Al Comunale Carlo Rizzi dirige un ottocento di fosche passioni
«Il Trovatore è stato accusato di volgarità, ma questa volgarità è connaturata alla vitalità e alla passione, senza le quali non esisterebbe la grande arte», scriveva tanti anni fa Francis Toye, cogliendo un punto fondamentale di una delle opere più difficili di Giuseppe Verdi, che stasera (ore 20.30), dopo trentatré anni di assenza da Bologna torna al Teatro Comunale in un nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro delle Muse di Ancona e con il Circulo Portunese De Opera di Coliseu Do Porto, con la direzione di Carlo Rizzi (recentemente nominato direttore ospite principale del Comunale di Bologna), la regia di Paul Curran, che ha spostato l' ambientazione all' Ottocento, e le scene di Kevin Knight. Nel cast, accanto a giovani cantanti («preparati e esperti», come sottolinea Vincenzo De Vivo), spicca il nome di Leo Nucci, nella parte del Conte di Luna. «Non è un' opera romantica, ma un' opera di passione», racconta, in un italiano fluido, il regista scozzese Paul Curran, che sembra così idealmente riprendere la definizione di Toye. E per giunta pone problemi anche dal punto di vista drammaturgico: «Non c' è nemmeno un' azione», ricorda Curran. «è un' opera molto belcantistica», aggiunge Rizzi, «che pone diversi problemi, e non solo dal punto di vista della linea del canto, ma anche perché è un' opera a comparti, spezzettata. Quindi bisogna riuscire a darle un' unità di fondo. Sono molto contento dei due cast di cantanti, perché sono affiatati sia come persone che vocalmente. E questo in un' opera del genere è importantissimo». Si alterneranno nella parte di Leonora la greca Dimitra Theodossiou e Carmen Giannatasio, che è stata fra l' altro allieva della grande Leyla Gencer. Si esibirà per la prima volta in Italia la georgiana Mzia Nioradze, mentre per il coreano Francesco Hong («un registro acuto, con uno squillo potentissimo. Ci ha lasciati senza parole nel corso di un' audizione. Bravissimo», dice Stefano Mazzonis), questo Trovatore rappresenta il debutto, nella parte di Manrico. L' opera verrà ripresa da Rai Trade che produrrà un dvd. Repliche il 6, 10, 13, 15, 16 e 17 aprile.
IL PICCOLO
Butterfly chiude la stagione al «Verdi»
TRIESTE Prima ancora di essere una cantante affermata, Nicoletta Curiel è una musicista coi fiocchi. Diplomata in violoncello al Conservatorio Tartini sotto la guida, severa, di Libero Lana ha iniziato la sua attività musicale come strumentista facendo la spola fra Trieste, la sua città, e Venezia dove insegnava. «In effetti - racconta l'artista triestina, ormai fiorentina d'adozione alla vigilia della prima di "Madama Butterfly" - non ho fatto gavetta. Nel mondo della musica con un padre direttore d'orchestra, una madre pianista e un fratello maggiore cantante come me, ci sono nata, ma al palcoscenico sono arrivata un po' per spirito di emulazione e un po' per caso. Il debutto è avvenuto alla Piccola Scala con un'opera di Vivaldi, il "Farnace" che era il risultato dei corsi di perfezionamento dell'Aslico. La mia gavetta l'ho fatta lì, con Leyla Gencer che ci ha preparato con grande scrupolo. Dalla Piccola sono passata subito alla grande Scala con una "Cavalleria rusticana" diretta dal maestro Patané. Ero Lola, naturalmente, la rivale di Santuzza. Poi sono arrivati i contatti con il maestro Muti e la mia prima Suzuki con il maestro Gavazzeni accanto a Catherine Malfitano».
Un inizio alla grande non c'è che dire...
