I DUE FOSCARI      

Giuseppe Verdi                                       
Opera in three acts in Italian
Libretto: Francesco Maria Piave
Premièr at Teatro dell’Opera di Roma – 3 November 1844
26, 29, 31 December 1957                                
Teatro La Fenice, Venezia    

TEATRO LA FENICE DI VENEZIA
Opening Performance 

Conductor: Tullio Serafin
Chorus master: Sante Zanon
Stage director: Franco Enriquez
Scene and costumes: Veniero Colasanti & John Moore

Francesco Foscari Doge of Venice GIANGIACOMO GUELFI baritone
Jacobo Fiesco his son MIRTO PICCHI tenor
Lucrezia Contarini wife to Jacopo LEYLA GENCER soprano [Role debut]
Jacobo Lorendano member of the Council of Ten ALESSANDRO MADDALENA bass
Barbarigo Senator, member of the Council OTTARINO BEGALI tenor
Pisana friend and confidante of  Lucrezia MARISA SALIMBENI soprano
Attendant on the Council of Ten AUGUSTO VERONESE tenor
Servant of the Doge UBERTO SCAGLIONE bass

Time: 1457
Place: Venice

Recording date 

Photos © GIACOMELLI, Venezia

Drawings © Veniero Colasanti e John Moore

 


GENCER ALLA FENICE
 
I DUE FOSCARI 
STAGIONE 1957 – 1958






CONTRACT FOR THE PERFORMANCES
1957.08.29

FROM THE SEASON PROGRAMME OF TEATRO ALLA FENICE
2023.10.06

DALL'ARCHIVIO STORICO DEL TEATRO LA FENICE

Photo: Tullio Serafin, Leyla Gencer e Mirto Picchi, interpreti dei Due Foscari di Giuseppe Verdi al Teatro La Fenice, 1957. [Archivio storico del Teatro La Fenice]
 
E invece la vicenda della truce vicenda di potere e di affetti che coinvolgeva due nobili famiglie veneziane era ben lungi dal concludersi, dal momento che come lo stesso Verdi aveva avvertito - l'opera sarebbe stata realizzata, destinata com'era ad approdare al teatro Argentina di Roma, dove verrà rappresentata in prima assoluta il 3 novembre del 1844, circa sei mesi dopo Ernani. In attesa di giungere alla composizione dell'Attila, seconda opera del compositore rappresentata in prima assoluta alla Fenice (nel marzo del 1846), Verdi gioca un brutto scherzo al teatro (e ai Loredan stessi, ammesso che davvero fossero stati loro l'ostacolo...). L'opera ambientata a Venezia, dopo l'esordio romano (e varie tappe in altri teatri della penisola) giunge a sua volta in laguna, però al teatro di San Benedetto:
Domenica appunto il teatro si riaperse co' Due Foscari, e l'egregio Badiali. L'annunzio di sì gradita novità era stato accolto molto avidamente dal pubblico, desideroso di conoscere alfine il vero intorno uno spartito, di cui si varie eran corse le voci; e l'opera, senza aver avuto uno strepitoso o straordinario successo, si può dire che sia generalmente piaciuta. Ella è una buona musicale fattura; poco poi rilieva il sapere s'ella o no in tutto risponda alle altre opere del fortunato maestro. È difficile e pericoloso far simili ragguagli nelle opere dell'ingegno: non si tratta di peso né di misura; questo ben si può con sicurezza affermare, che ne Due Foscari si riconosce l'autore del Nabucco e dell'Ernani. In essi si ha il medesimo se non forse maggiore studio di belle armonie, la medesima accurata e varia istrumentazione, parziali bellezze che caratterizzano la mano maestra, ed un gusto squisito. Con buona filosofia, il carattere della musica seconda sempre quello della situazione, e per questa convenienza di stile e imitazione di suoni è bello in ispecie il coro della introduzione, dove la musica con le cupe e gravi armonie s'impronta veramente del tetro tenor del pensiero. Molti accompagnamenti han questo pregio medesimo, e quando Lugrezia chiede alla piangente compagna se rechi la sentenza di morte, e quando il doge nella cavatina ricorda l'avello o la tomba nel suo duetto con la donna, la musicale espressione che veste la parola è sì acconcia e appropriata, che veramente ti si stringe il cuore. [...] Due pezzi però raccolsero il generale suffragio e son veramente di grandiosa e nobile invenzione: un terzetto nel second'atto e l'aria finale del basso. Il terzetto tra il basso, il soprano e il tenore comincia con un allegro assai mosso [...] ma il pezzo davvero magistrale è il secondo tempo così per bellezza di cantilene, e ingegnoso magistero degli strumenti, come per non so quale novità d'andamento e tessitura: onde mentre il basso e il tenore cantano il motivo principale, la donna fa loro variato accompagnamento, e con effetto vaghissimo i flauti ripetono nell'orchestra, quasi eco, la sua medesima frase. Il potere della composizione in questo luogo è mirabile. A questo, o che ci pare, non corrisponde la stretta, d'un pensiero piuttosto comune, e che non bene si converrebbe per la gagliarda espressione al personaggio del doge, uomo di sì grande età. [...] La situazione non può essere più commovente ed il maestro ne fu ispirato: con sì acconcio ed espressivo musicale linguaggio essa è significata. Bellissimo è il canto del primo tempo, reso con grande maestria ed espressione dal Badiali, che in tutta la parte del doge si mostra così buon attore che cantante; più bella ancora la stretta, quando alla voce del basso s'unisce, ad accompagnarlo, quella del soprano, e al canto rispondono i lugubri rintocchi della campana. Qui l'effetto della musica è possente, e lo spettatore si parte tocco e commosso, non altrimenti che dal famoso terzetto dell'Ernani.
Un aspetto davvero interessante e originale per Venezia è dato dalla presenza a teatro dello stesso Verdi, come si evince dalla chiusa della recensione:
Molta festa si fece al maestro e a' cantanti la prima sera, e quegli fu forzato ad uscire, letteralmente, ad ogni pezzo. La seconda si sapeva ch'egli era partito.?
 
