Press [1995 - 2004]


1 9 9 5

BAKERS DICTIONARY   
1995

DISCOVERING OPERA  
1995

THE TRANSCRIPT        
1995.10.06

LA STAMPA           
1995.10.08

1 9 9 6


LA REPUBBLICA            
1996.01.31
 
Il simbolo della cultura dimenticata
 
MILANO - Un coro unanime di sdegno, collera, indignazione. Cantanti, registi, direttori d' orchestra da tutta Italia sono sgomenti di fronte alla distruzione di un teatro che per ognuno di loro è stato un pezzo di storia italiana e di vita personale. Claudio Abbado esprime, con la Berliner Philharmoniker, la solidarietà al sindaco Cacciari e ai lavoratori della Fenice, offrendo la disponibilità "a una concreta collaborazione", ma soprattutto confermando il concerto previsto per maggio. Più polemico è il veterano della musica lirica italiana. Gianandrea Gavazzeni, lamenta "questo secolo tutto votato alla tecnologia che pretende di dare sicurezza alle sue costruzioni e intanto le distrugge". Affranta anche sua moglie, il soprano Denia Mazzola, ricordando di quando, giovane debuttante, venne scelta nell' 82 per L' italiana in Algeri alla Fenice. "Aveva una magia unica al mondo", dice con le lacrime agli occhi il soprano Leyla Gencer - Spero solo che La Fenice rinasca come era, fatto di legno, non come quegli orrendi teatri moderni". Giorgio Strehler ha parole amare: "E' il simbolo dell' Italia che crolla. Viviamo in un Paese che non è in grado di preservare la cultura e i suoi simboli". Va più in là il regista e compositore Roberto De Simone: "Una disgrazia? Nel ' 700 c' erano le disgrazie quando nei teatri c' erano le candele. Oggi si può parlare solo di disattenzione. Ho il cuore a pezzi e pieno di rabbia". Appelli di solidarietà sono arrivati da Jack Lang ex ministro francese alla Cultura ("Se si costituirà un comitato internazionale per raccogliere fondi, sono pronto a dare il mio contributo"), dal sovrintendente alla Scala, Carlo Fontana, ("Sono personalmente disponibile, con tutti gli artisti e le maestranze della Scala, per qualsiasi iniziativa") dal Comunale di Bologna, dal Comune di Milano. Ma anche accuse: il regista Maurizio Scaparro che avrebbe dovuto allestire due opere tra marzo e aprile alla Fenice ("La disattenzione per la cultura produce in Italia effetti devastanti"); Roman Vlad, ("Non c' erano altri elicotteri antincendio? A cosa serve la base di Aviano? Soltanto a scatenare bombardamenti aerei contro la Bosnia?"); Giuseppe Patroni Griffi ("Io non credo che i teatri brucino da soli, li bruciano. E non riesco a capire i reconditi motivi, i perversi disegni, forse mafiosi, che stanno dietro al rogo. Sulla ricostruzione sono pessimista. Sarà un falso. E poi? Quanto tempo ci vorrà? Aspetteremo anni come è avvenuto per il Massimo di Palermo o come sta accadendo per il Petruzzelli?").

LA REPUBBLICA
1996.02.06
ANNA BANDETTINI

Pavorotti: Finita un’epoca

Milano - Si chiude un' epoca, dice chi lo conosceva, chi gli era stato vicino in teatro. Ma per gli amici, per gli artisti che gli si erano affezionati indelebilmente, Gianandrea Gavazzeni era un grande uomo e un artista ricco di cultura e umanità. Così il mondo della lirica lo ricorda unanimemente. Con il dolore che si prova di fronte alle grandi perdite dice Riccardo Muti: "Gavazzeni è stato per tutti noi musicisti una figura autorevole e un uomo generoso nel consigliarci". E Luciano Pavarotti: "Era il simbolo di una generazione di meravigliosi musicisti. Con lui si chiude l' epoca del belcanto che ora non ha più protagonisti. Era così bello ascoltarlo durante le prove. Non so più nemmeno io quanti Verdi ho fatto con lui, quanti Rigoletto. Con Verdi, io dicevo sempre che lui ci faceva fare le ' frasi alla Gavazzeni' , perché aveva portato le frasi larghe, cogliendo l' esuberanza, la potenza verdiana". Affranti due grandi amici, Leyla Gencer e Carlo Bergonzi che con Gavazzeni hanno condiviso 40 anni di carriera e di vita. Il soprano: "Prima La Fenice, ora il maestro. Per me erano intimamente legati. Con Gavazzeni ho fatto le cose più importanti. Di lui era sorprendente la capacità di essere profondo e brillante. Una delle ultime volte che ci vedemmo, mi regalò ' Le affinità elettive' di Goethe, con una dedica, come faceva sempre". E Bergonzi: "Dopo Karajan, Serafin, Votto, c' era lui. Se ne va un' epoca. Io l' adoravo e lui aveva un' adorazione per me, diceva che solo io potevo cantare ' Si schiude in ciel' dall' ultimo atto dell' Aida". Con Gavazzeni se ne va "un mondo culturale e musicale che, prima ancora che sull' arte ha basato le sue fondamenta su straordinari valori umani" ha ricordato Carlo Fontana, sovrintendente scaligero "per la Scala dove ha diretto per più di 50 anni, ha rappresentato la memoria storica". Commosse Renata Tebaldi che oggi ricorda "la simpatia, la giovialità e la grande cultura" e Mirella Freni che conobbe Gavazzeni nel 1963, alla Scala per L' amico Fritz di Mascagni e che avrebbe cantato nella Fedora scaligera del prossimo marzo: "Abbiamo lavorato insieme soprattutto in questo ultimo periodo. Nel repertorio verista mi ha insegnato tutto". Il soprano Rajna Kabaiwanska, aveva esordito nel mondo della lirica proprio con Gavazzeni: "Mi ha cresciuta lui. Era rimasto l' ultimo direttore a intendere la musica come una schiavitù nobile, come appartenenza totale del direttore al suo pubblico. La musica significava per lui soprattutto un modo per trasmettere emozioni ed io sono cresciuta con questo credo". Carla Fracci confessa che "con Gavazzeni se ne va una grande parte della mia giovinezza. Era il lume di cui si ha bisogno per non sbagliare nel cammino". (anna bandettini) o cresciuta con questo credo". Carla Fracci confessa che "con Gavazzeni se ne va una grande parte della mia giovinezza. Era il lume di cui si ha bisogno per non sbagliare nel cammino".

LA REPUBBLICA

1996.02.17
ANGELO FOLETTO

La mia priora per Gavazzeni'

Verona - "Sono andata avanti per forza d' inerzia. Non avrei voluto: l' ho fatto soltanto per rispettare la sua volontà". Denia Mazzola Gavazzeni, all' indomani del debutto al Teatro Filarmonico nei Dialoghi delle Carmelitane di Poulenc, opera che avrebbe dovuto segnare anche l' ennesimo esordio artistico per Gianandrea Gavazzeni: "Aveva sempre detto, gli impegni si onorano fino in fondo e i fatti personali non devono interferire. L' ho fatto anche in segno di affetto e di riconoscenza verso il teatro, i collaboratori e i colleghi". Il teatro non si ferma, ricordava l' appassionata prestazione della Mazzola nei panni di Madame Lidoine - parte che fu di Leyla Gencer nella prima assoluta alla Scala (26 gennaio 1957) - "la più spirituale dell' opera. La nuova Priora è la vera guida per tutte: l' ultimo arioso avrei tanto voluto cantarlo per lui. A lui l' ho dedicato. Ma sentivo che erano in molti a far musica come se fosse presente, l' altra sera". Gavazzeni non aveva mai diretto Les Dialogues pur amandola molto. Di certo l' avrebbe fatto offrendosi con la consueta profondità di sentire la drammaticità delle parole e l' inquietudine dell' esser religioso arso dai dubbi e indirizzato alla professione individualistica. "Il maestro era affascinato, oltre che dalla musica dal centro espressivo dell' opera", ricorda ancora la moglie: "quel continuo discutere sulle ragioni della vita e della morte fin dalle prime scene, che poi cresce progressivamente pur senza diventare freddo teologismo, mantenendo anzi una dolorosissima carica umana. E aveva un' autentica venerazione per il grandioso e terribile ' Salve Regina' che conclude l' opera (lo intonano le sedici carmelitane mentre salgono verso la ghigliottina; a ogni testa che cade, una voce si spegne, ndr), una pagina bellissima e densa: ' questo Salve Regina è la scala per il Paradiso' , diceva spesso. Anche per me ha un significato particolare: è l' ultima musica che gli ho cantato, pochi giorni prima della morte". Gavazzeni che ai Dialoghi aveva dedicato alcune pagine diaristiche leggibili nella raccolta Il sipario rosso conosceva anche molto bene l' autore, con il quale "aveva avuto molte occasioni di incontro. Di Poulenc parlava come un uomo mite, un pianista brillante e una personalità coltissima. In occasione della nascita dei Dialoghi ne ricordava la dolcezza e l' incapacità di entrare in conflitto con le logiche non sempre civili d' una rappresentazione teatrale così complessa e accompagnata da varie tensioni: prima assoluta, produzione difficile - la migliore regia della Wallmann, diceva sempre - compagnia di primedonne. Ci furono molte occasioni di scontro: l' autore non si ribellò né perse mai la pazienza". Al Filarmonico veronese c' era molta commozione, un clima intenso a una settimana dalla morte del maestro. Pertinente al carattere plumbeamente potenziale e celebrativo del martirio cattolico che dà spessore drammatico all' opera. D' alto livello la qualità esecutiva (molto efficace la distribuzione vocale con Danielle Streiff ottima protagonista e Anna Schiatti, Diane Curry, Darina Takova, Antonella Trevisan, Diego D' Auria, Jorge Perdigon e Alessandro Corbelli) e la classe dell' allestimento Grossi-Fassini importato dall' Opera di Roma. Per un non meno significativo passaggio di testimone la guida musicale fervida era di Roberto Tolomelli, scelto a suo tempo da Gavazzeni come assistente e promosso al primo podio.

THE TIMES         
1996.03.02

CORRIERE DELLA SERA          
1996.03.08

ALBUQUERQUE JOURNAL
1996.04.07

OPERA NEWS           
1996.04.16

TURKISH DIVA
Leyla Gencer discusses her career with Brian Kellow
 
OPERA NEWS: Did you have good experiences singing in competitions when you were young?
LEYLA GENCER: I never won. Never.

I was in the conservatory in Istanbul, and I worked on my technique very hard. But I had my problems. Then I met Giannina Arangi-Lombardi, who came to Istanbul from Ankara to stay in a villa. For vacation. She agreed to hear me audition, and when she asked me what I wanted to sing, I said Aida. I didn't know Arangi-Lombardi was the most famous Aida in Europe. She decided to work with me, but she complained that she got bored sitting around her villa, so she came to my villa on the Bosporus for two weeks. Every day from ten till one, we studied Trovatore, Aida, Ballo. And in the afternoon, after siesta, three more hours of study. And then she said, you come with me and audition in the state opera house in Ankara, where she trained young opera singers. I was engaged and continued to study with her. And after one year, malheureusement, she died.

I continued my studies with Apollo Granforte, who employed the same technique as Mme. Arangi-Lombardi had. It fit with my natural way of singing: with diaphragm, in maschera.

ON: You made your Italian debut in Naples, in 1953-54.
LG: Yes. I was in Naples and sang an audition at the open-air theater, the Arena Flegrea. I sang "È strano" and "Pace, mio Dio," and the management said to me, "Now we have in the opera theater Cavalleria Rusticana. You want to sing it?" I said, "I know the opera, but not in Italian. I know only the aria 'Voi lo sapete.'" And they said to me, "After five days, we give another Cavalleria. If you want to sing, you sing." So I studied and sang Santuzza, before an audience of 10,000. Then they understood that I was able not only to sing, but I could act, too, and they liked this very much.

Then in early 1954 I was engaged for Madama Butterfly and Eugene Onegin (in Italian) both at the San Carlo. Tullio Serafin asked for me. And this Onegin was the first one they'd done in fifty years. This was the beginning of my career -- without a competition!

ON: You worked with so many of the best maestros -- Serafin, De Sabata, Gavazzeni, Vittorio Gui.... Which one taught you the most?
LG: Serafin. He was the first to put me on the path toward bel canto. I studied with him Norma, Aida, I Due Foscari -- many roles over many years.

ON: When you were alternating between bel canto and the heavier Verdi roles, was it difficult at first to make that adjustment?
LG: No. I am un caso particolare -- a special case. It was no problem for me to sing Verdi, even early Verdi -- which is very difficult -- along with Donizetti and Bellini. Technically, early Verdi is very difficult, because the style of Rossini had made an impression on Verdi that was still with him when he wrote his early operas. But I just passed from one to the other.

I remember in San Francisco Lucia di Lammermoor. I learned the opera in five days. All the parts. Kurt Herbert Adler was intendant in San Francisco, and when he proposed me for Lucia, I was already there singing Traviata. I was still at the beginning of my career, and they had asked me for my repertory list. So, before going to San Francisco, I had written down all these roles that I didn't really know. I gave them a long list, and I knew it was a lie. Then, when Callas didn't show up for Lucia rehearsals in San Francisco, Adler looked at my list and saw Lucia, and suddenly, I had a grande problema. He came to me and said, "You sing for me Lucia." And I said, "But Mr. Adler, I don't know this opera." And he said, "You don't know it? È scritto!"

I never liked the standard exercises, vocalises. They annoyed me. For exercise, I would do the cadenza from the last act of Lucia, and "È strano..." It was the only part of the opera that I knew. I had only one week. When you are young, you are fearless. This was my first Donizetti role. And ever after, whenever different theaters would ask me to sing Donizetti, they would say that I was one of the first singers to create real interest in the Donizetti renaissance. I was considered a very successful Anna Bolena. My version is very different from Callas'. I never copied anyone. It was my interpretation. The example was Callas, but this was not good for me.

ON: How were relations with Callas when you were both at La Scala?
LG: I was the young soprano who came into the company, and she was already there. But we never had any difficulties.

