la sua attenzione sulla tragedia di Byron I due Foscari, come risulta da una lettera a G. Bienna, segretario della Fenice, in cui l'argomento è definito «pieno di passione e musicabilissimo» e per di più «fatto veneziano, e potrebbe interessare moltissimo a Venezia» Ancora al conte Mocenigo veniva precisato «si stacca dal genere del (4 luglio 1843). Nabucodonosor e dei Lombardi». Contrariamente agli intenti di Verdi, il soggetto venne ricusato dal teatro per non urtare le suscettibilità dei discendenti dei Foscari e dei Loredano, decidendosi il musicista a riservare alla Fenice l'Ernani Iche vi trionfò il 9 marzo 1844, su libretto di F.M. Piave ed a presentare I due Foscari al Teatro Argentina di Roma, nuovamente su testo di Piave. Sollecitato con urgenza da Verdi «fallo con impegno perché è un bel soggetto, delicato ed assai patetico. Osservo che in quel di Byron non c'è quella grandiosità scenica che è pur voluta dalle opere per musica. Metti alla tortura il tuo ingegno e trova qualche cosa che faccia un po' fracasso specialmente nel primo atto» (9 maggio 1844) a verseggiare, appena mandato il programma, Piave non perse tempo e qualche giorno dopo conobbe l'opinione del musicista: «Bel dramma, bellissimo, arcibellissimo... Trovo che il carattere del padre è nobile e ben trattato, quello di Lucrezia pure, ma quello di Jacopo è debole e di poco effetto scenico: io gli darei in principio un carattere più energico...» (14 maggio 1844). Nei giorni successivi vennero proposte altre modifiche mentre la composizione procedeva di pari passo e alla fine di giugno il primo atto era quasi ultimato, completandosi l'opera nella tarda estate. Il 3 ottobre Verdi partì per Roma per seguire le prove e il 3 novembre I due Foscari andarono in scena all'Argentina con il tenore Roppa nella parte di Jacopo, il baritono De Bassini come Francesco, il soprano Barbieri Nini nel ruolo di Lucrezia. Così ne scrisse Verdi il giorno successivo: «se i Foscari non sono del tutto caduti poco è mancato. Sia poi perché i cantanti hanno stonato assai... il fatto si è che l'opera ha fatto mezzo fiasco». Aggiungeva poi: «io avevo molta predilezione per quest'opera: forse mi sono ingannato, ma prima di ricredermi voglio un altro giudizio». Di rincalzo, Piave chiariva: «L'istessa aspettazione e l'esigenza hanno tenuto il pubblico in qualche freddezza... Verdi peraltro fu chiamato ben dodici volte al proscenio ma quello che sarebbe per altri un trionfo è nullo per esso. La musica dei Foscari è divina e non dubito che domani e sempre più sarà apprezzata». Per alcuni anni le rappresentazioni dei Due Foscari furono assai frequenti in Italia e all'estero, poi si fecero sempre più rare e nel Novecento soltanto nel primo dopoguerra, nel quadro della Verdi-Renaissance in Germania, si tornò ad allestire I due Foscari, pur se la critica ne parlava nei termini di un prodotto degli «anni di galera », del periodo cioè, tra l'Ernani (1844) e il Rigoletto (1851), in cui il compositore, benché celebre, non era ancora in grado di imporre agli impresari le sue condizioni e le sue scelte estetiche, ed in cui videro la luce dieci opere oltre a un rifacimento (Jérusalem). Lo stesso Verdi ebbe ad individuare, in senso negativo, il carattere fondamentale dei Due Foscari quando osservò, in una lettera al Piave, che nell'opera v'era «una tinta, un colore troppo uniforme dal principio alla fine» (22 luglio 1848). Ancor più monocromo appariva il poema di Byron al quale, secondo Verdi, Piave aveva dovuto inizialmente «stare attaccato» (18 aprile 1844), mentre in seguito il musicista ebbe sovente ad adoprarsi per correggere la monotonia dell'opera, ravvivando l'ambiente e la figura di Jacopo. Nei Due Foscari si può cogliere comunque la premonizione di quello che sarebbe diventato un filo rosso della drammaturgia verdiana, il rapporto contrastato tra il potere, con i suoi condizionamenti, e la sfera degli affetti privati: «la strada che passa per il Macbeth, il Simon Boccanegra e il Don Carlo ha inizio dai Due Foscari» ha notato, e giustamente, Massimo Mila. E d'altra parte, pur nella sua malinconia di base, può cogliersi un'essenzialità espressiva assai originale, anche sul piano strutturale, nella fusione dell'aria e del recitativo in un eloquio melodico continuo, modellato sull'evolversi delle passioni e delle vicende drammatiche, cioè il genere «diverso rispetto alla produzione precedente, come aveva divinato Verdi stesso. Ed inoltre, nell'allucinato monologo di Jacopo nel carcere (secondo atto) può anche presagirsi l'anticipazione di una celeberrima pagina, altrettanto visionaria, di Macbeth.»