Foto di scena dei Due Foscari di Giuseppe Verdi al Teatro La Fenice, 1957. Direttore d'orchestra Tullio Serafin; regia di Franco Enriquez, scene e costumi di Veniero Colasanti e John Moore. Interpreti: Gian Giacomo Guelfi (Francesco Foscari), Mirto Picchi (Jacopo Foscari), Leyla Gencer (Lucrezia), Alessandro Maddalena (Jacopo Loredan), Ottorino Begali (Barbarigo), Marisa Salimbeni (Pisana), Augusto Veronese (fante), Uberto Scaglione (servo del doge). . [Archivio storico del Teatro La Fenice]
 
Una presenza che a Venezia sarà davvero rara per quella che in fin dei conti era solo una delle numerose riprese dell'opera. E questo allestimento sarà solo il primo di altri, perché lo stesso titolo sarà ben presto riproposto, questa volta al teatro Apollo (già Teatro di San Luca o di San Salvatore, oggi dedicato a Goldoni), nel settembre dell'anno successivo:
La sera di mercoledì 9 andante si produssero i Due Foscari del maestro Verdi. [...] L'esito della prima sera, a vero dire, non fu dei più felici, per cagione che la Brunn fu presa da tale orgasmo che le paralizzò tutti i suoi mezzi, ed il tenore Nerozzi era lievemente indisposto - per cui i pezzi che veramente emersero furono la romanza di sortita e la grande aria finale cantate da Morino, che le disse e le agì benissimo; ed anzi dell'adagio dell'aria se ne domandò clamorosamente il bis. [...] La Brunn nella terza sera fece pompa di bella voce intonata, e di molto agilità, che usa con assai garbo e maestria e che la rende degna della sua maestra, la celebre Bertinotti. Nerozzi possiede il più bel metodo che possa desiderarsi ed allorché canta a mezza voce, pochi invero possono superarlo. Il baritono Morino, sebbene giovanissimo, si è veramente mostrato provetto artista. La sua voce tocca il cuore e canta di buonissima scuola. Egli si cattivò subito la simpatia del pubblico che non cessa di festeggiarlo. Noi non esitiamo a predire al Morino una brillante carriera.
Dovrebbe quindi stupire almeno un poco che La Fenice decida la ripresa dell'opera a Venezia nel febbraio del 1847, cinque mesi dopo il successo all'Apollo. Non è certo una scelta dell'impresario, dal momento che in quell'anno la stagione è in amministrazione della Società', vale a dire viene gestita dalla direzione; un certo peso potrebbe invece essere attribuito a Brenna, vera e propria 'sponda' veneziana di Verdi e dominus della programmazione prima dei moti del 1848 e della conseguente sua reclusione allo Spielberg. In realtà mai come in questo momento la situazione dirigenziale non appare del tutto chiara: dopo il tradizionale bando per l'appalto della stagione, la persona che appariva più titolata e atta a ricoprire questo incarico sembrava Abram Lattes e pareva che la sua proposta fosse la più idonea. In realtà si giunse a una sorta di sub appalto, dove Lattes si sarebbe occupato della gestione pratica degli eventi, ma il peso delle decisioni restavano in carico alla Nobile Società, creando forse una situazione poco chiara e di esito incerto e pericoloso. A