ON: I love your recording of "Martern aller arten" from Mozart's Entführung. It's an amazing flesh-and-blood performance.
LG: Yes? You love? The big Mozartean critical establishment in Austria and Germany ... they didn't like my style. I thought, at this time, that Mozart must be interpreted in the Italian style, because Mozart loved the Italian style, and he composed for Italian singers. And the Austrian, German and English singers, teachers and critics thought that this was not exact, was not Mozart's style. I was, after all, a soprano drammatica d'agilità. It was rare at this time to find a singer like me to sing this repertory. In Mozart, the recitative is so important, and the Anglo­p;Saxon interpretation of recitative was very fast. But I have my personal idea of Mozart, and like a good Turkish girl, if I have one idea, I don't change. At first it was difficult to persuade these people to accept me. Now they say I was right.

ON: Were there offers from the Met over the years?
LG: Yes, but we never got together with the right role at the right time. The first offer was for Tosca, in 1956, but the discussions never got very far.

ON: Dialogues des Carmélites was so different from anything Poulenc had written before. Were you nervous about the way the La Scala premiere would be received?
LG: No. When La Scala first proposed me for it, I didn't want to sing it. I was appearing in San Francisco when the telegram came offering me the role of Mme. Lidoine. I showed it to Kurt Herbert Adler, and he gave me good advice. He told me I must, because Mme. Lidoine was an important role, and it would be an important work. So I began to study, and I grew to like the role very much. Wonderful role. I had my first applause with Lidoine's entrance ["Mes chères filles"]. When I finished, with a pianissimo, I got my first applause at La Scala. And they never applaud during Carmélites. [Historical aside: Opera magazine reported in 1957 that the opera was "a considerable disappointment" and thought it "doubtful whether it will outlive its initial attraction."]

ON: You also sang in the premiere of Pizzetti's Assassinio nella Cattedrale in 1958.
LG: Yes. I had not a very good part. The First Woman of Canterbury. The best personage was the bass. Pizzetti liked me very much and he asked for me. At least it was given a very grand production by La Scala.

ON: When you look in a reference book and see an entry about yourself, how do you feel about the way your career is represented?
LG: I immediately see all the mistakes. For instance, I never studied with Elvira de Hidalgo [Callas' teacher]. And they always get my age wrong. I was not born in 1924, and not 1922. It's 1928.

ON: What do you hope the Yapi Kredi Competition will accomplish?
LG: It's very good for the republic of Turkey that we have realized this very important musical event. It's important to give an idea of our potential, musically, to the rest of the world, to open up the possibility of collaboration, and to serve the new generation.

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LA REPUBBLICA            
1997.01.16
FAUSTO GIANI

Solo peccato veniale da splendido sessantenne

 
ROMA - Se il proverbio "a sessant' anni non si balla e non si canta" ha un certo seguito, c' e chi è più possibilista. Come Rodolfo Celletti, indiscussa autorità nel campo della voce: "Pavarotti ha già passato la sessantina. Arrivare a quest' età sul palcoscenico è già fenomenale, anche se a quell' età non sei più quello di prima.

Luciano ha ancora il timbro fresco e giovanile, ma i sovracuti - lui che andava perfino oltre il do di petto - non se li può più permettere. Forse, però, il vero problema di Pavarotti è l' emotività: oggi ha un' amante molto più giovane di lui. Benissimo, ma il canto è atletica pesante e tutto l' organismo deve partecipare".

Quest' ultima ipotesi non è condivisa da Giannino Tenconi, presidente dell' Associazione amici del loggione della Scala: "Ma andiamo! La laringe non è mica vicino ai genitali. Scherzi a parte, sulle stroncature Usa sono scettico: certe americanate vanno prese con un po' di prudenza. Certo, si dimentica le parole, ma il suo forte è la voce, non la memoria. Divo al tramonto? Non è più un ragazzino, d' accordo, ma resta uno dei migliori al mondo. L' emotività, la stanchezza? Può essere: per lui come per tutti". Condivide lo scetticismo sulle critiche l' indimenticato soprano Leyla Gencer, ritiratasi dalle scene nel momento del suo massimo splendore: "Gli americani esagerano nella stroncatura di Pavarotti, così come ieri esageravano negli elogi. Se Pavarotti ha dei difetti, li aveva anche prima. E quelli se ne accorgono solo oggi?". Di parere opposto Piero Gelli, autore della più aggiornata 'Guida all' opera lirica' : "Ce ne mettono gli americani ad accorgersene, ma poi alla fine ci arrivano anche loro. Ora che ha passato i sessanta, Pavarotti ha ancora la voce potente, ma dilata i tempi (e canta un' ottava sotto). E poi fa le canzonette. Ma almeno le faccia bene! E poi: non lo si sopporta più per via dell' immagine che si è cucita addosso. E' un' azienda, è tuttologo, presenzialista, è il 'tenore buono' che sventola il fazzoletto, i megaconcerti con gli 'amici del cuore' ... Ma non si ascolta? Non si vede? Non ha il senso del ridicolo? Ma chi lo consiglia?". L' 'azienda Pavarotti' irrita anche Enrico Stinchelli, che insieme a Michele Suozzo conduce a Radiotre 'La barcaccia' , la trasmissione lirica più seguita e apprezzata: "Quando uno è diventato, per così dire, nazional-popolare come Pavarotti, deve sapere che quando cade saranno spietati. E' il prezzo da pagare per il suo divismo". Più possibilista il suo collega Michele Suozzo: "A sessant' anni ha ben diritto di declinare. Ma via, le defaillances, quelle le ha sempre avute. Perciò si tratta di peccati veniali.

Eppoi, con tutto il daffare che ha con le case discografiche, l' attività promozionale...". E l' ipotesi di ritirarsi? Celletti: "E' difficile, per quelli come lui che sono diventati tanto famosi è come un suicidio". Gelli: "No, assolutamente, ma gli consiglio più riposo.

E ruoli più adeguati". Suozzo: "Appartiene alla schiera dei sessantenni che vorremmo fossero eterni". Stinchelli: "Ritirarsi no, ma cantare tutti i giorni fa male alla voce e ai nervi". Leyla Gencer: "Io ho lasciato per non deludere il pubblico e me stessa. Ma Pavarotti ha avuto in dono quella voce meravigliosa... Perché ritirarsi?". 

CORRIERE DELLA SERA          
1997.02.01

LA STAMPA          
1997.04.08

LA REPUBBLICA

1997.07.03
ANGELO FOLETTO

Pizzi: 'Il mio Macbeth scende nell’Arena

Verona - "Se Macbeth è l' opera dello smarrimento, della fatale solitudine e della notte invocata come complice, nessuno spazio è più adatto a evocarla della gigantesca volta del cielo spalancata dal catino dell' Arena". Parola di Pier Luigi Pizzi, autore dell' attesa messa in scena del Macbeth di Verdi che inaugura venerdì sera il 75esimo Festival areniano. Forte di una lunga confidenza con il capolavoro, affrontato per la prima volta come scenografo nel 1969 (per la regia di Giorgio De Lullo all' Opera di Roma: protagonista era Leyla Gencer) e di una militanza anticonformista degli spalti areniani già ridisegnati per 'Turandot' (1969) e 'Carmen' (1970), Pier Luigi Pizzi non crede al luogo comune delle opere 'areniane' . Anzi: "Dal mio punto di vista non potrei mai fare qui 'Aida' , che ritengo partitura intima come nessun' altra", confessa il regista che sta già montando l' 'Attila' che debutterà al Teatro Alighieri di Ravenna il 21 prossimo, "mentre mi appassiona l' idea di tradurre la claustrofobia di Macbeth in una sorta di fredda agorafobia, con i destini dei due protagonisti 'mossi' sempre dalle streghe (il coro e alcuni mimi insieme) ma schiacciati dall' immenso firmamento". La scena creata da Pizzi sviluppa lungo l' asse orizzontale "uno spettacolo tutto proiettato verso il pubblico", mentre le gradinate dietro il palcoscenico rimarranno deserte. Unico colpo di scena, l' apparizione del castello di Macbeth: "Salirà dal nulla, come per un sinistro incantesimo, e avrà l' aspetto di una gigantesca trappola, un' insidiosa esca per Duncano, vittima designata". E' solo la terza volta, dopo il 1971 e il 1982, che il capolavoro giovanile verdiano (titolo scelto, nella versione originale del 1847 anche per aprire il Festival di Martina Franca, tra venti giorni) approda in Arena. Lo fa con la veste delle grandi occasioni: spettacolo annunciato avvincente, coppia protagonistica di richiamo e collaudata (Maria Guleghina e Paolo Gavanelli) con Carlo Colombara e Giorgio Merighi a completare la prima distribuzione, Carla Fracci ("una sorta di doppio di Lady Macbeth") interprete della danze e John Neschling sul podio delle otto recite, fino al 26 agosto. Secondo titolo, Madama Butterfly, altro nuovo allestimento in prima da sabato (mentre domenica rinasce per l' ennesimo anno Aida nella versione storica 1913, diretta da Nello Santi). Debutto in casa per il veronese Beni Montresor, anche lui autore di regia, scene e costumi. Lo spettacolo, dedicato a Raina Kabaivanska che sarà Cio-Cio San per l' ultima volta, ha nove repliche (fino al 29 agosto) e sarà diretto da Angelo Campori: Francesca Franci è Suzuki, Keith Olsen Pinkerton, Giorgio Zancanaro Sharpless. Anche in questo caso, l' allestimento non cerca monumentalità estranee alla musica e lascia respirare i marmi areniani. Scenografia di base, oltre al bianco accecante rituale colore giapponese di morte, saranno le luci che Montresor ha voluto moltiplicare attraverso un gioco di specchi che investe i controllati gesti del personaggio della popolare tragedia giapponese.


LIBERARTION     
1997.09.13
ERIC DAHAN

…………… Car tous ­de sa professeure de chant à sa rivale légendaire Leyla Gencer­ s'accordent sur ce point : sa compréhension musicale supérieure était aussi servie par une puissance de travail impressionnante.

LA STAMPA          
1997.09.27

CORRIERE DELLA SERA          
1997.10.13

1 9 9 8


THE ART OF MAKING OPERA
1998 January
ML HART

CORRIERE DELLA SERA          
1998.02.09

LA STAMPA          
1998.02.25

OPERA INTERNATIONAL      
1998 September

Testimonianza di un interprete donizettiana.
 
Intervista a Leyla Gencer per Opera International (No. Settembre 1998) (ruccolta de Franca Cella)
 
Versione originale (senza .......!)
 
Intervista A Leyla Gencer
 
1797-1848, 200. Anni fa nascava, 150 anni fa moriva Gaetano Donizetti. Due stagioni di anniversari ravvicinati hanne stimoleto un panorama internazionale di esecuzieni, risceperte, conbegni, mostre, rapportie con un compositore acclamanto dai suoi centemporanci, poi ridinensienate a pochi titoli trainvanti, e recuperate oggi cen 56 opere, sulla 70 compostia.
 
Ne parliano com Leyla Gencer, interprete pilota della rinascita donizettiana degli anni 1960-1970, con le sue riscerparte di regine ed eroine, la carica di sucesso popolare restitaite a Donizetti, la ricerca di una verita donizettiana preseguita sensa sesta. 11 opere di impatta olamerese, subito multiplicate della represe ne grandi teatri, dall’Italia a Edinburgı a New York, a della diffusione caprillare di registratizioni live a CD; liriche da camera prefuse con seduzione nei suoi concerti, a fervere di docente, attualmente in oarica all’Accademia di perfezionamente del Teatro alla Scala.
 
Il feeling che ci attira a Donizetti?
 
La sua sensibilita moderna al momento psicologia. Forse la malattia gli dava la capacita di capire che cosa di profondo e quanti cambiamenti puo subire la mente umana, a seconda delle vicende, dei traumi che subisce. Nelle sue pazzie c’e assolutamente questa forza drammatica di cambiamenti repentini, improvissi, 

GAZETTA MATOVA

1998.10.11
 
Casa Verdi anche per giovani musicisti

Milano - La casa di riposo per musicisti`Fondazione Giuseppe Verdi' di Milanoospiterà dal `99 anche giovani studenti meritevolie bisognosi. "La Fondazione - ha detto ilpresidente Antonio Magnocavallo - ha procedutoad una riforma dello statuto: dal `99 CasaVerdi ospiterà anche studenti di musica di Conservatorio,Civica e Accademia della Scala, scelticon criteri di merito e disagio. Si cominceràda 2 a 4 ma sempre con la precedenza agli anzianimusicisti". A festeggiare la novità (proprioil 10 ottobre di 185 anni fa nacque GiuseppeVerdi), un vero e proprio `parterre de roi':da Saverio Borrelli a Giuseppe Di Stefano, Leyla Gencer, Giulietta Simionato, Magda Olivero.In 100 anni `Casa Verdi' ha ospitato piùdi 5000 anziani musicisti. Oggi gli ospiti sono60. Le stanze dopo la ristrutturazione saranno72. L'idea di aprire ai giovani è piaciuta ancheai grandi direttori Muti, Chailly, Abbado.