«La riesumazione nel Novecento in Italia dei Due Foscari ebbe luogo nel 1951 alla RAI di Milano, sotto la bacchetta di Giulini, mentre sulle scene, dopo la riproposta a Stoccarda con Leitner nel 1956, la ripresa moderna si ebbe alla Fenice di Venezia il 26 dicembre 1957, sotto la guida di Serafin, con la regia di Enriquez e con Leyla Gencer, Mirto Picchi e Gian Giacomo Guelfi nelle parti principali. È da una replica di tale spettacolo che derivano i brani pubblicati nel presente disco, i cui punti di forza si ravvisano nell'animata direzione di Tullio Serafin che, pur avendo allora settantanove anni, riesce sempre a sottolineare con equilibrio in orchestra l'intensità delle situazioni espressive, nell'interpretazione appassionata e grandiosa della Gencer, allora ventinovenne, nell'incisività d'accenti del tenore fiorentino Mirto Picchi, nel misurato fraseggio di Guelfi, baritono romano allora trentatreenne. Il successo di questo spettacolo veneziano ha garantito il definitivo recupero dei Due Foscari al repertorio dei maggiori teatri.

La Vicenda

Atto primo. (Ouverture). Il Consiglio dei Dieci è in procinto di riunirsi per giudicare Jacopo Foscari, figlio dell'ottuagenario doge Francesco Foscari, già due volte punito con l'esilio per avere intrattenuto rapporti con governi stranieri ostili alla Repubblica Veneta e soprattutto perché accusato di essere il mandante dell'assassinio di Ermolao Donato, capo del Consiglio che gli inflisse la prima condanna. Il giovane, tornato in patria per assistere al processo, è turbato all'idea di dover comparire in catene dinanzi al padre, e la certezza di poter dimostrare la propria innocenza appare offuscata dal timore del nefasto ascendente che potrà esercitare in seno al Consiglio un suo autorevole membro, Jacopo Loredano, da anni acerrimo avversario dei Foscari ai cui intrighi egli attribuisce la mancata elezione del padre alla suprema magistratura e la successiva tragica scomparsa di due suoi fratelli («Qui ti rimani... Dal più remoto esilio... Odio solo, ed odio atroce...»). Lucrezia Contarini, la giovane sposa di Jacopo, attende con ansia il verdetto dei giudici; soltanto nella preghiera ella può trovare conforto. Ma la notizia della conferma della condanna le viene recata da una dama; reprimendo a stento i singhiozzi, decide di recarsi dal doge e di ricorrere alla sua autorità per ottenere la revoca della sentenza («No... mi lasciate... Tu al cui sguardo onnipossente... Si condanna e s'insulta l'afflitto...»). Il doge appare profondamente abbattuto: da tanti anni a capo della Repubblica ed ormai al tramonto della sua lunga esistenza, deve ora assistere, senza poter intervenire come gli suggerirebbe l'istinto paterno, alle dolorose vicende dell'unico figlio rimastogli. Anche le aspre parole di Lucrezia contribuiscono ad aumentare la sua profonda amarezza; egli non è in grado di interferire nelle decisioni del Consiglio, che con questa sentenza conferma i criteri di severità da adottare contro chiunque osi attentare alle leggi della Serenissima.