più riprese era stato lo stesso Brenna a muoversi anche per la scelta degli artisti, sia per lettera sia anche mettendosi in viaggio (ad esempio a Vienna, verso la metà del gennaio 1846) e stringendo accordi ufficiali con molti di loro. Vale comunque la pena ricordare almeno un punto del capitolato di appalto, autografato da Lattes in calce, e datato 8 ottobre 1846: dopo infiniti ed estenuanti dettagli circa aspetti importanti per la gestione ma non molto stimolanti sotto il profilo artistico, si decide l'opera di apertura (Alberico da Romano), l'opera di Ricci e La Favorita, lasciando ancor da scegliere il quarto titolo della stagione. Presago delle difficoltà, che poi puntualmente si verificarono, ecco il capo 11: 
Sarà dovere del gerente di tenere in pronto uno spartito vecchio di esperimentata riuscita da sostituirsi a quella delle quattro opere della stagione suindicate che non avesse incontrato il pubblico aggradimento, per cui giunti che sieno tutti gli artisti alla piazza dovrà stabilire siffatto spartito di consenso colla Presidenza, e il Podestà, provvedendo in modo che nel più breve spazio di tempo possibile, e precisamente nel ristretto termine di otto giorni possa essere posto in scena. Quest'opera di ripiego sarà una sola in tutta la Stagione, non una ad ogni una delle quattro da prodursi.
 
CRONOLOGIA / DALL'ARCHIVIO STORICO DEL TEATRO LA FENICE
 
I due Foscari, tragedia lirica in tre atti di Francesco Maria Piave da un dramma di George Byron, musica di Giuseppe Verdi
1. Francesco Foscari 2. Jacopo Foscari 3. Lucrezia Contarini 4. Jacopo Loredano 5. Barbarigo 6. Pisana 7. Fante del Consiglio dei dieci 8. Servo del doge
 
1846-1847 - Stagione di Carnevale-Quaresima
10 febbraio 1847 (10 recite).
1. Cesare Badiali 2. Luigi Ferretti 3. Emilia Goggi (Giuseppina Cella) 4. Francesco De Kunert 5. Angelo Zuliani 6. Marietta De Rosa Zambelli 7. Carlo Crosa 8. N. N. - Pr. vl e dir. d'orch.: Gaetano Mares; Istr. e dir. dei cori: Luigi Carcano; scen.: Giuseppe Bertoja. Solo atto III: 28.11; 4.111, 6. III.
1854-1855-Stagione di Carnevale-Quaresima
7 gennaio 1855 (8 recite).
1. Giovanni Corsi 2. Luigi Toffanari 3. Marianna Barbieri Nini 4. Marco Ghini 5. Salvatore Poggiali 6. Luigia Morselli 7. N. N. 8. N. N. - M° conc.: Carlo Ercole Bosoni; M. istr. dei cori: Luigi Carcano; scen.: Giuseppe Tencalla.
1957-1958 - Stagione Lirica Invernale
26 dicembre 1957 (4 recite).
1. Gian Giacomo Guelfi 2. Mirto Picchi 3. Leyla Gencer 4. Alessandro Maddalena 5. Ottorino Begali 6. Marisa Salimbeni 7. Augusto Veronese 8. Uberto Scaglione - M° conc.: Tullio Serafin; M° del coro: Sante Zanon; Reg.: Franco Enriquez; Real. scen.: Bruno Montonati e Arturo Benassi.
1976-1977 - Opera e balletto
27 febbraio 1977 (6 recite).
1. Renato Bruson 2. Franco Tagliavini 3. Maria Parazzini 4. Alessandro Maddalena 5. Osvaldo Alemanno 6. Annalia Bazzani 7. Guido Fabbris 8. Paolo Cesari - M° conc.: Bruno Bartoletti; M° del coro: Aldo Danieli; Reg.: Sylvano Bussotti; Scen. e cost.: Tono Zancanaro.