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DICTIONNAIRE DE LA MUSIQUE
EDITION 1999

ETTORE BASTIANINI        
1999 January
ALESSANDRO RIZZACASA

PHANTASMAGORIA A SOCIALOGY OF OPERA     
1999 January
DAVID T. EVANS

WOMEN IN THE WORLD HISTORY
(A BIOGRAPHICAL ENCYCLOPEDIA)
1999 January

LA VANGUARDIA        
1999.01.16

LA REPUBBLICA

1999.01.28
ROBERTO BIANCHINI 

Tre anni dal rogo, la Fenice non rinasce

Venezia - C' era un taglio di luna, e un' aria secca, quasi ferma, quella sera. Un cielo pulito che si vestì di fuoco e colorò di rosso, non erano neanche le nove, quando la Fenice bruciò, prima il tetto, poi tutta, si consumò in meno di una notte, come una scatola di fiammiferi. Era il 29 gennaio del 1996, sono passati tre anni, il suo scheletro è ancora lì, dentro una gabbia di tubi, ferme le gru, chiuso il cantiere, monumento alla vergogna. Ricorsi, denunce, tribunali, tutto bloccato, nessuno che sa dire quando i lavori ricominceranno, nessuno che osa dire quando Venezia riavrà la Fenice. Se la riavrà. E il mondo che aveva pianto, che si era mosso, che aveva mandato soldi (6 miliardi), e altri 8 ne aveva messi a disposizione su conti esteri, adesso s' indigna. Negli uffici del teatro, box piantati attorno al tendone del Palafenice nello squallore dell' isola-parcheggio del Tronchetto, piovono messaggi di rabbia e di dolore, da ogni parte, nel terzo anniversario dell' incendio. E' domani. Una ricorrenza mesta, senza discorsi, senza celebrazioni, senza più promesse. Solo una trasmissione alla radio, la mattina (RadioTre) e un concerto gratuito, la sera, nella chiesa di S. Stefano, organizzato dai lavoratori del teatro, che usano parole come "impotenza, preoccupazione, scetticismo, disattenzione, disagio", perché le prospettive di una riapertura "si allontanano". "Venezia senza teatro, senza teatri, è gravemente ferita, priva di memoria, di festa, di fantasia" dice il regista Maurizio Scaparro, che sente "tornare l' amarezza, l' emozione, la frustrazione". I messaggi alla Fenice, a tre anni dal rogo, piovono via internet, via fax, via posta. E se c' è ancora, nonostante tutto, speranza, nelle parole dei grandi nomi, come Leila Gencer, Dee Dee Bridgewater ("spero tanto di tornare a cantare nel teatro dove, prima di me, si sono esibiti Ella Fitzgerald e Ray Charles"), c' è solo sdegno e amarezza in quelli del popolo del loggione. "Dov' era, com' era, e dove non sarà mai ?" si chiede Michele Girardi, musicologo di Parma, che accomuna "la colpa atroce" di chi ha appiccato l' incendio a quella di chi "ne ostacola la ricostruzione". Una "decisione sconcertante" quella di sospendere i lavori, per Luca Garau, di Varese, che accusa la commissione prefettizia: "Con un bando di quel genere il gioco di corsi e ricorsi e ricorsi ancora, non era solo un rischio ma una certezza". Ma ce n' è anche per i veneziani "che sono sempre stati inarrivabili per baloccarsi con le parole" scrive Daria Mazzurana da Milano, e per i politici: "Signor Sindaco, Signor Prefetto, Signori Ministri - chiede Giulia Perocco - quando potremo dire di nuovo "è" e non "era" della Fenice? Da qualche mese ho scoperto che dico "era", vuol dire che il teatro sta diventando il passato, un pezzo morto, un brandello della memoria...". "E' umiliante - accusa Alvise Zanchi, veneziano, trentun anni e "nessuna fiducia di rivedere un' opera nel mio teatro" - ed è difficile non sentirsi traditi, orfani, feriti, e non scoprire in una luce sinistra, come dei personaggi da farsa amara, i politici e i responsabili che omettono di esporsi e di pronunciarsi con forza per sbloccare la situazione". "Stupidità, ignominia, incapacità" accusa Gabriele Visentini che se la prende con gli appalti chiamati "trasparenti" e invece "gestiti sempre alla stessa maniera" e con gli amministratori responsabili che si dimostrano, viceversa, "irresponsabili". C' è anche chi manda un racconto, come Giolonardo Dell' Arpa, musicista, che scrive di "un ragazzino che rivuole il suo sogno": "a lui non frega nulla dei soldi, della burocrazia, delle leggi e degli imbrogli: lui vuole di nuovo il suo luogo del sogno, rivuole il suo teatro". E c' è chi, più pragmaticamente, come la contessa Barbara Valmarana, manda un appello al ministro Melandri: "Ci aiuti, e aiuti i veneziani a riavere il loro teatro". Ma c' è anche chi, come Pierfranco Moliterni, docente all' università di Bari, chiede di non dimenticare il Petruzzelli, per far sì che "con l' aiuto di tutti e senza l' indifferenza di alcuno" risorga anche "il teatro dei pugliesi". Dall' America, dalla Francia, dall' Australia arrivano anche auguri e messaggi di speranza. "Fortuna e successo per la ricostruzione" scrive Claudia Meuli da Costanza, "Aspettiamo la riapertura con grande impazienza" dicono dall' associazione "Art et Fugue" di Ginevra, "che il teatro mi aspetti" digita Maura Termite da Milano, e Enrico Balli da Torino scrive venti volte la parola "solidarietà". E' una pioggia di messaggi. Roberto da Pavia, Claudio da Milano, Simone da Lucca, Francesco da Vicenza, Carlo da Torino, Cristiano da Ferrara, Alberto da Udine, Richard da Pistoia... perché, come scrive Leonardo, da Arezzo, "una storia così non può finire... stringete i denti!".


SCHERZO         
1999 March

CORRIERE DELLA SERA          
1999.05.12

OPERNWELT          
1999 June

OPERA NEWS       
1999 July
ALBERT INNAURATO
Riccardo Muti saved me from the Gypsies 
(Part I)

We were in Milan, on an unusually warm day for February, walking to lunch on my first day at La Scala.
 
"Where is your overcoat?" he asked. "Walk along in just a sweater, and suddenly little people will surround you. Gypsies. They will cover you with a rolled-up newspaper." He shapes both hands around an imaginary paper and conducts them over me, a mesmerizing presto in 6/8 time. "They will then vanish, and so will your money, and your watch and anything else they can get. You be careful."
 
Sure enough, a few days later I was walking to rehearsal when, on a crowded street corner, with carabinieri watching, I was circled like a flame by a gang of young women -- human moths, carrying newspapers. They were swift, silent and sudden. "Via!" I yelled, hitting at them. They scattered. There was applause. I looked sharply over at the cops, who merely shrugged.
 
I wasn't so unnerved by the thought of having nearly lost my money and passport -- but the Gypsies would have gotten my pass to La Scala! It had been stamped just a few days before by the company's sovrintendente (the big boss), Carlo Fontana.
 
"You see, I told you," Muti laughed later. "Always have armor on when you walk in the world. The Gypsies may still get you, but they will have to work for what they get."
 
Opera news had sent me to La Scala to cover the last two weeks of rehearsals and the first two performances of a new production of La Forza del Destino -- the first time La Scala has mounted the opera in twenty-one years. (The cast back then offered Montserrat Caballé, José Carreras, Piero Cappuccilli and Nicolai Ghiaurov.) But my real reason for being there was to try to discover the answer to some questions going around the music industry about La Scala. Once, the theater was considered one of the great opera centers of the world. Italian opera really lived there, under the guidance of the great old maestros: De Sabata, Serafin, Gavazzeni, Gui. Every singer dreamed of making a debut there; it was the Italian equivalent of playing the Palace. In recent years, though, La Scala's importance in a singer's career has declined. It has become a place many artists avoid, a company where chaos and mismanagement can make even the toughest, most ambitious soprano scramble to book a flight home.

At the center of much of the controversy surrounding La Scala's management is Riccardo Muti. Before coming to Milan to work on this article, I hadn't been sure about Muti. Already he was starting to win me over. I admitted as much to Elvio Giudici, a leading critic of La Musica and contributor to La Repubblica. "But of course," Giudici snapped, "Muti is buying you!" Then he hung up on me.
 
Giudici, who is also author of the exhaustive and brilliant L'Opera in CD e Video, a 1,200-page tome, has gone to La Scala every significant night since he was ten, when he heard "La Callas in the Visconti Traviata." After that phone call, I guessed I could count Giudici as a former friend. Only in opera would my coming to like and admire Maestro Muti have sounded the death knell for a number of friendships on two continents.

Who works at La Scala and what do they do?
Like all the big institutions in Italy, La Scala has a hierarchical structure and a feudal feel. "You see," says the owner of the hotel where I'm staying, "in Italy we are just learning about business and corporations. Everyone still thinks in terms of the family -- not just mamma and papa, but everybody with two drops of the same blood, the church, the unions and the Mafia. We have political parties. Today there are twenty-four, tomorrow there might be twenty-eight.
 

"You could start a party of foreign journalists who come to Milan to study La Scala. Just promise the unions in the South something. But the parties are just extensions of one of those other forces. And everyone belongs to more than one of those forces. Your family is most important. If they are devout Catholics, the church is important. But since everybody works, the union is just as important. The church uses the Mafia for money guidance and to fight communists, the Mafia courts the unions to get political power and jobs for its dependents. So you see it's a crazy circle, and we are dizzy all the time. Of course, I am talking about our Italian Mafia. Now we have five foreign Mafias: the Albanians kill, the Latinos sell drugs, the Russians run prostitutes and pornography, the Singhalese work -- how you say? -- off the books, the Gypsies beg and steal. They make their own arrangements with each other."
 
Three people are in official positions of power at La Scala. First is the sovrintendente, "Dottore" Carlo Fontana. Then there is Maestro Riccardo Muti, direttore musicale, followed by Maestro Paolo Arcà, direttore artistico. (Muti tells me it is Italian law that the artistic director of any theater must be a "maestro," a musician with credentials. Orchestras have been known to strike if they felt the artistic director was not a good enough musician -- whether he conducted or not.) Maestro Arcà arrived at La Scala in 1994. He is a prize-winning composer, particularly of operas. (His Il Carillon del Gesuita was recorded by Nuova Era.) He is the chief teacher of composition at the Milan Conservatory. Arcà is in his mid-forties and looks younger, with an easy, open-faced charm. I remark on his fresh, youthful appearance. "That's La Scala," Arcà smiles. "It either kills you or keeps you young."
 
As frequently seems to be the case in Italy, it is not always clear who does what or possesses what degree of actual, as opposed to titular, power. Though much fuss is made about introducing me to most of the people in the theater, there are some older men at the rehearsals who are never introduced but look forbidding. La Scala has, it seems, hundreds of offices; it's not unusual to pass a door and catch with peripheral vision someone behind a desk, glaring. Yet neither a thousand-dollar suit nor a desk is a guarantee of anything in Italy.
 
Fontana has a small army of underlings and associates but -- as he makes clear often -- no equals. Arcà works with Maestro Luca Targenti, the theater's casting director. Muti's associate in the hierarchy is Dottore Alberto Tirola. One dare not address any of these men without his title unless invited to do so.
 
The idea of three people in power seems very strange to me. "Of course, it's strange -- it's Italy," agrees one long-time toiler in the chain gang of Italian arts administration. "Naturally, you must have someone who looks after the money, and naturally, you must have someone who makes artistic decisions. But La Scala, like a lot of our theaters, has three bosses officially, and an army of 'important' underlings, plus all the politicians who have wires in the theater. They belong to varying coalitions of parties defined by degrees of 'right' and 'left' that nobody outside of Italy would understand. And there are the theater Mafias, the unions, the big singers and their agents, the chorus and orchestra who sometimes organize against their own unions, the stage workers. There are the cliques with conflict of interest. They are paid by agents, the record companies, the unions, for information and influence. The result is paralysis -- no one really has to take responsibility for any decisions, and it's hard to blame anyone. And a strong personality like Muti can overrule any objection, even if it makes sense."

Muti the Hated, and the Decline of La Scala
Riccardo Muti is the world's most publicly detested conductor. In her book Cinderella and Company, Manuela Hoelterhoff calls him "the famously short maestro of fear." Yet Muti is extremely successful -- not to mention remarkably good-looking for a fifty-seven-year-old workaholic.
 
"You just get younger looking," says Itzhak Perlman, when he comes backstage after a grueling Vienna Philharmonic concert at which Muti has led the Schumann Second and the Shostakovitch Fifth. "Oh, caro, no," says Muti, "it is all a trick. You know -- the hair dye." In a second, Muti becomes a hairdresser dumping a ton of polish on his head and wiping it in. "And then of course, there is the plastic surgery." Instantly, he shifts from hairdresser to surgeon, staring at his features in the dressing-room mirror, then pulling his face in forty different directions in thirty seconds. Everyone laughs except Perlman, who continues to peer at him.
 
“I am not La Scala," says Muti. "Carlo Fontana is the boss. He consults with me, of course. But the final decisions are his. Paolo Arcà is the artistic director. He consults with me, too. But he and his staff plan, and there are many details I don't know about -- just as there are many money problems and decisions that are not my business, and I don't want to know about them either."
 
Though Muti insists he does not run La Scala, everybody blames him anyway. The power-wife of a major player at La Scala puts it this way: "La Scala is Muti, Muti is La Scala. You cannot separate the two."
 
Muti's poisonous reputation extends far and wide in the music business. "La Scala was the most important theater in Europe for sheer éclat," says Merle Hubbard, an artist representative who began at the Met in the Rudolf Bing days and has managed Luciano Pavarotti, Renée Fleming, Carol Vaness and Lauren Flanigan, all of whom have had their innings at La Scala. "But now it's not run by artists, it's run by a syndicate. It's a closed shop. It's impossible to know who's in charge. It's not run for the art. There's power-mongering everywhere, artistic direction nowhere. There's a reason Luciano stopped singing there as soon as possible."
 
"The Met is far more important in making careers today," Hubbard continues. "The Met must reach out all the time. Joe Volpe has done a great marketing job and is available to answer for decisions. For that I applaud him. But La Scala? It's a lost cause."
 
"The house is always packed," says my former friend Giudici, "but it is empty of significance. It is a tourist trap, a fashion show, a salon -- not a place of art. The only successes recently have been The Florentine Straw Hat by Nino Rota, conducted by Bruno Campanella, whom the Rota family insisted on, and Khovanshchina, conducted by Valery Gergiev. Muti runs everything but is irrelevant."
 
A case can be built against Muti's taste and tactics. But his talent? At a thrilling New York Philharmonic concert of Ravel, Busoni and Brahms in January (at which the orchestra refused to bow, applauding the maestro instead), the stunning Vienna Philharmonic concerts in New York in March, the Forza orchestra rehearsals, his ear, insight and authority were remarkable.
 
“It's hard to find an Italian critic who's willing to be both candid and specific. The atmosphere among those in the mainstream is cautious. One important critic I contacted would talk only in generalities: "Muti got my predecessor fired and has gotten a lot of us in trouble. After a bad review or two, we learn we'd better come 'round, or we'll be unemployed."
 
Can those allegations be proved? "Nothing can be proved in Italy, certainly nothing that happens at La Scala. I can't prove to you that they did Manon Lescaut there. I was in the theater, but I didn't notice a performance. Muti conducted -- so of course I gave it a respectful review." (Muti denied the charge of getting reviewers fired.)
 
Muti ascended the throne in 1986. One of the musicians who, out of "human kindness," tried to help with the transition, bristles at the suggestion that the rot set in at least a little while before Muti arrived. "Ma, no!" he yells deafeningly. "This Abbado -- I mean the giant, Claudio -- he not nice man, but he great visionary of the theater. La Scala now is a disaster. And there is one cause -- Muti, Muti, Muti. I work with him. I know. Basta."
 
Cautiously, I bring this point up with Muti. He is surprisingly sweet about it. "That is La Scala. They crucify you while you're here and canonize you later. Now, Maestro Abbado is a saint. I will be a saint too, once they do me in."
 