Atto secondo. In una cella sotterranea Jacopo, adagiato sopra un giaciglio, medita sconfortato sul proprio destino («Non maledirmi, o prode...»); si scuote solo al sopraggiungere di Lucrezia, venuta a consolarlo nel drammatico momento («No, non morrai; ché i perfidi... Maledetto chi mi toglie...»). Anche il doge, accompagnato da un servo, discende nella cella; egli vuole rassicurare il figlio che l'affetto per lui è rimasto intatto, malgrado l'ardua prova sostenuta («Nel tuo paterno amplesso...»).  Frattanto Loredano con alcuni fanti del Consiglio è apparso sull'uscio; egli fissa con malcelato disprezzo i due Foscari, quindi intima a Jacopo di seguirlo: lo attendono i Dieci per notificargli la sentenza e renderla esecutiva («Ah sì, il tempo che mai non s'arresta.. »). Il Consiglio dei Dieci è di nuovo riunito e all'assemblea partecipa anche il doge; gli sguardi di tutti sono fissati su di lui e la sua ansia e l'intimo turbamento non sfuggono ad alcuno. Giunge finalmente Jacopo, circondato dalle guardie; scorre con crescente agitazione il dispositivo che conferma la condanna ed inutilmente il padre, cui egli si rivolge, cerca di indurlo alla rassegnazione. Sta per allontanarsi dall'aula allorché fa il suo ingresso Lucrezia: disperata e disposta a tutto, ha portato con sé i suoi due figlioli per impietosire e convincere i giudici a consentirle di condividere la sorte dello sposo. Ma ogni tentativo si rivela inutile e Jacopo viene trascinato via fra le lacrime dei suoi; dall'alto del seggio ove ha presieduto l'assemblea il doge, profondamente commosso, reprime a stento i propri sentimenti di pietà («Queste innocenti lagrime... Vedi, al sepolcro in seno...»).
Atto terzo. Gruppi di maschere affollano la piazzetta di San Marco, mentre sulla laguna alcuni gondolieri gareggiano con le loro imbarcazioni. L'atmosfera è festosa, ma sarà presto offuscata da alcuni squilli di tromba provenienti dal Palazzo Ducale; il portale poi si spalanca e ne escono alcuni membri del Consiglio che precedono Jacopo Foscari. Questi, circondato da un drappello di armati, si avvia verso la riva ove l'attende la galea che dovrà condurlo in esilio a Candia; prima di salire sul battello, egli si rivolge ancora una volta a Lucrezia che l'ha seguito sin lì per dargli l'ultimo addio. Straziante è il commiato fra i due, anche se Jacopo si sforza di apparire sereno e di infondere alla moglie la necessaria rassegnazione; devono però alla fine separarsi e, mentre Jacopo si allontana, Lucrezia si abbatte a terra, disperata («All'infelice veglio... Ah padre, figli, sposa...»). Il vecchio doge riflette sugli ultimi eventi e piange sulla sorte del figlio che sa di non poter più rivedere, allorché un senatore, sopraggiunto in preda ad intensa agitazione, gli reca la notizia che il vero assassino di Ermolao Donato ha confessato la verità in punto di morte scagionando Jacopo Foscari. Il doge appare quasi fuori di sé dalla gioia, ma è troppo tardi: Lucrezia, senza più lacrime, gli annuncia che Jacopo stesso non ha retto al dolore per la crudele separazione ed è spirato a bordo della galea che avrebbe dovuto portarlo in esilio. Le sventure del vecchio Foscari non sono ancora finite; gli chiedono infatti udienza i membri del Consiglio dei Dieci, a nome dei quali Loredano gli intima di dimettersi dalla suprema carica della Repubblica. Foscari cerca di resistere, non intendendo sottostare a quella che ritiene una autentica violenza, ma alla fine deve cedere («Questa dunque è l'iniqua mercede...»): rimette le insegne dogali ai senatori, poi chiama a sé Lucrezia e si allontana dalla sala in preda a profonda amarezza. Sulla soglia lo trattiene il suono delle campane che annunciano al popolo la nomina del suo successore; il vecchio cuore non regge a tanta emozione ed egli stramazza a terra esanime («Padre... mio prence... Quel bronzo ferale... Ah, morte è quel suono!!!...»).