CORRIERE DELLA SERA                                          
1958.12.31       

OPERA MAGAZINE                                       
1958 March

RADIOCORRIERE.TV                                                  
1958.08.01                                                     

LA LIRICA ALLA RADIO

I DUE FOSCARI

L'opera giovanile di Verdi, che fu rappresentata per la prima volta all'Argentina di Roma nel 1844, sarà trasmessa nell'edizione recentemente allestita dal Teatro La Fenice e diretta da Tullio Serafin

 
I due Foscari è una delle poche opere di Verdi con cui non ab biamo alcuna familiarità di spettatori: la sesta, rappresen tata per la prima volta il 3 novembre 1844, a Roma.
Ormai le opere verdiane scono sciute, anche perché non incise, sono poche: oltre a quella, la Gio anna d'Arco, l'Alzira, a Attila, I masnadier. Il corsaro e Stiffelio. Ma tra qualche decennio saranno note tutte, perché l'interesse per Verdi, lungi dal diminuire, si accresce sempre; e la Radio-benemerenza di cui non ci si deve scordare - continua a ravvivare il fuoco di un culto che non è soltanto artistico.
Quando Verdi stava componendo I due Foscari, la sua salute era tutt'altro che buona. Egli era stanco, precocemente sfibrato dal lavo ro. Aveva dato l'incarico del libretto a Francesco Maria Piave, già autore dei versi dell'Ermani. Lo stesso discutibile poeta doveva poi fornirgli i libretti del Macbeth, del Corsaro, dello Stifelio, del Rigoletto, della Traviata, del Simon Boccanegra e della Forta del destino: un collaboratore prezioso e un complice.
Il soggetto, tolto da una tragedia che Byron aveva tratto dalla storia della Repubblica di Venezia, è tragico, é cupo da cima a fondo ed è monotono, I personag gi sono statici e queruli. Anni dopo Verdi scrisse appunto al Plave: Nei soggetti naturalmente tristi, se non si è ben cauti si finisce per fare un mortorio, come, per modo d'esempio, I Foscari, che hanno una tinta, un color troppo uniforme dal principio alla fine.
C'è amor di Patria, e molto; ma anche ambizione, gusto della tiran nia, crudeltà di settarii: come e più che nel Simon Boccanegra. Oltre ai singoli personaggi, Luerezia, Jacopo e il Doge, il Consi glio del Dieci, blocco palcologico sonoro che anticipa quello del collegio sacerdotale dell'Aida. L'opera ebbe dapprima un buon successo non incontrastate, I cantanti furono criticati con severità. Però la seconda sera si rifecero e l'autore venne chiamato alla ribalta una trentina di volte. Tra gli ammiratori del Due Foscari, ci fu subito Donizetti. Diceva di Verdi: Andrà avanti avanti assai.
Gli ascoltatori della Radio facciano anzitutto attenzione ai motivi che precedono l’estrata del personaggi: quello cosi grave del Doge, quello febbrile di Lucrezia, quello strisciaste del Consiglio del Dieci, quello elegiaco, davvero bello, di Jacopo Foscari. E' vero che tali motivi non hanno sviluppo ed aggiungono col loro ripetersi nero al nero; ma mi sbaglio od oggi assumono una significazione nuova, un rigore che noi comprendiamo meglio dei contemporanei di Verdi, una fierezza consentanea all'angoscia del mondo moderno. Il romanticismo musicale italiano rivela al nostro secolo quel che non poté rivelare al secolo decimonono.
 