Hatred of the current La Scala, and of Muti, is far from muted. The angry feelings of malcontents are vented in the alternative press and in the second most feared place at La Scala -- the top gallery, or Loggione. The most feared place, of course, is the Sala Gialla.

In the Sala Gialla
The Sala Gialla, a windowless chamber in a corner of the second floor of La Scala, was where Toscanini rehearsed. After his time, the Board took it over. They still meet there. But Muti reclaimed it for his rehearsals. It's a long, forbidding room with a massive table in the center. On the walls are pictures of the wreckage of the house after the allied air raids during World War II. Above the grand piano at the far end is a huge, terrifying portrait of Arturo Toscanini. He glares down at everybody who enters the room.
 
"I call it the Muti diet," says Lauren Flanigan. "You get a contract at La Scala, and you expect to sing. You show up, and there are three other people cast in the same role. You lose a lot of weight obsessing about if and when he'll pick you." Flanigan remembers her experiences rehearsing the role of Abigaille in Nabucco for Muti. "There were four of us Abigailles. Three of us got to be friends. The fourth we called 'the nuclear Abigaille' -- we figured she was there in case the rest of us got killed in a nuclear holocaust, they'd have her. She was like a roach; she'd live through anything. So, the scene is going on, and he points from one person to another with his glasses, and you have to be ready to get up and sing. If he catches you by surprise and you choke, he gestures to somebody else, and you think, 'I'll never get it now.' So I learned to push my way to the head of the table, so I could see the glasses coming in my direction. I came back thirty-one pounds lighter."
 
The Sala Gialla is where Cecilia Bartoli met Renée Fleming. They were rehearsing for a Don Giovanni in which Bartoli hoped to sing Zerlina, Fleming Donna Elvira. Bartoli, who can dish with the best, clams up at first but gets around to some morsels. "Muti's yellow room, it is like Scarpia's torture chamber," she says, finally. "Everybody is there, and he goes back and forth. My cover was always there. Muti keeps people in the dark. No one ever knows who will actually sing."
 
"Rehearsing was like having high-school sing-offs," adds Fleming -- "You sing it now, then you sing it.' That's trying!"

La Scala Itself
Though not everyone honors my "free passage" graciously, I am allowed to walk all over La Scala on my own. On my first day, Muti shows me various passageways, so I won't get lost. It doesn't help. You need a map and compass to negotiate your way around La Scala, and I get lost every single day and night I am there.
 
"These are our guards and our Gods," Muti says, pointing to the giant statues of Rossini, Verdi, Donizetti and Bellini in the beautiful lobby. He opens the gold-framed glass doors and guides me into the shadowy theater. "This is our church."
 
We both look in silence for ten minutes. He vanishes, and I sit in this space, trying not to feel overwhelmed by sentiment. There are the gorgeous gilded boxes, glinting down on the plush red seats. Up there is that amazing chandelier, and above it the ceiling, with its intricate patterns suspended by magic in thin air.
 
And then, the stage. Even with the curtain up and workmen on platforms and ladders, it is breathtaking. The rehearsal lights are unlike any I've seen elsewhere. Mysterious figures emerge, then sink into semidarkness. My eyes are tricked into seeing haunted poses, my ears into hearing fluttering sounds. There are only stagehands moving scenery.
 
The auditorium is merely fifty-three years old; the stage goes back much further. But time evaporates in here. An art form, maybe one that is vanishing, is made flesh, so to speak. One can reach out and almost touch opera.
 
La Scala was completed in 1778, on the site where the church of Santa Maria della Scala once stood. The theater was run by a group of noble families, who hired impresarios to organize seasons, until 1815 -- the year La Scala began its ascendancy. As part of the Austro-Hungarian Empire, Milan and its primary theater enjoyed large subsidies. It became a showplace for the powerful Austrian government officials stationed in Milan. In 1859, when Italy was united (though how united the country actually became is a matter of serious and continuing debate), Milan's emerged as the jewel in the crown of Italian opera houses, even though the government was centered in Rome.
 
The Milan of 1839 was a paradoxical place that was typically Italian -- famous, but insulated and provincial. Many of the intellectual Milanese say the same thing about the city today. Regional antagonisms were inevitable. One reason Verdi was denied entry to the city's Conservatory was that he was a foreigner! Most Italians are still foreigners to the Milanese. Southern Italians are despised by the locals. They are called terroni, a word with nasty connotations. The idea is that the North (and Milan is the great city in the North) pays all the taxes squandered by the bums down South.
 
Claudio Abbado, Muti's predecessor, is from a great Milanese family -- an elegant, intellectual Northerner. Muti is from the far South. He was born in Puglia and raised in Naples. Arcà, whom Muti calls friend as well as colleague, is from Rome. Tirola has Neapolitan ancestors. Maestro Montanari, the "conductor of the stage," is Neapolitan through and through.
 
Muti invites me to a birthday party for Montanari, a long-time collaborator. Italians are more sensitive to accents and regionalisms than the English, and every bit as snobbish. Usually, my Italian accent inspires a lot of sniffing, if not confusion -- especially when I'm nervous. ("Please speak English," is asked of me often at La Scala.) I'm more relaxed chatting with them in this context, and suddenly they all stop. Muti takes a long time squinting at me and says, "Those vowels -- I notice -- Provincia di Chieti?"
 
"Well, Maestro, my paternal grandfather was from there." There is another silence. "Then you are one of us," cries Muti -- and my grandfather and I are toasted.
 
"Yes, I suppose we are terroni," says Muti. "But what does that word come from, after all? Terra -- the earth. Italy and art and all of us are of the earth, where else are we from? The great soil of Italy. If they think that is an insult, they are maleducatevi -- ignoramuses."
 

Verdi gradually helped make La Scala a great house artistically on the international scene. In a sense, it was his Bayreuth. There he had his first big hit, Nabucco, and his worst failure, Un Giorno di Regno. His relations with La Scala were often strained. But the glorious world premieres of the revision of Simon Boccanegra, Otello and Falstaff carried immense prestige and glamour over into this century.
 
In 1897 came a "period of austerity," when subsidies were cut off. Those were crisis years. Eventually, a way was found to secure the house by obtaining more private funding and operating more like a corporation. Publisher Giulio Ricordi, along with composer, librettist and artistic propagandist Arrigo Boito, used La Scala to dominate art in Italy. They had help from the many wealthy and powerful families in Milan, such as the Visconti. Then as now, Milan was the business center of Italy. These powerful industrialists, politicians and intellectuals saw La Scala as their opera house.
 
While Puccini had as many flops as hits at the house, and La Fanciulla del West and Il Trittico had their premieres at the Met, La Scala was crucial to him and to all the other Italian opera composers of his time and later. It also helped establish the international viability of operas by Richard Wagner, Richard Strauss and Claude Debussy, most of these thanks to Arturo Toscanini, who had two terms running the house and was the first of a number of powerful conductors to have varying periods of control.
 
Toward the end of World War II, allied bombs hit the theater, destroying the auditorium. "We wish it had been the other way around," says Arcà, sighing. "If only your American bombs had hit the stage! Instead, they had to rebuild the auditorium. They kept the stage, which was absolutely undamaged. That was a disaster. Now we must rebuild the stage, which is too old-fashioned."
 
That means La Scala (as of today's planning) will close for "eighteen months" in 2001, so the stage can be entirely rebuilt. The company will have to relocate to another theater while this work is done.
 
"You do not need to raise your eyebrows at me," says Arcà, from his plush bench in the gorgeous lobby, where we are chatting while a rather desperate rehearsal grinds on in the theater. (Acoustically, La Scala is an iffy theater, but out here, it's all too easy to hear that destiny isn't smiling on this particular enterprise.) "After all, I am Italian. I know it can take twenty years to rebuild something here. But we must do it, and we will have to do it as quickly as possible!"
 
In the 1930s and '40s, the great conductor Victor De Sabata held sway at La Scala. After he became sick and lost interest in the early '50s, Antonio Ghiringhelli, an upper-class Milanese businessman/bureaucrat, took over. Though he feuded, Italian style, with all of them, Callas, Tebaldi, Visconti, the young Zeffirelli and a host of world-renowned singers had important seasons at the house. In the 1970s, Claudio Abbado made a significant artistic contribution with acclaimed Giorgio Strehler productions of Macbeth and Simon Boccanegra. Abbado also had access to a diminishing but impressive roster of artists including Mirella Freni, Shirley Verrett and Piero Cappuccilli.

In the last ten years, virtually no international stars have emerged from La Scala (though Roberto Alagna was a Muti discovery). Pavarotti, Freni, Scotto, Cossotto, Cappuccilli, Ghiaurov, Bruson, Bergonzi, among the currently active stars of an earlier La Scala era, are all over sixty; Simionato, Tebaldi, Corelli, Gencer, Stella, Di Stefano, Guelfi, Taddei are retired. Del Monaco is deceased. All of these were what the Italians call "creatures of La Scala" for longer or shorter periods of time.
 
Aside from Alagna, none of the big names in the international opera world under fifty owes anything to La Scala, and Muti is unique in being the only conductor to run the house and not produce international stars. "I know that," he says. "It is always in my thoughts. But give me names -- any names from anywhere in the world. We are doing the Verdi Centennial. I need names for Ballo, for Otello. You tell me, you tell Arcà, you tell Fontana. We will pick up the phone that second and try for them. Give me names!"

Cards on the Table
The most certain element in the La Scala Forza, besides Muti, is the acclaimed (though conservative) Argentinean régisseur, Hugo De Ana. He is in charge of everything visual -- sets, costumes, lighting, staging -- and will direct and edit the planned telecast. He did the same for the infamous Lucrezia Borgia in the summer of 1998 -- infamous because, during the first performance, Renée Fleming, singing the title role, was hooted, jeered, booed and finally verbally abused by a loud if not large segment of the audience.
 
It struck many as suspicious that Fleming was booed after she had had a well-publicized altercation with Muti over her inclusion in that ill-fated Don Giovanni. She also had difficulties over cadenzas with the conductor of the Lucrezia, Gianluigi Gelmetti, who fainted immediately following her first aria, returned after forty minutes to conduct the rest of the performance, fainted again and was rushed to the hospital.
 
The Lucrezia scandal was the first thing Muti talked about when we met backstage at that New York Philharmonic concert two weeks before I left for Milan. "I was in the house for two days during Lucrezia," said Muti. "I admire Fleming, and the management of La Scala had talked to her about a number of bel canto projects in the coming years. I encouraged that. She will sing her recital the day after you arrive in Milan. That would not happen if I felt she did not belong in the theater.
 
"We have a difficult public," allows Muti about the Fleming incident. When he leads me to his office on my first day in town, we pass twelve huge photos of famous maestros who have conducted at the theater, among them Carlos Kleiber, Lorin Maazel, Claudio Abbado, Karl Böhm and Herbert von Karajan. "All have been booed," Muti remarks offhandedly, "except this one." He stops in front of a portrait of Guido Cantelli, who was appointed principal conductor at La Scala in 1957. "He was lucky. He died." (Cantelli was killed in a plane crash just after his appointment was announced.)
 
Forza will star the hot young Argentinean tenor José Cura. Another tenor, Ernesto Gavazzi, a company favorite, will sing Trabuco. It seems likely that mezzo Luciana D'Intino will sing Preziosilla. The rest of the cast for the upcoming first night, including the Leonora, is anybody's guess. Argentinean Ines Salazar and Hungarian Georgina Lukacs have been engaged for Leonora; Leo Nucci and Giorgio Zancanaro have been engaged for Don Carlo, Giacomo Prestia and Antonio Papi are two possible Guardianos. Either Alfonso Antoniozzi or Roberto de Candia might sing Melitone.
 
"You are the first outsider to be allowed to see this much," remarked Carlo Fontana, with big eyes and what is known in Italian as "intenzione," when he stamped my pass. "I am giving you two weeks' freedom of the theater. You can go anywhere and talk to anyone."
 
That very night, trying to get backstage to see Renée Fleming, who had just given a triumphant concert (but had nevertheless been booed by some malcontents), I was denied entry to the theater by two hostile and insulting doormen. Not eight hours after the major public power of the theater had stamped a "free passage," his employees were looking at it and laughing.
 
Several Italian critics assure me there were "fool the American" drills before I got there. I'm sure there was debate about letting me in. Perhaps some orders had gone out to be careful. But this is the theater. More to the point, it's Italy. Chaotic hysteria is routine, and there is no insurance against it.
 
During one very tense rehearsal in the theater, Fontana loudly laments my presence, clasping his hands and imploring God's mercy, just as my grandmother used to do. She had an excuse -- she was Neapolitan. Fontana is a Milanese aristocrat.
 
"Well, that's what Forza will do to you," remarks a small but formidable lady with high, jet-black hair and rather a ferocious cast about the eyes. She's been watching what Hollywood would call the "suits" -- Fontana and henchmen in Armani finery -- hovering around the "talent" -- Muti in a sweater and a funk. She nods toward the little group, where much eye-rolling and hand-clasping is going on. Maestro's voice is soft, but his eyes are drilling small, lethal holes into his associates.
 
The ageless lady cackles. She is retired Turkish diva Leyla Gencer, who runs La Scala's school (roughly analogous to the Met's Young Artist program) at Muti's invitation and comes to all the rehearsals. "How is your health?" she asks. I feel fine. "You won't for long," she says. "You will have a bad influenza before Forza is finished with you. We will all be desperately sick. Wait and mark my words! Now, while they mourn, let me sit with you and tell you about my Forzas!"
 
"Her" Forzas were fascinating. And about the influenza? She was right.
 
In the Sala Gialla (Part II)
Thanks to my insider's pass, I am set to attend a 10 a.m. rehearsal in the dreaded Sala Gialla. In any case, I'm advised by an American singer, "Don't worry about getting there on time -- it's Italy. The singers will arrive half an hour late, Muti will stroll in forty-five minutes later and drink coffee for ten minutes."
 
Muti is at the piano at 9:50. The small rest rooms next to the Sala are jammed with people warming up. Woe betides anyone who needs to use them for their intended purpose. Promptly at ten, everybody sits with a score around the table. I'm not sure who some of these people are. There is a handsome teenager who has grown a beard to look older. There is a very round young man with a ponytail -- maybe he's covering one of the small parts.
 
Muti himself plays every piano rehearsal. The head coach for the production (Massimilliano Bulo in this case) stands beside him making notes for individual coachings, though Muti plays those, too, when he has time. The atmosphere is tense. Today Ines Salazar, officially the first Leonora, will sing. She's been sick but also has shown signs of vocal distress unrelated to her ailment. She is a voluptuous, doe-eyed beauty with a face of great sweetness and a terrified air.
 
