I DUE FOSCARI
Libretto: Francesco Maria Piave
Lucrezia Contarini wife to Jacopo LEYLA GENCER soprano [Role debut]
Jacobo Lorendano member of the Council of Ten ALESSANDRO MADDALENA bass
Barbarigo Senator, member of the Council OTTARINO BEGALI tenor
Pisana friend and confidante of Lucrezia MARISA SALIMBENI soprano
Attendant on the Council of Ten AUGUSTO VERONESE tenor
Servant of the Doge UBERTO SCAGLIONE bass


Reso celebre dall'affermazione di Nabucco (9 marzo 1842) e dei Lombardi alla prima crociata (11 febbraio 1843), egualmente alla Scala, Verdi (Roncole di Busseto, Parma 1813-Milano 1901) cominciò a ricevere inviti da altri teatri italiani, principalmente dalla Fenice che commissionò al musicista un'opera nuova. Verdi prese in esame vari soggetti, tra cui Cola di Rienzi, La caduta dei Longobardi, Caterina Howard, ma soffermò la sua attenzione sulla tragedia di Byron I due Foscari, come risulta da una lettera a G. Bienna, segretario della Fenice, in cui l'argomento è definito «pieno di passione e musicabilissimo» e per di più «fatto veneziano, e potrebbe interessare moltissimo a Venezia» Ancora al conte Mocenigo veniva precisato «si stacca dal genere del (4 luglio 1843). Nabucodonosor e dei Lombardi». Contrariamente agli intenti di Verdi, il soggetto venne ricusato dal teatro per non urtare le suscettibilità dei discendenti dei Foscari e dei Loredano, decidendosi il musicista a riservare alla Fenice l'Ernani Iche vi trionfò il 9 marzo 1844, su libretto di F.M. Piave ed a presentare I due Foscari al Teatro Argentina di Roma, nuovamente su testo di Piave. Sollecitato con urgenza da Verdi «fallo con impegno perché è un bel soggetto, delicato ed assai patetico. Osservo che in quel di Byron non c'è quella grandiosità scenica che è pur voluta dalle opere per musica. Metti alla tortura il tuo ingegno e trova qualche cosa che faccia un po' fracasso specialmente nel primo atto» (9 maggio 1844) a verseggiare, appena mandato il programma, Piave non perse tempo e qualche giorno dopo conobbe l'opinione del musicista: «Bel dramma, bellissimo, arcibellissimo... Trovo che il carattere del padre è nobile e ben trattato, quello di Lucrezia pure, ma quello di Jacopo è debole e di poco effetto scenico: io gli darei in principio un carattere più energico...» (14 maggio 1844). Nei giorni successivi vennero proposte altre modifiche mentre la composizione procedeva di pari passo e alla fine di giugno il primo atto era quasi ultimato, completandosi l'opera nella tarda estate. Il 3 ottobre Verdi partì per Roma per seguire le prove e il 3 novembre I due Foscari andarono in scena all'Argentina con il tenore Roppa nella parte di Jacopo, il baritono De Bassini come Francesco, il soprano Barbieri Nini nel ruolo di Lucrezia. Così ne scrisse Verdi il giorno successivo: «se i Foscari non sono del tutto caduti poco è mancato. Sia poi perché i cantanti hanno stonato assai... il fatto si è che l'opera ha fatto mezzo fiasco». Aggiungeva poi: «io avevo molta predilezione per quest'opera: forse mi sono ingannato, ma prima di ricredermi voglio un altro giudizio». Di rincalzo, Piave chiariva: «L'istessa aspettazione e l'esigenza hanno tenuto il pubblico in qualche freddezza... Verdi peraltro fu chiamato ben dodici volte al proscenio ma quello che sarebbe per altri un trionfo è nullo per esso. La musica dei Foscari è divina e non dubito che domani e sempre più sarà apprezzata». Per alcuni anni le rappresentazioni dei Due Foscari furono assai frequenti in Italia e all'estero, poi si fecero sempre più rare e nel Novecento soltanto nel primo dopoguerra, nel quadro della Verdi-Renaissance in Germania, si tornò ad allestire I due Foscari, pur se la critica ne parlava nei termini di un prodotto degli «anni di galera », del periodo cioè, tra l'Ernani (1844) e il Rigoletto (1851), in cui il compositore, benché celebre, non era ancora in grado di imporre agli impresari le sue condizioni e le sue scelte estetiche, ed in cui videro la luce dieci opere oltre a un rifacimento (Jérusalem). Lo stesso Verdi ebbe ad individuare, in senso negativo, il carattere fondamentale dei Due Foscari quando osservò, in una lettera al Piave, che nell'opera v'era «una tinta, un colore troppo uniforme dal principio alla fine» (22 luglio 1848). Ancor più monocromo appariva il poema di Byron al quale, secondo Verdi, Piave aveva dovuto inizialmente «stare attaccato» (18 aprile 1844), mentre in seguito il musicista ebbe sovente ad adoprarsi per correggere la monotonia dell'opera, ravvivando l'ambiente e la figura di Jacopo. Nei Due Foscari si può cogliere comunque la premonizione di quello che sarebbe diventato un filo rosso della drammaturgia verdiana, il rapporto contrastato tra il potere, con i suoi condizionamenti, e la sfera degli affetti privati: «la strada che passa per il Macbeth, il Simon Boccanegra e il Don Carlo ha inizio dai Due Foscari» ha notato, e giustamente, Massimo Mila. E d'altra parte, pur nella sua malinconia di base, può cogliersi un'essenzialità espressiva assai originale, anche sul piano strutturale, nella fusione dell'aria e del recitativo in un eloquio melodico continuo, modellato sull'evolversi delle passioni e delle vicende drammatiche, cioè il genere «diverso rispetto alla produzione precedente, come aveva divinato Verdi stesso. Ed inoltre, nell'allucinato monologo di Jacopo nel carcere (secondo atto) può anche presagirsi l'anticipazione di una celeberrima pagina, altrettanto visionaria, di Macbeth.»
La Vicenda
Atto primo. (Ouverture). Il Consiglio dei Dieci è in procinto di riunirsi per giudicare Jacopo Foscari, figlio dell'ottuagenario doge Francesco Foscari, già due volte punito con l'esilio per avere intrattenuto rapporti con governi stranieri ostili alla Repubblica Veneta e soprattutto perché accusato di essere il mandante dell'assassinio di Ermolao Donato, capo del Consiglio che gli inflisse la prima condanna. Il giovane, tornato in patria per assistere al processo, è turbato all'idea di dover comparire in catene dinanzi al padre, e la certezza di poter dimostrare la propria innocenza appare offuscata dal timore del nefasto ascendente che potrà esercitare in seno al Consiglio un suo autorevole membro, Jacopo Loredano, da anni acerrimo avversario dei Foscari ai cui intrighi egli attribuisce la mancata elezione del padre alla suprema magistratura e la successiva tragica scomparsa di due suoi fratelli («Qui ti rimani... Dal più remoto esilio... Odio solo, ed odio atroce...»). Lucrezia Contarini, la giovane sposa di Jacopo, attende con ansia il verdetto dei giudici; soltanto nella preghiera ella può trovare conforto. Ma la notizia della conferma della condanna le viene recata da una dama; reprimendo a stento i singhiozzi, decide di recarsi dal doge e di ricorrere alla sua autorità per ottenere la revoca della sentenza («No... mi lasciate... Tu al cui sguardo onnipossente... Si condanna e s'insulta l'afflitto...»). Il doge appare profondamente abbattuto: da tanti anni a capo della Repubblica ed ormai al tramonto della sua lunga esistenza, deve ora assistere, senza poter intervenire come gli suggerirebbe l'istinto paterno, alle dolorose vicende dell'unico figlio rimastogli. Anche le aspre parole di Lucrezia contribuiscono ad aumentare la sua profonda amarezza; egli non è in grado di interferire nelle decisioni del Consiglio, che con questa sentenza conferma i criteri di severità da adottare contro chiunque osi attentare alle leggi della Serenissima.