Photo: Verdi al tempo della composizione del Due Foscari
 
Il preludio dei Due Foscari ha una forta tutta sua, consistendo in uno dei più elementari, radicali contrasti della musica di Verdi. Cosi il coro iniziale Silenzio, mi stero; e quella patriarcale, quella fatale ed affettuosa aria del Doge.
«O vecchio cor che batti», su cui vorremmo soffermarci, se non avessimo fiducia nella equa sensibilità dell'ascoltatore di oggi. Questo non il Verdi di un periodo piuttosto che di un altro: e il Verdi eterno.
Il secondo atto è indiscutibilmente il migliore. In Italia, per fortuna, ci sono ancora orecchie buone per cogliere le schiette bellezze del duetto. «No, non morrai», del terzetto seguente e del finale.
Il terzo atto invece risente della stanchezza del compositore, sebbene non manchi neanch'esso di energia e di dolcezza, nel suo squilibrio medesimo. Vi si noti in ogni modo il progresso della venatura del recitativo.
Donizetti non aveva torto: nel Due Foscari il bello c'è soltanto a lampi. I Due Foscari sono come un cielo tempestoso, illuminato di quando in quando dal lampo o dalla saetta. E' un'opera magra, riarsa, oseremmo dire dannata. Però è cosi caratteristica, coal sulfurea, cosi verdiana! It genio vi è raro, sia pure rarissimo; ma alle state di fulmine o di dinamite, Verdi dei Due Foscari veste di pelo di cammello e si nutre di locuste di miele selvatico. E' il precursore di se stesso.
Gran parte della critica condanna ancora I due Foscari: opera degli anni grigi, di un lungo smarrimento. Bisogna aspettare, aggiungono, il Rigoletto e la Luisa Miller. Qui si consiglia di ascoltare con attenzione, con profondo rispetto, con animo sgombro da pregiudizi Può darsi che venga il giorno in cui le opere nere, le opere dirute di Verdi tornino ad affascinare il pubblico. I gusti cambiano, le inclinazioni si evolvono, la nuda so stanza delle cose d'arte finisce col prevalere sulle forme, per ricche che queste siano.
All'inizio di questo secolo II Trovatore era considerato una chitar ronata; oggi un capolavoro che ha del terribile. Non si dice che I due Foscari possano un giorno e l'altro avere la stessa fortuna, questo no: si dice semplicemente che il gruppo delle opere depresse di Verdi sedurrà prima o poi gli artisti e susciterà nel pubblico nuovo stupore. [Emilio Radius]

KOBBE'S COMPLETE OPERA BOOK                                   
1976

IL PICCOLO                                
1983.10.18

COMPLETE RECORDING                        
1957.12.31

Recording Excerpts [1957.12.31]

Preludio Act I
Silenzio… Mistero… Act I Scena I
Qui ti rimani alquanto Act I Scena I
Del Consiglio alla presenza Act I Scena I
No... mi lasciate Act I Scena II
Tu al cui sguardo Act I Scena II
Che mi rechi? Act I Scena II
Tacque il reo! Act I Scena III
Eccomi solo alfine Act I Scena IV
L'illustre dama Foscari Act I Scena IV
Tu pur lo sai, che giudice Act I Scena IV
Di sua innocenza dubiti? Act I Scena IV
Notte! Perpetua notte che qui regni! Act II Scena I
Ah sposo mio! Act II Scena I
No, non morrai Act II Scena I
Tutta è calma la laguna Act II Scena I
Ah, padre!... Figlio Act II Scena I
Nel tuo paterno amplesso Act II Scena I
Addio... Parti? Act II Scena I
Che più si tarda? Act II Scena II
O patrizi... il voleste Act II Scena II
Alla gioia! Alle corse Act III Scena I
Queste innocenti lagrime Act III Scena I
La giustizia del leone! Act III Scena I
All'infelice veglio Act III Scena I
Egli ora parte! Act III Scena II
Più non vive! Act III Scena II
Signor, chiedon parlarti i dieci Act III Scena II
Questa è dunque l'iniqua mercede Act III Scena II
Che venga a me, se lice Act III Scena II
Quel bronzo fatale Act III Scena II