Georgina Lukacs, who was hired as her "cover," has sung most of the rehearsals. She's exhausted and rather grim. People are happy and hopeful about Salazar's presence. José Cura is in Paris, singing a long run of Carmens. "In the old days, we would not have tolerated this," says one of the artistic staff. "Cura doesn't really know this part. And this is La Scala. But he runs from here to there. Even Muti has to endure it."
 
Giacomo Prestia, the official first Guardiano, is sick. Leo Nucci, whom Muti wants to sing Don Carlo, is having a last-minute angioplasty -- today. Muti went to see him before he went under anaesthesia. No one knows whether he will be in the production. Luciana D'Intino and her second, Mariana Pentcheva, are sick. Both Melitones have a serious case of the flu. I keep thinking of Leyla Gencer's prediction.
 
Since Salazar is nervous, Muti asks everybody to wait outside while he works with her on her first aria. People pace. More mucus than tone can be heard from inside the Sala, even over the nervous warming up that has recommenced in the rest rooms.
 
When we are readmitted, Muti works through the inn scene. He is gentle with Salazar: "Is it O.K. if we try that again? I don't want to tire you. You don't need to sing out. I know you have a beautiful voice." With the others, he makes jokes. He loves to get up and imitate the characters walking -- a mixture of Monty Python's Ministry of Funny Walks and, when he wants to make a point, Charlie Chaplin. It's precisely observed but hilariously exaggerated.
 
Muti's piano playing is thrilling. He's one of those conductors who "orchestrate" at the piano, giving a clear sense of the sonority, he will achieve in the pit, imitating certain instrumental combinations: "Here is the flute with the oboe -- use that color in your voice"; "Here is the bassoon -- let it led you to the expression." The most intricate figurations roll out from his fingers, in tempo, with absolute precision and beautiful tone. Unlike most rehearsal players (even most conductors, when they deign to play) he is not a piano-basher but a virtuoso making music. Everything he does has an expressive purpose.
 
He's leading without seeming to do so -- but singers are singers. There's a lot of throat-clearing, daydreaming and watch-checking. They don't seem to absorb what he plays for them, even when he points out how hearing the orchestra clearly will help them project their voices.
 
He works intensely with Giorgio Zancanaro, who will double Nucci and may sing the first night. Zancanaro has recorded the role with Muti and sung it frequently. But he's forgotten it. Muti goes over and over various sections, just for rhythms and the right notes.
 
"Now, Giorgio," he says at one point, "tell me, don't you make a lot of records?"
"But certainly, Maestro."
"But you don't like to listen to yourself?"
"No, Maestro, I am proud of my records."
"Except one, Giorgio."
"Well, maybe one or two, Maestro."
"I'm thinking of one in particular."
"I was hoarse at that one, Maestro."
"No, I mean our Forza!"
 
"Did we record Forza, Maestro?" There is a pause. "I think I lost that, Maestro. I will buy it today." Muti finds this hilarious, but Montanari, the maestro of the stage, rolls his eyes.
 
Muti works with everyone on the words and the precise expression of every moment. He is also looking for what American acting teachers and stage directors call the "arc" of the character. With Zancanaro, he tries to get at the unstable nature of Carlo -- a good-natured, clever storyteller, driven by a force he doesn't understand. In his effort to find out whether the strange person traveling with Trabuco is his sister, Carlo asks the peddler, "Who is that person -- personcina -- with you?"
 
"This strange word, Giorgio -- 'personcina' -- what do you think it means?" They discuss the word, which in context is a trap. "How would you trick somebody with a word, Giorgio?" Zancanaro has no idea.
 
"Well, Giorgio, you could say it like this" -- Muti demonstrates with a slightly poisonous charm. "Or you could try it like this." This time Muti smiles, but his eyes flash with anger. "Or perhaps you could see what happens when you throw the word out." He shrugs and gives a staccato reading.
 
Zancanaro sings it the same way every time.
 
Muti takes about an hour on the inn scene aria, "Son Pereda, son ricco d'onore." It's important to Muti that its three sections be full of different colors yet form a link. "Giorgio, this man tells the story. He's making it up as he goes along, it's loose, and he is having a good time. You can play with the rhythm." Muti sings it as though it were a funny Schubert song, full of quirky color.
 
Zancanaro tries.
 
After several times through, Muti moves on to the middle section. "Giorgio, listen to this." Muti plays the accompaniment with fury.
 
"Yes. Maestro."
 
"But do you understand, Giorgio? This is a version of the destiny theme, the melody that starts the overture." Muti plays it. "Now listen." Muti plays the accompaniment again. It's obvious -- when it's pointed out. "What does that mean to you, Giorgio?" Not much, it seems. "You see," explains Muti, "this man is trapped, as are all the characters. They can't help themselves. They are good people -- even this Carlo. He tells a story, it's fun, it's silly, then he is pulled the way the ocean pulls you into a violent storm. He forgets himself and becomes hate. Then all of a sudden -- Giorgio, are you listening?"
 
"Yes, Maestro."
"All of a sudden he is this charming person again, telling this funny story."
 
Again, Zancanaro sings it the same way.
 
Finally, Muti sings it. He starts with an easy smile and absolute charm, savoring the swinging rhythm. Then suddenly, when the destiny theme erupts, his eyes cloud over, his face becomes fixed, every word is a dagger, and the final phrase is a vicious thrust. Muti -- in character -- takes a short breath, laughs and shrugs, then returns to the jaunty tune, but this time, Carlo, as Muti sings him, can't quite lose the edge.
 
"You see, Giorgio, if you sing somewhat like that, you help the whole scene. That is the opera -- the strange world. No one is what he seems. It is like Pirandello -- where is the mask and where is the real person? You remember Pirandello, Giorgio? And the chorus and Preziosilla and Trabuco and even Leonora offstage, you make them richer, for they can respond to you."
Zancanaro sings it exactly as he did the first time through.
 
"Well," Muti says later, "you have to understand singers. He is worried about his voice; he wonders if he will sing the first night. He likes Nucci and is worried about him, but of course he would like to sing the first night himself. And today they all have permanent jet lag. He will take a plane or drive to go on for somebody who is sick in Vienna or Graz or Palermo between these rehearsals, if he can. He'll sleep in the car on the way back -- or not, if he can't find someone else to drive. And he will come to the rehearsals exhausted. And he is an old-timer. They learn it one way, and if you can get them to change two words, or add a color here and there, that is the most you expect."
 
Muti goes on to the convent scene. Everybody who can flees. Salazar runs out. There is a silence. She comes back in but clearly would rather be dead. Muti smiles at her and waves her closer. "Just try to feel it," he says. "You have a voice. But even if you are sick, if you feel and understand, that will help you sing." Once again, he tries to get her to be Leonora. "Son giunta! Grazie, o Dio!" she yells.
 
"But, Ines, you didn't need to yell. If you believe in God, and this woman does, He is everywhere, right beside your mouth. And you are relieved. You have escaped your brother. "Son giunta -- grazie, o Dio!" He sings like someone abandoning terror, almost without voice. And he looks around.
 
Salazar really tries, but she can't seem to get it. "You know why I looked around, what I was looking for?" She doesn't. "But Ines, what is her next line? 'Estremo asil quest'è per me' -- this is my last refuge." Muti speaks to her in English and sometimes in Spanish. "I looked around for the cross, for the church, for death in life. You see, she would kill herself if she could. But she can't, because she believes. So here she can find peace -- pace. And what will she implore God for later? Pace."
 
But Salazar, understandably, wants to get into the aria proper, which is treacherous. Muti tries to help. "I will relax the rhythm for you," he promises. "Don't worry." When it comes to "Deh! non m'abbandonar," he says, "I will watch you and breathe with you. If you have a little trouble I will hurry and save you."
 
But Salazar gets tighter and tighter; by the end of the aria, she is so frightened she has to run out of the room again. Muti takes her hands and kisses her cheek when she comes back. Then he sings and acts Melitone, since even the third cover is sick. The entire character is there in his voice and face while he sits at the piano. The expression in his eyes changes on every word, as the priest, who is supposed to be kind, sneers at the stranger in need, then catches on that there may be scandal ("Scomunicato siete?") but is too dumb to see he's talking to a woman. Once again Muti catches the strange juxtaposition in the opera -- it's funny and ugly.
 
The teenager with the beard stands up and sings. He is Antonio Papi, actually twenty-four, and is covering Guardiano. His is the first glorious voice I've heard during this trip to La Scala.
 
Muti tries to give Papi and Salazar what acting teachers call an "inner metaphor." "Do you hear the flute here, signora?" he asks, playing the trill under "È questo il porto." "Your soul must wait for that and when you hear the trill, your soul must vibrate to it -- you have found home, the blessing of God, light after the black night. Forget your voice. So you miss a note -- the flute is God's blessing."
 
"If she misses the note, forget the flute -- it'll be the loggione whistling," wisecracks Zancanaro. All the men laugh except Muti. Salazar runs out of the room again.
 
"I could have been rude to Zancanaro," Muti says to me during a break. "But it was too late. And look, by now she better realizes they may whistle. She must still be able to feel her part and give meaning. They even whistled Tebaldi here. If she is too scared to lose herself in Leonora, then it will be the story of Ines, not The Force of Destiny. I think you know which one is more interesting."
 
Still, when Salazar returns, he once again takes her hands and kisses her cheeks. He also sends everybody out but the round young man with the ponytail. Muti plays Alvaro's entrance, and this young fellow sing. Suddenly, an Italian tenor! His name is Salvatore Licitra (Cura's cover). Like Papi, he is someone Muti has found. Muti coaches him through every word and every phrase. "Don't let your voice slip back into your throat," he says. "Keep it forward. If you need a little time, I will wait for you. Don't start to bark." Licitra tries very hard and manages gorgeous phrases but makes mistakes. Muti is tender and infinitely patient.
 
When Zancanaro is allowed back into the room, Muti inspires Licitra into singing "Or muoio tranquillo" with a long, liquid, large-scale, melting line that is really Verdi and really thrilling.
 
“Look," says Lauren Flanigan, "he is a great opera conductor. You have to be serious, and you have to work. But if he knows you mean it, he is with you every second. He breathes and sings with you. You know, while I studied him, he studied me. One day he said, 'California' -- that's what he called me after he'd asked me where I was from -- 'California, you can hold those notes a little more and take more time. It's in your voice, you can do it, and it will be great!' He saw things in me and potentials I didn't know were there."
 
"I don't know that anyone understands Muti entirely," says Bartoli, "but that is true of all great musicians, perhaps. He remembers everything you do. He has strong ideas, so he isn't always happy. But if you are on [the same wavelength] with him, he will help you be even better. He was at every rehearsal, even the staging ones, and he was always helping. And during the performance it was all in his eyes -- the score, the feeling and his love for the music. It is hard not to give everything."
 
Later, I tell Muti most professional coaches don't do what he does, let alone conductors. Talk about the diaphragm, the tongue, keeping the voice forward, helping with breath? Impossible, in today's opera. Who knows that stuff? Perhaps worse, who cares?
 
"I will make a bet with you," Muti offers. "If you answer my question correctly, I will take you to the Four Seasons for lunch. If you cannot answer, you must spend a day without asking me any questions at all." I agree.
 
"Who was Maria Carbone?"
 
I tell him in detail, all her records and appearances, including the first Otello with Fusati. "You don't win -- yet. I played for her for five years. Every day, I played for the singers she was teaching, and for those she was coaching and for her classes. There was nothing about voices she didn't know, and she taught me everything she knew. All the tricks and fakes -- they can be useful -- and all the muscles and what the tongue and the jaw do. And the exercises for them, and for the diaphragm. And how to sing on the words, to make the words your servants. They can even make your voice more beautiful. Next question. Who was Pertile?"
 
"The greatest purely Italian spinto tenor of the century."
"What record of his is the best?"
"The Improvviso from Chénier."
 
He stares at me. "Well, I hope you are hungry. I owe you two lunches."

The Forza Flu
"Io non amarlo? Tu ben sai s'io l'ami!"
 
This is the night of decision for Salazar. She is trying to sing Act I. But she can't manage any of the words clearly. "Sai" comes out as "soy," even when she repeats it for the third time.

"Ma! È sai! Non- soy!" cries one of the power wives sitting in the theater. "Questo è La Scala. Non è una trattoria cinese!"
 
Muti stops after the act and talks intensely with his wife. He looks exhausted.
 
Cura has returned. So, has Nucci. The tenor, in costume, marks. When he sings full voice, the throaty honking is alarming. He doesn't seem to know the role securely. The clarinet plays the solo to "La vita è inferno all'infelice" gloriously. Cura lets out his voice for the first and last time. He sings "I panteloni son troppo largo!" -- the pants are too big.
 
Muti freezes. The maestros around me hiss. "Tenore!" cries one and makes the sign against the evil eye. Hugo de Ana and his costumer run up to the stage over the bridge.
 
Muti starts again. Cura croons. Nucci, just out of the hospital, sings full out. When Cura falters and they have to take a section again, Muti asks Nucci not to sing. "No, Maestro, I will sing," he says. Cura mouths the words, Nucci sings full out.
 
The adjustments are made, and "Solenne in quest'ora" starts. The "wounded" Cura has been placed on strategically arranged pillows. Instead of singing, he starts tossing the pillows across the stage. Muti goes right on. In the "Sleale" duet, Cura tries his voice and cracks, so he just mouths the words.
 
The maestros around me are enraged, but Muti goes on. The camp scene is suddenly alive and stunning. There is wild energy. Muti sings Melitone's sermon from the pit (both Melitones are still sick) -- hilarious and scary too. Luciana D'Intino also sings and acts full out, as does Ernesto Gavazzi, the Trabuco.
 
Cura stands in the wings, fussing with his costume.
 
Muti whips the orchestra and chorus up until the theater is shaking. "Maestro is truly incalzato tonight," says Arcà to me. He means Muti is beside himself but putting it all in the music, and "Rataplan" is a fierce explosion. Those who usually yawn through rehearsals -- stagehands, tech people, covers -- cheer at the end of this.
 
Muti throws his baton down and runs to his dressing room. The "suits" run after him. That fantastic chandelier comes on, and the applause continues. Leading it is Renata Tebaldi, who has been to all the rehearsals in the theater. She is radiant. "Look at the chandelier and the ceiling," she says. "This is my cradle, my temple! And you know, I would not be too unhappy if it were my grave."
 