FROM CD BOOKLET
I DUE FOSCARI
LUIGI BELLINGARDI

Reso celebre dall'affermazione di Nabucco (9 marzo 1842) e dei Lombardi alla prima crociata (11 febbraio 1843), egualmente alla Scala, Verdi (Roncole di Busseto, Parma 1813-Milano 1901) cominciò a ricevere inviti da altri teatri italiani, principalmente dalla Fenice che commissionò al musicista un'opera nuova. Verdi prese in esame vari soggetti, tra cui Cola di Rienzi, La caduta dei Longobardi, Caterina Howard, ma soffermò la sua attenzione sulla tragedia di Byron I due Foscari, come risulta da una lettera a G. Bienna, segretario della Fenice, in cui l'argomento è definito «pieno di passione e musicabilissimo» e per di più «fatto veneziano, e potrebbe interessare moltissimo a Venezia» Ancora al conte Mocenigo veniva precisato «si stacca dal genere del (4 luglio 1843). Nabucodonosor e dei Lombardi». Contrariamente agli intenti di Verdi, il soggetto venne ricusato dal teatro per non urtare le suscettibilità dei discendenti dei Foscari e dei Loredano, decidendosi il musicista a riservare alla Fenice l'Ernani Iche vi trionfò il 9 marzo 1844, su libretto di F.M. Piave ed a presentare I due Foscari al Teatro Argentina di Roma, nuovamente su testo di Piave. Sollecitato con urgenza da Verdi «fallo con impegno perché è un bel soggetto, delicato ed assai patetico. Osservo che in quel di Byron non c'è quella grandiosità scenica che è pur voluta dalle opere per musica. Metti alla tortura il tuo ingegno e trova qualche cosa che faccia un po' fracasso specialmente nel primo atto» (9 maggio 1844) a verseggiare, appena mandato il programma, Piave non perse tempo e qualche giorno dopo conobbe l'opinione del musicista: «Bel dramma, bellissimo, arcibellissimo... Trovo che il carattere del padre è nobile e ben trattato, quello di Lucrezia pure, ma quello di Jacopo è debole e di poco effetto scenico: io gli darei in principio un carattere più energico...» (14 maggio 1844). Nei giorni successivi vennero proposte altre modifiche mentre la composizione procedeva di pari passo e alla fine di giugno il primo atto era quasi ultimato, completandosi l'opera nella tarda estate. Il 3 ottobre Verdi partì per Roma per seguire le prove e il 3 novembre I due Foscari andarono in scena all'Argentina con il tenore Roppa nella parte di Jacopo, il baritono De Bassini come Francesco, il soprano Barbieri Nini nel ruolo di Lucrezia. Così ne scrisse Verdi il giorno successivo: «se i Foscari non sono del tutto caduti poco è mancato. Sia poi perché i cantanti hanno stonato assai... il fatto si è che l'opera ha fatto mezzo fiasco». Aggiungeva poi: «io avevo molta predilezione per quest'opera: forse mi sono ingannato, ma prima di ricredermi voglio un altro giudizio». Di rincalzo, Piave chiariva: «L'istessa aspettazione e l'esigenza hanno tenuto il pubblico in qualche freddezza... Verdi peraltro fu chiamato ben dodici volte al proscenio ma quello che sarebbe per altri un trionfo è nullo per esso. La musica dei Foscari è divina e non dubito che domani e sempre più sarà apprezzata». Per alcuni anni le rappresentazioni dei Due Foscari furono assai frequenti in Italia e all'estero, poi si fecero sempre più rare e nel Novecento soltanto nel primo dopoguerra, nel quadro della Verdi-Renaissance in Germania, si tornò ad allestire I due Foscari, pur se la critica ne parlava nei termini di un prodotto degli «anni di galera », del periodo cioè, tra l'Ernani (1844) e il Rigoletto (1851), in cui il compositore, benché celebre, non era ancora in grado di imporre agli impresari le sue condizioni e le sue scelte estetiche, ed in cui videro la luce dieci opere oltre a un rifacimento (Jérusalem). Lo stesso Verdi ebbe ad individuare, in senso negativo, il carattere fondamentale dei Due Foscari quando osservò, in una lettera al Piave, che nell'opera v'era «una tinta, un colore troppo uniforme dal principio alla fine» (22 luglio 1848). Ancor più monocromo appariva il poema di Byron al quale, secondo Verdi, Piave aveva dovuto inizialmente «stare attaccato» (18 aprile 1844), mentre in seguito il musicista ebbe sovente ad adoprarsi per correggere la monotonia dell'opera, ravvivando l'ambiente e la figura di Jacopo. Nei Due Foscari si può cogliere comunque la premonizione di quello che sarebbe diventato un filo rosso della drammaturgia verdiana, il rapporto contrastato tra il potere, con i suoi condizionamenti, e la sfera degli affetti privati: «la strada che passa per il Macbeth, il Simon Boccanegra e il Don Carlo ha inizio dai Due Foscari» ha notato, e giustamente, Massimo Mila. E d'altra parte, pur nella sua malinconia di base, può cogliersi un'essenzialità espressiva assai originale, anche sul piano strutturale, nella fusione dell'aria e del recitativo in un eloquio melodico continuo, modellato sull'evolversi delle passioni e delle vicende drammatiche, cioè il genere «diverso rispetto alla produzione precedente, come aveva divinato Verdi stesso. Ed inoltre, nell'allucinato monologo di Jacopo nel carcere (secondo atto) può anche presagirsi l'anticipazione di una celeberrima pagina, altrettanto visionaria, di Macbeth.»

«La riesumazione nel Novecento in Italia dei Due Foscari ebbe luogo nel 1951 alla RAI di Milano, sotto la bacchetta di Giulini, mentre sulle scene, dopo la riproposta a Stoccarda con Leitner nel 1956, la ripresa moderna si ebbe alla Fenice di Venezia il 26 dicembre 1957, sotto la guida di Serafin, con la regia di Enriquez e con Leyla Gencer, Mirto Picchi e Gian Giacomo Guelfi nelle parti principali. È da una replica di tale spettacolo che derivano i brani pubblicati nel presente disco, i cui punti di forza si ravvisano nell'animata direzione di Tullio Serafin che, pur avendo allora settantanove anni, riesce sempre a sottolineare con equilibrio in orchestra l'intensità delle situazioni espressive, nell'interpretazione appassionata e grandiosa della Gencer, allora ventinovenne, nell'incisività d'accenti del tenore fiorentino Mirto Picchi, nel misurato fraseggio di Guelfi, baritono romano allora trentatreenne. Il successo di questo spettacolo veneziano ha garantito il definitivo recupero dei Due Foscari al repertorio dei maggiori teatri.

La Vicenda

Atto primo. (Ouverture). Il Consiglio dei Dieci è in procinto di riunirsi per giudicare Jacopo Foscari, figlio dell'ottuagenario doge Francesco Foscari, già due volte punito con l'esilio per avere intrattenuto rapporti con governi stranieri ostili alla Repubblica Veneta e soprattutto perché accusato di essere il mandante dell'assassinio di Ermolao Donato, capo del Consiglio che gli inflisse la prima condanna. Il giovane, tornato in patria per assistere al processo, è turbato all'idea di dover comparire in catene dinanzi al padre, e la certezza di poter dimostrare la propria innocenza appare offuscata dal timore del nefasto ascendente che potrà esercitare in seno al Consiglio un suo autorevole membro, Jacopo Loredano, da anni acerrimo avversario dei Foscari ai cui intrighi egli attribuisce la mancata elezione del padre alla suprema magistratura e la successiva tragica scomparsa di due suoi fratelli («Qui ti rimani... Dal più remoto esilio... Odio solo, ed odio atroce...»). Lucrezia Contarini, la giovane sposa di Jacopo, attende con ansia il verdetto dei giudici; soltanto nella preghiera ella può trovare conforto. Ma la notizia della conferma della condanna le viene recata da una dama; reprimendo a stento i singhiozzi, decide di recarsi dal doge e di ricorrere alla sua autorità per ottenere la revoca della sentenza («No... mi lasciate... Tu al cui sguardo onnipossente... Si condanna e s'insulta l'afflitto...»). Il doge appare profondamente abbattuto: da tanti anni a capo della Repubblica ed ormai al tramonto della sua lunga esistenza, deve ora assistere, senza poter intervenire come gli suggerirebbe l'istinto paterno, alle dolorose vicende dell'unico figlio rimastogli. Anche le aspre parole di Lucrezia contribuiscono ad aumentare la sua profonda amarezza; egli non è in grado di interferire nelle decisioni del Consiglio, che con questa sentenza conferma i criteri di severità da adottare contro chiunque osi attentare alle leggi della Serenissima.