Tebaldi has been ailing. I've been told she has been profoundly depressed. Muti has asked her to teach at La Scala's school. She has refused. He also asked her to come to all his rehearsals. At first, she hesitated. He went to her house, and after interminable cups of coffee, he persuaded her to come.
 
Nucci passes us. She congratulates him on singing full out. "I'm old," he laughs, sarcastically. "I need to sing at my age. The young people don't have to."
 
I gossip (like everybody else) about the two Leonoras: one screams, the other can't begin to pronounce. "Have you no pity?" demands Tebaldi. "That poor creature is terrified. Let's pray for her." But at the same instant, we look across the theater. There is Salazar, evidently on the brink of tears, in intense conversation with Leyla Gencer.
 
"Uh-oh," sighs Tebaldi, "I have a feeling we are in for the other one the rest of this rehearsal." Muti comes and kisses Tebaldi's hands and her cheeks. She hugs him and pats his back. "You remember when we had tenors?" he asks Tebaldi. "Tucker, for example. I begged him to come to Italy more. He sang Pagliacci with me. I was green, and he was so prepared, he taught me. But when I told him at rehearsal, he could hold a high note, he stood up and said, 'Thank you, Maestro.'" He shakes his head. "I will go back over the camp scene and to the end of the opera. Licitra will sing Alvaro, Cura will watch. Lukacs will sing Leonora."
 
Our attention is drawn to Gencer and Salazar. One assumes Gencer is trying to be comforting, but it's not a quality that emanates from her. "That poor girl," says Tebaldi.
 
"She gave a great audition two years ago, and I worked with her. It was a wonderful voice," says Muti.
 
"It is still a wonderful voice, Maestro," replies Tebaldi, "but she has done too many Toscas. She was a fine Donna Anna, and you know that is hard. But they must earn today, so they sing everything, and it is easy to growl and bark. That ruins your voice."
 
Gencer joins us and kisses and pats Muti. She kisses and pats me for good measure. "You are looking less well," she says. I admit I'm feeling unwell. "It will get worse," she says, "like the singing in this Forza."
 
"That girl needs to take six months off and breathe in the country air and not sing a note," says Tebaldi of Salazar, who looks very sad and vulnerable. "Then she needs to come back slowly, very slowly! No Toscas!"
 
"She needs to develop her falsetto!" says Gencer. "She needs to separate it from the rest of her voice and learn, so she always has the top. Then when she wants to use the chest, she can [do it] without the voice sounding like mud."
 
"That is her problem, Leyla," says Tebaldi. "The chest -- too high. This falsetto is a joke. A crutch!"
 
"It is how I made my career, Renata! I sing so many Forzas for so many years, I forget them. How many did you sing? I think you can remember."
 
Luckily, at this point, Arcà comes to get Muti. Gencer hurls herself in front of him and kisses and pats him. I get Antonio Papi and introduce him to Tebaldi. He is wide-eyed and kisses both her hands.
 
"You are wonderful," she says. "You are like the young Siepi."
 
Papi is almost crying. "I grew up listening to your records," he says. "I am very sorry I won't be able to sing with you."
 
She looks him up and down. "You know, I am very sorry not to be singing with you!" She throws her head back and her laugh resounds around the theater. He and I both see the irresistible and beautiful young woman she was. And we get a hint of that glorious voice.
 
Meanwhile, De Ana is sitting at the production desk, his head in his hands. "He saw me work with Lukacs, this afternoon. He knows!" he cries. He's talking about the staging rehearsals, which Muti watched like a hawk. De Ana will later be criticized for the singers' immobility. But at the rehearsal, De Ana was killing himself trying to get Lukacs to move and emote in the convent scene. He was literally running around the stage, begging her to do something -- anything. She just watched him, like an iceberg implacably heading for the Titanic.
 
"I just told Maestro, she is like steel," grouses De Ana. "And you know what he said? 'Good. She will need to be made of steel to survive this first night.'"

La Scala Itself (Part II)
The Metropolitan Opera does seven performances a week for thirty weeks. There were twenty-three operas in the repertory during the 1998-99 season. Some played six or seven times; some (Aida, La Bohème) twenty or more times. The stringent American musicians' unions strictly define "services." Every player is restricted to so many services per week before ruinously expensive overtime kicks in. Both rehearsals and performances count as "services." There are essentially two orchestras and two choruses at the Met.
 
La Scala does ten to twelve operas a year, over ten months. Each play six to eight times, alternating with ballets. A few that can be cast are brought back for three or four performances in the late spring or mid-fall.
 
Every opera gets three to five weeks' preparation, usually starting in the middle of the run of the opera being performed. Early rehearsals are held in an old movie theater, across town. It is too small, so the director frequently has to work with only extras, or only the chorus women, or only the principals.
 
Muti has built an exceptional orchestra. "That's nonsense!" cries one of his many detractors. "The orchestra was great under Abbado." But most of the men who played under Abbado have retired. Muti has replaced them with young men and women, many of whom have won major international competitions. He has trained them himself with the help of some of the older musicians. The orchestra has an "Italian" sound -- especially noticeable in winds and brass. But they pay automatic attention to inner voices and harmonic structure, fairly unusual in opera-house orchestras.
 
Muti has built a very comfortable and modern series of large and small rooms for the orchestra. But the chorus rooms are small, there are no large rehearsal rooms in the theater, and the dressing rooms, even those of the stars, are cubbyholes. There is also no way to store sets. With no electrically driven lifts, everything is worked manually by the stage crew.
 
At the Met, huge sets can be erected on the basement elevator and lifted into place for an almost instantaneous scene change. The set already in place can be slid backward into a huge space, or sideways into other huge spaces. At La Scala, every change, no matter how elaborate and complex, is made by hand.
 
"That is a big problem for us," says Arcà. "We would like to do more performances of more operas. But we must close for at least two weeks between operas (except for concerts), because to load in and then do the technical rehearsals takes all day. We will always be a 'stagione' house; but we could ideally keep that level of preparation and alternate two operas with the ballet, not just one."
 
In today's world, the day-to-day management of the Met is a model for every opera house. Most governments are cutting back on subsidies and asking tougher questions about where the money goes. Europeans on the younger end of the "baby boom," who are now in positions of power, lack their parents' unquestioning belief in the importance of "the arts." How far these new leaders will go remains unknown, but the disaster at Covent Garden and the near ruin of Russia's larger arts institutions have sent a chill through the world of subsidized theaters.
 
The Met makes do on a budget with government grants of less than 1 percent. Though box-office revenue is very important, ticket prices have kept pace with Broadway and, except for a relatively few gala evenings a season, are less expensive than in many European houses. Sections of the house are carefully divided into price ranges, but $150 will get you a good seat at the Met on an average night. Tickets for those seats are available at the box office. Since the house holds 4,000 people, there are often tickets available even for heavily subscribed evenings; and the house gives a goodly number of "non-subscription" performances.
 
Tickets at La Scala cost about $250 -- if you can get one. It is widely accepted by everyone in Milan that "ordinary people" cannot get tickets. "Bagarini" (scalpers) are pretty much the only way. They are used mainly by tourists. The box-office workers at La Scala are deliberately unhelpful. "This is our temple," says one, rebuking me for bad language, as I scream at him for refusing to give me my ticket, though he is holding the envelope in his hand and I have shown him my passport and Fontana's free pass.
 
"Yes, rudeness is a sacred rite here," I reply. Which means I have to get someone in management to accompany me to the box office and soothe the manager's feelings. But I am made to pay for that every time I walk in. Every night at the box office is an adventure; at the second Forza, two mature, heavy-set men hurl themselves to the floor and beat it in fury.
 
The Met gets about 35 percent of its funding privately; the other 65 percent comes from box-office revenue and earned income. There is a huge endowment. There is a massive fund-raising department. Of course, they do direct marketing, calling people at home. La Scala does none of that, nor does any other Italian theater. But they will have to. And the man who will try to bring this change about is Dottore Carlo Fontana.
 
"There are two words you should know in relation to Fontana," says one of his detractors -- "Lottananza and buon salotto." The first refers to the system by which managers of arts institutions in Italy make their way up the ranks. It has its particularly Latin characteristics, but a similar club exists in all systems where there is heavy government subsidy. People (usually men) get into this system through political allies. Once they win their spurs, they are set for life. They move from one theater to another. They are basically

bureaucrats committed to their own survival and that of the club they belong to. Much occurs in secret; alliances form and dissolve, and there is often little accountability. People have a way of "failing upward," so long as they can stay alive, regardless of competence or culpability, even despite radical political change.
 
The buon salotto is sort of the old boys' club of Italy. These are the wealthy, the intricately connected, the all-powerful.
 
"Fontana belongs to both. He was one of the best of that old school," says one of the young bloods at La Scala, who of course will not speak for attribution. "He worked miracles at Bologna. The question is, can he carry this theater into the future? It is an entirely different game. He doesn't know the rules."
 
"Yes," Fontana barks, when I relay the remark. "It is a new game, and I have invented the rules!" He really hasn't wanted to talk to me. I've gotten him to let me into his office by mentioning Sergio Escobar.
 
Escobar, I've been told, is Fontana's greatest enemy. Both were bloodied under the old regime at La Scala. Both were kicked out. Rumor has it that Fontana intrigued until Escobar had to leave; Fontana tells me it was he who was given the boot, while Escobar stayed on -- until axed by somebody else.
 
Escobar has been building his own empire; after stints in Genoa, Bologna and Rome, he has ended up in Milan, at the Piccolo Teatro. That is Italy's greatest prose theater, the one carried to enormous heights by the late Giorgio Strehler (Escobar's predecessor).
 
Muti is doing more and more work at the Piccolo Teatro. He will conduct a revival of Strehler's production of Così Fan Tutte there and also a new production of Nina, ossia Pazza per l'Amore, both in the fall. Naturally the word is that Escobar wants both Fontana's blood and his job.
 
I'm told everybody who really wants to can get tickets to La Scala. However, there are only 2,000 seats and only so many performances, most subscribed to by people who hang on for decades. Fontana has made it impossible to buy tickets at the box office without presenting verifiable ID. That has made it hard for bagarini, but of course not impossible. Nothing is impossible in Italy.
 
Fontana tried to change the way the cheapest seats were sold. They would sell only over the phone and you would need a credit card. This was meant as a way to stop claques (Fontana did away with the official theater claque years ago) and prevent people from paying Singhalese and Gypsies to stand in line for their tickets, then scalping them.
 
One of the anti-Fontana, anti-Muti pamphlets that show up every day at the theater contains a story that a delegation of conservatory and university students implored Muti to veto Fontana's plan. Most were too poor to have credit cards, and some even lacked phones. The new regulation was rescinded. To the pamphleteers, this proves Muti is gullible and Fontana merely a figurehead. There is no comment on this from La Scala officials, and it is not a good idea to mention the pamphlets to anybody at the theater in any circumstances whatsoever.
 
For a top-secret meeting of general managers from most of Europe's opera houses, hosted by La Scala in 1995, Fontana wrote an article (leaked to me by a disgruntled ex-employee), the first sentence of which read, "2001, opera addio." The article was titled "Poker d'Assi della Lirica" -- poker with aces on the opera stage. It's a reference to the end of Act II of La Fanciulla del West, when Minnie defeats her adversary with three aces. One assumes it was not lost on Dottore Fontana that she does so by cheating.
 
It was Fontana who pushed forward changes in funding methods. Now La Scala gets 60 percent of its budget through subsidy (10 percent from the city of Milan and the Province of Lombardy, 50 percent from the national government). The rest is raised privately. Ordinary citizens do not get a tax break on "charitable contributions." "But no Italian pays all his taxes anyway," the pizza parlor owner says. The current thinking is that it will never work. "If I were to give money to anyone publicly, I'd have to disclose all my income, and only a fool would do that," says another Italian "taxpayer."
 
However, under present regulations (due to change in 2001), corporations get a 33 percent break from contributions to arts institutions. Fontana told the newspapers two years ago that Giorgio Armani would give a certain number of millions every year for the next three years to support Italy's great art heritage. That was news to everybody, especially Armani. A secret delegate was sent to Fontana, who sent a secret delegate back. In the end, Armani gave the money, leading the way for other big Italian multi-nationals to donate to La Scala. (Many of the great names of Italian industry sit on the company's board of directors, and money-raising plans are supervised by a professor of economics who got his doctorate from the University of Pennsylvania.)
 
His handling of Armani has been held against Fontana in some quarters. It sounds like good old-fashioned hustling to me. It's what people in the arts do all the time in America. But to his critics, Fontana lost face and made La Scala look needy.
 
In any case, the laws will change. Fontana obviously hopes the deduction will go up -- and it will, if the government stays to the right. A swing to the left may do away with it entirely. It also is expected that state subsidies will be reduced another 9 percent, bringing the split to 51 percent state, 49 percent private.
 
Fontana's newest initiative is to open the sound archives of La Scala to a major record company to release the treasures there in superb sound. This was also news to a lot of people. But Michael Fine of Deutsche Grammophon was interested. He brokered a contract and has been searching the archives. "Of course, a lot of things have been stolen, and others are in terrible sound. So we are talking to pirates." Fine is optimistic that some great performances never released will be found and put out. But according to most of the managers in America, Fontana has yet to secure all the rights from the singers in the first releases.
 
"If I don't give my rights away, Fontana will shame me," says one singer -- "as if I owe La Scala. I assure you; he doesn't work for free. I don't either." I bet this singer, and everyone else, will cave in, in the end.
 
"You may be right," says my informant, "but this is costing Fontana something in his public standing. If he himself threatened these people to get money, in secret, that would-be o.k. But you can't do it in public. Anyway, Fontana is an old fool. He talks about marketing, but at least one wonderful project was vetoed by him because it had the 'evil eye.'"
 
I repeat the story to the "old fool" Fontana -- a very youthful and handsome fifty. "Look, I let them do La Forza del Destino," says Fontana. "If we get through it with most of our fingers and toes, and only a few pets and great-grandparents die, we will be doing very well. And we have just hired a marketing consultant. Now, despite what my enemies say, I work. Good day."
 
ALBERT INNAURATO is a playwright and writer on music.

Photos: All photos © Lelli & Masotti 1999 except; © John Wilkes 1999 (title background, top of page); © A. Tamoni 1999 (Fontana); 32: Opera News Archives ("Tickets at La Scala" interior), © Silvia Lelli Masotti (ticket line); © Roberto Masotti (interior, woman leaning on railing)

OPERA NEWS, Part I July 1999 Copyright © 1999 The Metropolitan Opera Guild, Inc.
OPERA NEWS, Part II August 1999 Copyright © 1999 The Metropolitan Opera Guild, Inc.

LA STAMPA          
1999.11.19

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GAETANO DONIZETTI: A Research  and Information Guide   
2000

GIUSEPPE VERDI L’UOMO, L’OPERA, IL MITO

2000.01.10
FRANCESCO DEGRADA
Propositi per una mostra su Verdi

Carlo Fontana mi propone una grande esposizione in occasione del primo centenario della morte di Giuseppe Verdi, innovembre, al Palazzo Reale di Milano. Grazie della fiducia, ma devo pensarci su. Si fa presto a dire Verdi. "Va pensiero".Viva V.E.R.D.I. Non si sa da che parte cominciare. Ci sono — mi dice — fonti inesauribili di materiale fra il Museo delTeatro alla Scala e l'Archivio di Casa Ricordi.Ho paura che si tratti essenzialmente di una mostra cartacea, senz'anima: lettere, libretti, spartiti, fogli autografi, bozzettidi scena, figurini di costumi. Carta. Dov'è il grande impatto visivo? Dov'è l'emozione? Penso che sarebbe meglio cherinunciassi, perché ho passato troppi anni della mia carriera in trincea a battermi con tutta la passione della fede che lamusica di Verdi ha fatto nascere in me per rassegnarmi ad abbassare le armi proprio adesso. Non posso fare a Verdi questotorto; gli devo troppi momenti di vera commozione, così rari in chi si è indurito in tanti anni di mestiere. Mi basta pensare aun "Libera me, Domine" intonato da Leyla Gencer a Massenzio in una notte d'estate tanti anni fa: nel pensare questamostra devo ritrovare questo tipo di emozione. Bisogna mettersi al lavoro con animo puro: tornare a Busseto, a VillaSant'Agata, sentire Verdi vivo.Spiego tutto questo a Carlo Fontana, a Francesco Degrada, a Pierluigi Petrobelli, a Gabriele Dotto, lo racconto a RiccardoMuti. Sono tutti d'accordo, per fortuna: non solo carta, dunque, non solo documenti, ma immagini di vita e di lavoroevocate attraverso i luoghi veri e le opere, nel clima che le ha ispirate. Perciò ci devono essere la casa natale di Roncole e lacamera a Villa Sant'Agata, per la cui ricostruzione dovrò coinvolgere i Carrara Verdi, ottenerne la fiducia e lacomprensione. Si devono raccontare per immagini i mondi nei quali Verdi è stato da subito protagonista, dal Teatro allaScala dei suoi esordi clamorosi ai salotti milanesi degli incontri determinanti, da Manzoni a Francesco Hayez, la cui pitturastorica tanto ha nutrito la sua cultura figurativa. Bisogna raccontare la sua influenza sull'editoria musicale, illustrare il suoimpegno politico e sociale, da cui nasce con gesto generoso la Casa di Riposo per Musicisti. Forse si dovrebbe riuscire araccogliere i resti sparsi della stanza dell'Hótel de Milan, per ritrovare il silenzio profondo e la solitudine del momento in cuiil grande Maestro si è spento.Poi si deve affrontare il suo monumentale lavoro. Tutte indistintamente le sue opere devono essere documentate condisegni di scene e costumi. Posso contare per questo sulla infallibilità di Mercedes Viale Ferrero e la complicità di VittoriaCrespi Morbio. Con Degrada e Petrobelli abbiamo già deciso di dare spazio alle fonti letterarie, perché tutti capiscano cheVerdi possedeva una solida cultura, per niente provinciale, e un senso assoluto del teatro, che faceva di lui un registaconsapevole. Bisogna che la sua biblioteca sia presente, almeno in parte, nel percorso della mostra. Siccome sono uomo diteatro, non resisto alla tentazione di ricostituire una delle scene più spettacolari: il trionfo di Aida, che penso di evocaremolto liberamente a partire dal bozzetto e dai costumi di Magnani per la prima rappresentazione alla Scala nel 1872. Mabisogna mettersi subito al lavoro: non c'è un minuto da perdere. Ho già dei compagni di cordata: gli architetti FrancescoMuti e Luca Rolla, Gigi Saccomandi e Giovanna Buzzi; e mi rassicura che tutto sia tenuto sotto controllo da RobertaCavallini. Per celebrare il mito di Verdi penso a una ricostruzione in scala ridotta — partendo dai venti bozzetti superstiti di Ximenes, che rappresentano altrettanti personaggi verdiani — del monumento che la città di Parma dedicò nel 1913 allamemoria del Maestro, e che la guerra e l'insensibilità civile hanno cancellato.Questa sintesi evocativa dell'opera di Verdi dovrebbe, spero, lasciare in chiusura un segno al visitatore: ricordare ad ognunoquale immenso patrimonio d'amore questo grande uomo ci ha lasciato in eredità, per sempre.


LE MONDE  
2000.06.13

2 0 0 1


LA STAMPA
2001.01.15

LA VANGUARDIA   
2001.01.26

THE BOSTON GLOBE    
2001.02.02

LA REPUBBLICA      
2001.02.13
LUIGI DI FRONZO

I VIP della lirica racontano ecco a voi “Il Mio Verdi”

 
Finalmente un libro che non parla di Verdi ma fa parlare di Verdi quelli che l' hanno amato, studiato, analizzato e soprattutto cantato, diretto e messo in scena. Sono infatti i più celebri cantanti, registi e direttori d' orchestra, da Abbado a Bruson, da Ronconi a Muti i testimoni che Leonetta Bentivoglio ha raccolto nel suo libro «Il mio Verdi« (ed. Socrates, 28mila lire): sedici celebrità che qui rispondono alle domande della giornalista, inviato di La Repubblica, ripercorrendo il loro rapporto con l' opera di Verdi e ciascuno raccontando il titolo preferito. Il libro verrà presentato oggi nel Ridotto dei Palchi della Scala alle 18.30. Con l' autrice ci saranno Lorenzo Arruga, Leyla Gencer, Leo Nucci, Luca Ronconi, il sovrintendete Carlo Fontana che firma la prefazione e Angelo Foletto autore delle schede delle opere e della discografia. Ingresso libero. 

LA REPUBBLICA
2001.02.14
PAOLO ZONCA
 
Da Muti a Liliana Cavani a ciascuno il suo Verdi
 
Il baritono Leo Nucci parla del sentimento di dolore espresso nel coro degli ebrei del Nabucco. Il regista Jonathan Miller spiega la sua interpretazione provocatoria del Rigoletto, dove il gobbo diventa un barista losco, sciancato e mafioso. Luca Ronconi racconta il suo stretto rapporto col Trovatore, opera poeticamente densa e complessa. Riccardo Muti esprime la sua felicità nel dirigere il Faslstaff. Sono solo alcune delle testimonianze raccolte dalla gioornalista Leonetta Bentivoglio nel libro Il mio Verdi (Socrates edizioni) presentato ieri alla Scala. La parola non è data ai musicologi o ai critici, ma a sedici tra interpreti, registi, direttori che hanno portato in scena i dodici più grandi capolavori del compositore di Busseto: da Macbeth (Renato Bruson e Leyla Gencer) a Traviata (Liliana Cavani e Zubin Meta), dal Ballo in maschera (Luciano Pavarotti) alla Forza del destino (Giuseppe Sinopoli), dal Don Carlo (Myungwhun Chung), ad Aida (Riccardo Chailly e Franco Zeffirelli), da Simon Boccanegra (Claudio Abbado e Mirella Freni) a Otello (Peter Stein). La prefazione è di Carlo Fontana, le schede delle opere di Angelo Foletto. La presentazione è stata l' occasione per affrontare il tema della qualità delle voci verdiane attuali. Fontana ha difeso i cantanti di oggi: «Certo ci sono vocalità meno ricche, ma l' arte dell' interpretazione è legata al proprio tempo. Tanti cantanti del passato oggi sarebbero inadeguati: se sul palco della Scala ci fosse ora Beniamino Gigli, succederebbe il finimondo. Bisognerebbe avere il coraggio di rompere in libertà con la tradizione. Dobbiamo guardare il presente con gli occhi del presente».

LA REPUBBLICA

2001.07.09
RAMON VLAD

Giuseppe Verdi a ciascuno il suo
 
Verdi visto dai suoi interpreti. Il prossimo 27 gennaio si compiranno cento anni dalla scomparsa di Giuseppe Verdi. La vita musicale nel 2001 sarà dominata inevitabilmente da miriadi di celebrazioni di questa ricorrenza lasciando ben poco spazio ad altre iniziative che pur si imporrebbero, come, ad esempio, la celebrazione del bicentenario della nascita di Vincenzo Bellini. Il Ministero per i Beni e le Attività culturali ha provveduto con largo, opportuno anticipo, a costituire un Comitato Nazionale per le Celebrazioni Verdiane che svolge un encomiabile lavoro di promozione e di coordinamento delle manifestazioni programmate in Italia. Un Verdi Festival diretto da Bruno Cagli verrà inaugurato il 27 gennaio nel Duomo di Parma, alla presenza del Presidente Ciampi e del Ministro Melandri, con l’esecuzione del Requiem di Verdi diretto da Valery Gergiev e nello stesso giorno, nel piccolo Teatro Verdi di Busseto, andrà in scena un’Aida intimistica con la regia di Zeffirelli. Tra il 27 gennaio e il 1 febbraio un Convegno Internazionale di Studi «Verdi 2001» si svolgerà a Parma per proseguire presso la New York University e la Yale University di New Haven. Gli Enti lirici e le consimili istituzioni italiane non hanno però atteso la fine di gennaio. Il Carlo Felice di Genova ha aperto la stagione 2000/2001 con un’edizione in lingua francese di Jérusalem. La Scala ha puntato sul Trovatore. Ed è quest’ultimo spettacolo che ha suscitato la più larga messe di critiche e articoli di ogni genere. Nella maggior parte di questi scritti uno spazio invero eccessivo appare dedicato alla questione se Riccardo Muti aveva fatto bene o male di seguire alla lettera la partitura di Verdi e di vietare al tenore di cantare il catartico Do nell’Aria Di quella pira, consacrato dalla tradizione, ma non richiesto dall’autore. Bisogna sperare che il maxiconvegno parmenseamericano rechi un contributo davvero sostanzioso sull’approfondimento delle conoscenze circa la personalità e l’arte del più celebrato tra i compositori italiani. Lo dovrebbe far sperare il fatto che a quel convegno è stata invitata la crema degli studiosi verdiani di tutto il mondo. Non vi figura però nessun direttore d’orchestra, nessun regista, nessun cantante. Cioè nessun interprete. Nessuno di quegli artefici che soli possono far sì che l’esecuzione di un’opera assuma valore di un’epifania o di una risurrezione. Appare dunque quanto mai attuale e opportuna la pubblicazione di un libro come quello in cui, sotto il titolo Il mio Verdi, Leonetta Bentivoglio fa parlare sedici dei più grandi interpreti verdiani del nostro tempo delle opere di Verdi da essi più intensamente rivissute (Edizioni Socrates, pagg. 176, lire 28.000). L’idea di questo piccolo, ma prezioso volume, nasce da una serie di quattro interviste scritte per la Repubblica nell’estate del 2000 (con Zubin Mehta per La Traviata, Luciano Pavarotti per Un ballo in maschera, Riccardo Muti per Falstaff e Jonathan Miller per Rigoletto) alle quali sono state aggiunte dodici conversazioni: con i cantanti Leo Nucci, Renato Bruson, Leyla Gencer e Mirella Freni; con i direttori Giuseppe Sinopoli, MyungWhun Chung, Riccardo Chailly e Claudio Abbado; con i registi Luca Ronconi, Liliana Cavani, Franco Zeffirelli e Peter Stein. Modestamente l’autrice parla di «una uniforme esposizione di stile divulgativo e giornalistico, senza pretese saggistiche o musicologiche». Bisogna dire però che non poche pagine rivestono invece un autentico interesse musicologico. Così, ad esempio, quelle in cui Riccardo Chailly rivendica e precisa i veri e propri prestiti che Mahler mutuò dal Falstaff e soprattutto dall’Aida. O quelle in cui Sinopoli collega aspetti di La forza del destino ad esperienze di compositori che vanno da Musorgskij a Nono. Di sorprendente interesse le risposte di cantanti colti e consapevoli come la Gencer e Nucci. Quest’ultimo riferisce l’impressionante episodio avvenuto a Tel Aviv, nel 1994, quando il pubblico che assisteva alla prima rappresentazione del Nabucco in Israele, alle parole “Torna Israello, torna alle gioie del patrio suol”, si alzò in piedi «per applaudire e urlare». Quasi a dimostrare che l’opera non ha nessun bisogno di essere «attualizzata» mediante le famigerate «trasposizioni d’epoca» come quella per cui Miller ambientò il Rigoletto nell’ambiente della mafia italoamericana di Coney Island. E nella sua intervista Miller ci promette ancora: «... nel 2001, a Torino, farò un Macbeth ambientato in Kosovo. Nel ruolo del titolo ci sarà Arkan, il macellaio di Milosevic, capo del famigerato gruppo delle “tigri” serbe. Era sposato con una cantante, tale Zeza... Sarà lei la mia Lady Macbeth». Non so davvero come si possa giustificare una simile concezione che obbliga l’orecchio a percepire una musica dell’Ottocento, mentre l’occhio deve guardare immagini del 2000. Con la conseguente distruzione schizofrenica di qualsiasi parvenza di unità dell’opera rappresentata. Per fortuna ci sono anche registi che rispettano maggiormente le intenzioni dei compositori. Un confortante esempio ce lo offre in questo contesto Peter Stein il quale, prima di mettere in scena l’Otello, confessa di aver studiato le indicazioni dello stesso Verdi, pubblicate nel volume La disposizione scenica con «una descrizione minuziosissima della messa in scena così come la voleva il compositore, con i disegni dei costumi e l’organizzazione del palcoscenico». L’interesse del volume è accresciuto da lucide ed equilibrate schede e da un’ampia discografia di Angelo Foletto. La prefazione di Carlo Fontana testimonia dell’ormai superata contrapposizione WagnerVerdi e conclude con la constatazione pienamente condivisibile: «Questo libro contribuisce intelligentemente alla riflessione sull’opera di Verdi».