Atto secondo. In una cella sotterranea Jacopo, adagiato sopra un giaciglio, medita sconfortato sul proprio destino («Non maledirmi, o prode...»); si scuote solo al sopraggiungere di Lucrezia, venuta a consolarlo nel drammatico momento («No, non morrai; ché i perfidi... Maledetto chi mi toglie...»). Anche il doge, accompagnato da un servo, discende nella cella; egli vuole rassicurare il figlio che l'affetto per lui è rimasto intatto, malgrado l'ardua prova sostenuta («Nel tuo paterno amplesso...»).  Frattanto Loredano con alcuni fanti del Consiglio è apparso sull'uscio; egli fissa con malcelato disprezzo i due Foscari, quindi intima a Jacopo di seguirlo: lo attendono i Dieci per notificargli la sentenza e renderla esecutiva («Ah sì, il tempo che mai non s'arresta.. »). Il Consiglio dei Dieci è di nuovo riunito e all'assemblea partecipa anche il doge; gli sguardi di tutti sono fissati su di lui e la sua ansia e l'intimo turbamento non sfuggono ad alcuno. Giunge finalmente Jacopo, circondato dalle guardie; scorre con crescente agitazione il dispositivo che conferma la condanna ed inutilmente il padre, cui egli si rivolge, cerca di indurlo alla rassegnazione. Sta per allontanarsi dall'aula allorché fa il suo ingresso Lucrezia: disperata e disposta a tutto, ha portato con sé i suoi due figlioli per impietosire e convincere i giudici a consentirle di condividere la sorte dello sposo. Ma ogni tentativo si rivela inutile e Jacopo viene trascinato via fra le lacrime dei suoi; dall'alto del seggio ove ha presieduto l'assemblea il doge, profondamente commosso, reprime a stento i propri sentimenti di pietà («Queste innocenti lagrime... Vedi, al sepolcro in seno...»).
Atto terzo. Gruppi di maschere affollano la piazzetta di San Marco, mentre sulla laguna alcuni gondolieri gareggiano con le loro imbarcazioni. L'atmosfera è festosa, ma sarà presto offuscata da alcuni squilli di tromba provenienti dal Palazzo Ducale; il portale poi si spalanca e ne escono alcuni membri del Consiglio che precedono Jacopo Foscari. Questi, circondato da un drappello di armati, si avvia verso la riva ove l'attende la galea che dovrà condurlo in esilio a Candia; prima di salire sul battello, egli si rivolge ancora una volta a Lucrezia che l'ha seguito sin lì per dargli l'ultimo addio. Straziante è il commiato fra i due, anche se Jacopo si sforza di apparire sereno e di infondere alla moglie la necessaria rassegnazione; devono però alla fine separarsi e, mentre Jacopo si allontana, Lucrezia si abbatte a terra, disperata («All'infelice veglio... Ah padre, figli, sposa...»). Il vecchio doge riflette sugli ultimi eventi e piange sulla sorte del figlio che sa di non poter più rivedere, allorché un senatore, sopraggiunto in preda ad intensa agitazione, gli reca la notizia che il vero assassino di Ermolao Donato ha confessato la verità in punto di morte scagionando Jacopo Foscari. Il doge appare quasi fuori di sé dalla gioia, ma è troppo tardi: Lucrezia, senza più lacrime, gli annuncia che Jacopo stesso non ha retto al dolore per la crudele separazione ed è spirato a bordo della galea che avrebbe dovuto portarlo in esilio. Le sventure del vecchio Foscari non sono ancora finite; gli chiedono infatti udienza i membri del Consiglio dei Dieci, a nome dei quali Loredano gli intima di dimettersi dalla suprema carica della Repubblica. Foscari cerca di resistere, non intendendo sottostare a quella che ritiene una autentica violenza, ma alla fine deve cedere («Questa dunque è l'iniqua mercede...»): rimette le insegne dogali ai senatori, poi chiama a sé Lucrezia e si allontana dalla sala in preda a profonda amarezza. Sulla soglia lo trattiene il suono delle campane che annunciano al popolo la nomina del suo successore; il vecchio cuore non regge a tanta emozione ed egli stramazza a terra esanime («Padre... mio prence... Quel bronzo ferale... Ah, morte è quel suono!!!...»).