LA REPUBBLICA

2001.11.22
MARIELLA TANZARELLA

'Io, il loggionista in via d' estinzione'
 
«La mia prima volta nel loggione la trascorsi una sera del 1948, avevo otto anni e mi ci portò mio nonno, grande appassionato di lirica. Da allora non ho più smesso di andarci». Adriano Oliva, sessantun anni, milanese, fresco pensionato (era dirigente in un grande gruppo assicurativo), fa parte del nucleo storico dei loggionisti, frequentatori assidui da decenni, intenditori raffinati e agguerriti sostenitori di quello che Fontana ha definito «un reperto archeologico». Che cosa risponde a questa affermazione del sovrintendente? «Reperto archeologico? Ma per piacere. Lui non vuole capire la vitalità del loggione, i suoi contenuti. E non gli sembra un reperto archeologico, un retaggio feudale, il meccanismo degli abbonamenti, diciamo così, ereditari? Da generazioni se li passano le stesse famiglie, e non permettono l' accesso a nessun altro, a nessun elemento nuovo. Gli sembra bello? E poi, davvero, non tiene conto di quanta cultura e amore per la lirica ci siano nel nostro gruppo». Come si diventa loggionisti? «Per passione. Io, le dicevo, quella sera del '48 ero un bambino, e mi feci un sonno profondo. Ma poi mio nonno mi portò ancora, e fui affascinato da quel teatro così scintillante. Qualche anno dopo (studiavo al Berchet) cominciai ad andarci per conto mio, e divenni un habitué. Il biglietto costava 125 lire. Non poche, per uno studente, ma quella sala tutta oro e velluto, con quel fascino particolare, mi rapiva. Non mi perdevo un' opera, anche le più inconsuete. A quei tempi in una stagione c' erano fino a 25 titoli, più il balletto. La domenica c' erano due spettacoli: me li vedevo tutti e due». E si metteva in coda «Certo. Non era come adesso. Erano code vere, si restava lì ammassati, finché toglievano le catene e ci si precipitava dentro, e giù spintoni, pestate di piedi~ All' inizio ci facevano stare all' interno del teatro, c' era uno sportello al piano di sopra e la coda scendeva per lo scalone. Ogni tanto c' erano i soliti furbi, arrivavano per ultimi e cercavano di confondersi tra i primi». E una volta entrati, com' era l' atmosfera? «Magica. Elettrizzante. Non c' erano le poltroncine, ma le panche di legno, e si finiva per salirci tutti in piedi per vedere, sentire, fare il tifo, accalorarsi. Certo, avevamo nomi come Callas, Tebaldi, Del Monaco, Di Stefano, Corelli, per citarne solo qualcuno. C' era l' imbarazzo della scelta tra i migliori. Io, per non sbagliare, andavo a sentirli tutti. Ero studente, liceo classico, mi interessava la cultura in genere, e mi piaceva discutere con gli altri». Il "suo" gruppo è sempre stato affiatato «Altro che. Durante le code, e poi negli intervalli, si discuteva di tutto, arte, musica, letteratura. Dopo si continuava a parlare fuori, in strada, al massimo si beveva un bicchiere da Scoffone, d' estate si prendeva l' anguria o la granita ai chioschi di piazza Castello. Nascevano affinità e simpatie, grandi amicizie, anche l' amore: ci sono state coppie che si sono sposate, e continuano a venire in loggione». Ha fatto conoscenze speciali? «Persone di grande preparazione, vecchie e giovani. Artisti: come Rajna Kabaiwanska, che studiava a Milano, o Alberto Cupido, che da studente faceva parte della claque per guadagnare qualcosa, o il compianto maestro Dino Ciani. E poi tanti melomani di altre città, e stranieri. Compresi i "transistor", cioè i giapponesi, li chiamavamo così perché avevano un sacco di apparecchi. Noi li accompagnavamo di qua e di là, e magari li ospitavamo quando venivano per uno spettacolo. E poi, se andavamo in trasferta per assistere a opere in teatri italiani o stranieri venivamo ospitati a nostra volta.. I soldi non giravano tanto, né quando ero studente né da militare. Ecco, il periodo della leva è stato l' unico in cui mi sono perso un 7 dicembre. In compenso, ho trascinato un po' di commilitoni alla Scala, gente che non aveva mai messo piede in un teatro, e si sono entusiasmati. Andammo a Parigi a sentire la Callas, che a Milano non veniva più; a Palermo per una rara Elisabetta regina d' Inghilterra; a Firenze per Muti, che era entusiasta e straordinario. Visitavamo musei e mostre. E a teatro spesso non pagavamo, grazie all' amicizia con artisti conosciuti in loggione: una volta, a Brescia, il teatro era esaurito, ma la Gencer e la Cossotto, nostre amiche, costrinsero la direzione a farci entrare. A Milano frequentavamo i luoghi della prosa, il Piccolo di Grassi e di Strehler. Non si può dire che siamo fruitori superficiali, come vede». Ci sono fra voi dei personaggi di riferimento? «Ci sono sempre stati. Noi eravamo un gruppo di giovani, ma la nostra migliore amica era la Rina, la famosa Rina Falcetti, che aveva settant' anni ed era acerrima nemica della Callas. Adesso c' è Luisa Mandelli, detta Annina perché era una cantante ed ebbe quel ruolo in Traviata accanto alla Callas. Durante gli intervalli, la gente va da lei a fare commenti su opera e artisti. Si commenta sempre, tra noi, e a volte in modo accanito, ma sempre mantenendo il senso del divertimento. Ridimensionerei il mito che ci descrive come fischiatori e contestatori: sì, siamo palati raffinati e cerchiamo il meglio, cogliamo le calate di tono dei nuovi artisti, a volte anche di quelli affermati, ma non siamo dei maleducati. Fontana dice che abbiamo rovinato il Ballo in Maschera, a maggio: ma dovrebbe sapere che gli insulti alla Guleghina sono partiti dai palchi, non da noi».

LA REPUBBLICA         
2001.12.30
ANGELO FOLETTO

Quarantacinque anni, e qualche mese, di Scala. Entrata per la prima volta nel 1956 per l' audizione con Victor de Sabata e subito promossa alla prova del palcoscenico (il 26 gennaio 1957: prima esecuzione assoluta del Dialogue des Carmelites di Poulenc) è oggi responsabile e docente dell' Accademia di perfezionamento di canto. «In pratica non ho mai lasciato la Scala», dice il soprano Leyla Gencer. Signora Gencer, cos' è per lei questo teatro? «Ai miei tempi era il "tempio" per antonomasia: la massima aspirazione, una sorta di imperativo morale. "Se ho talento", mi dicevo quando studiavo, "devo arrivare a cantare nel teatro di Verdi!". In realtà la Scala è il punto d' arrivo di qualsiasi artista: non solo cantante e non solo musicista». La sua prima impressione della Scala qual è stata? «Arrivare in palcoscenico e vedere spalancata, illuminata o in penombra, quella sala è stata una sensazione meravigliosa e replicata identica centinaia di volte: un luogo magico. Su quel palcoscenico ti sentivi una "divinità". Capace di comunicare col pubblico, di abbracciarlo, di sentirlo in un' immedesimazione totale». Vale sempre un' impressione del genere? «Non so se oggi è così diffusa, se c' è quel senso di rispetto e di amore che un tempo univa tutto il teatro: dai custodi agli artisti. Una coscienza collettiva, un senso di appartenenza a un mondo privilegiato, un orgoglio dalle radici solide e antiche». Una qualità del teatro è l' acustica. Lei come la definisce? «Quando sono arrivata alla Scala, i musicisti più vecchi si lamentavano dicendo che i lavori di ricostruzione postbellica l' avevano irrimediabilmente rovinata~ Posso direi che, come in tutti i teatri, l' acustica non è mai perfetta. Ci sono posizioni di palcoscenico che non favoriscono la voce e altre che la avvantaggiano e che noi cantanti cercavamo di conquistare per primi: ricordo un' Aida molto "combattuta" con Fiorenza Cossotto per quel punto strategico». Ci sono già polemiche aspre in proposito: lei teme che i lavori nella sala del Piermarini possano influire sull' acustica? «Qualche preoccupazione c' è. E ho già nostalgia della sonorità scaligera nella quale sono cresciuta ma anche del colore antico dei velluti: non vorrei che ci fosse nessun intervento anche se i materiali usurati (ora si vedono) devono essere sostituiti. Spero che si rimuova la moquette, certo, ma che si lavori in modo da non spazzare via con la polvere anche gli echi che ancora respirano negli angoli del teatro». E della «nuova Scala», al Teatro degli Arcimboldi, che opinione ha? «Non ne so quasi nulla, non mi interessa. Quando sarà il momento ci andrò, ma solo perché sono una cittadina milanese fino in fondo e amo la musica». Come vede questi tre anni senza la Scala? «Tutto il mondo dell' arte è orfano, sconsacrato: privato di un suo "tempio". Per fortuna sarà una separazione breve». Sembra molto sicura. E' un augurio? «Nel 1946 la Scala è stata ricostruita e riaperta in un anno: mi sembra che tre, con i mezzi che ci sono oggi, siano perfino troppi. Sono certa che torneremo, e che la Scala sarà "nuova" ma degna ancora della sua antica fama e del nostro affetto».

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LE STELLE DELLA LIRICA 
2002
 
CORRIERE DELLA SERA          
2002.12.08

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GROSSES SANGERLEXIKON 
2003

TEATRO ALLA FENICE 1792-1996       
2003

LA STAMPA          
2003.02.01

OPERA NEWS      
2003 November

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INNER VOICE Renée Fleming on her La Scala Borgia

2004

IL PICCOLO

2004.01.10

Omaggio al principe Cappuccilli

Milano. A quarant'anni esatti dal suo debutto scaligero, avvenuto il 12 giugno 1964 in un memorabile allestimento di Lucia di Lammermoor, Piero Cappuccilli torna a Milano per ricevere l'omaggio dei suoi amici e colleghi più cari: sabato 19 giugno, alle 21, una grande festa vedrà radunati all'Auditorium di via Mahler alcuni protagonisti del melodramma internazionale. L'Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi sarà diretta da Romano Gandolfi. La serata, condotta da Antonio Lubrano, sarà trasmessa in differita da Rai Uno. La regia è affidata a Giovanni Cappuccilli.

Voluto e organizzato da Patrizia e Giovanni Cappuccilli, il gala-concerto «Il Principe dei Baritoni» vuole essere soprattutto una festa dedicata a tutti gli appassionati del grande melodramma. Il tutto animato anche da proiezioni di rari documenti video sul baritono triestino, provenienti dagli archivi Rai e di famiglia.

Il concerto, diretto dal maestro Romano Gandolfi, propone una carrellata di voci prestigiose. Saranno inoltre presenti, impegni permettendo, Placido Domingo, Mirella Freni, Leyla Gencer, Luciana Serra, Rita Orlandi Malaspina, Vilma Vernocchi, il maestro Bruno Bartoletti e tanti altri. Josè Carreras, impossibilitato a partecipare di persona, saluterà Cappuccilli e il pubblico in sala con un video inviato da New York. Momento centrale sarà l'intervista di Antonio Lubrano a Piero Cappuccilli. In teatro sarà possibile ammirare alcuni costumi indossati dal baritono negli allestimenti scaligeri di Simon Boccanegra, Il trovatore, Tosca e I due Foscari.

LA REPUBBLICA

2004.04.21

Riccardo Muti e il suo teatro


è un legame intenso, ricco di eventi che restano segnati nella storia musicale di Firenze (e non solo), quello che unisce Riccardo Muti al Maggio. Prevedibile quindi una grande attesa per il suo concerto fiorentino di quest' anno, fissato il 30 maggio al Comunale, con la Filarmonica della Scala e un programma di due sinfonie di Schubert, la Quarta, detta «la Tragica», e la Nona, detta «la Grande». Direttore stabile dell' orchestra del Maggio dal '69 fino all' 81, Muti fece della città, per un tratto importante della sua carriera, il luogo dove costruire la sua fisionomia di interprete capace di letture rigorose e approfondite, basate sul rispetto dell' autenticità delle partiture, e sempre molto esigente nella scelta dei registi. Proprio a Firenze, che si può forse considerare il suo «teatro del cuore» (perché fu il primo, quello degli entusiasmi e delle scoperte giovanili), si sviluppò la sua fama internazionale di direttore tra i più brillanti del nostro tempo, in particolare per l' opera italiana e francese (ma anche sul versante sinfonico le esplorazioni di Muti a Firenze furono imponenti). L' elenco delle sue produzioni fiorentine è generoso e molto eterogeneo. Si va dai Puritani con la regia di Sequi a un Guillaume Tell nel bellissimo allestimento di Pizzi e nella versione integrale, dai titoli dell' amato e continuamente interrogato Verdi (Un ballo in maschera, La forza del destino, un Macbeth con una mitica Lady interpretata da Leyla Gencer, Il Trovatore nello spettacolo magico di Ronconi, l' Otello con l' inedito finale del terzo atto e innovativo nella rilettura drammaturgica dei personaggi, e ancora I Masnadieri, Attila, Nabucco, I Vespri Siciliani), fino alle raffinate esecuzioni di Gluck (Orfeo ed Euridice, Iphigénie en Tauride), ai viaggi sempre rivelatori nell' universo mozartiano (Le Nozze di Figaro con la regia di Antoine Vitez), alle rarità preziose di Spontini (Agnese di Hohenstaufen). Quando, nell' 82, Muti diresse il Concerto per violino e orchestra di Beethoven con una giovanissima e fascinosa Anne-Sophie Mutter, il suo addio a Firenze era già deciso. Poi il maestro tornò, nell' 83, per una trionfale Messa da Requiem di Verdi. E negli anni successivi, catturato dall' impegno con la Scala, diresse a Firenze solo sul podio di grandi formazioni sinfoniche ospiti, come la Philadelphia Orchestra (nell' 84 e nel '91) e i Wiener Philharmoniker (nel ' 90). Nell' estate del ' 93, Muti rinnovò la collaborazione col Maggio per un impressionante Requiem verdiano ospitato dalla Basilica di San Lorenzo, e due anni dopo diresse ancora l' orchestra fiorentina al Comunale. La sua ultima apparizione a Firenze risale al ' 96, sempre sul podio del Comunale, per un applauditissimo "Concerto per l' Europa" con l' Orchestra Giovanile Italiana, formata dagli allievi della Scuola di Fiesole, una realtà a cui Muti ha sempre offerto con passione il suo sostegno. Nuovi appuntamenti «mutiani» s' annunciano per l' anno prossimo, nel segno di un rapporto con Firenze che non si estingue: in febbraio il maestro dirigerà l' Orchestra del Maggio, probabilmente nel Requiem di Cherubini.