«E che continua, grazie al cielo. Suzuki è un ruolo certamente secondario, ma lo affronto sempre con piacere. Dopo la Scala ho avuto l'onore di partecipare alla nuova produzione di "Madama Butterfly" all'Opéra Bastille di Parigi, uno spettacolo che ha fatto epoca e che è tuttora nel repertorio del teatro. Due mesi e mezzo di prove con Bob Wilson».
Cosa le è rimasto di quell'esperienza?
«Moltissimo. Wilson ci ha fatto ripensare il nostro modo di stare in palcoscenico e ci ha chiesto rigore e sobrietà. Chi si muove tanto perde in concentrazione, continuava a ripeterci. Se la postura è più ferma esprimi meglio, con la faccia e con le mani. E questo in un'opera di ambiente giapponese è fondamentale».
Suzuki ha, nella Madama Butterfly, il ruolo che ha il coro nella tragedia greca. È la testimone degli avvenimenti...
«È un personaggio positivo, come la Fenena del "Nabucco" e l'Adalgisa della "Norma". È per questo che li interpreto volentieri e ringrazio il maestro Oren per avermi voluta nella mia città sia nelNabucco di qualche stagione fa che ora in "Madama Butterfly". "Butterfly" è anche l'ultima opera che mio padre ha diretto al Teatro Verdi prima dell'incidente che gli costò la vita. Ne ho un ricordo molto netto anche se ero una bambina. Il bonzo mi fece paura e del tenore mi innamorai perdutamente...».
Cosa significa essere musicista e non semplicemente cantante?
«Tutto. Significa poter spaziare, e quindi privilegiare la musica. Significa affrontare repertori diversi, da Schönberg a Puccini, dall'operetta a Mozart, da Rossini ai contemporanei. Il cantante spesso dimentica la linea musicale che ha un suo iter ben preciso e che va seguito. Insomma cantare è come eseguire una suite di Bach al violoncello».
Significa anche alternare opera e concerto da camera?
«Sicuramente. Dopo questa Suzuki triestina ripeto a Siena il concerto tenuto qualche anno fa al Politeama Rossetti con il maestro Canino. Questa volta, però, cambieremo programma e vorremmo inserire, come sta facendo la grande Teresa Berganza, musiche di Astor Piazzolla».E poi?
«E poi ci sono un'Adalgisa in Francia e una serie di "Magnificat" di Bach in Germania».
Ritornerà a Trieste?
«E chi lo può dire? Mi piace ritornare nella mia città e qui ho fatto le mie primissime apparizioni in palcoscenico grazie a Fulvio Gilleri che mi ha voluta al Festival dell'Operetta. Staremo a vedere».
IL PICCOLO
Per ricordare la pianista triestina Livia D'Andrea Romanelli (nata nel mese di novembre del 1914 e scomparsa nel 1988) viene organizzata una serata con musica, poesie e foto oggi alle 17.30 presso la Sala grande delle Assicurazioni Generali (piazza degli Abruzzi 2) alla quale anche il pubblico potrà partecipare con aneddoti e ricordi personali.
Interverranno Silvana Alessio Martinelli a nome della Gioventù musicale, alcune canzoni della Romanelli saranno cantate da Bruna Sbisà ed Elisabetta Olivo con l'accompagnamento pianistico di Corrado Gulin, due poesie saranno lette da Mariella Terragni e Loredana D'Andrea; collaboreranno inoltre Serafino Marchio e il regista Ugo Amodeo. L'incontro si concluderà con la consegna di una targa.
Figura molto nota negli ambienti artistici triestini, Livia D'Andrea Romanelli era un'ottima pianista, insegnante, accompagnatrice di cantanti, autrice di musiche per pianoforte e di canzoni. Diplomata al Conservatorio Tartini cominciò a farsi conoscere subito dopo la guerra suonando nei club degli americani e insegnando pianoforte ai loro figli, accompagnando numerosissimi cantanti e lavorando a Radio Trieste in trasmissioni come La Radio per le scuole, El Campanon ecc.
Aveva molta facilità nel comporre e scriveva le musiche originali per varie trasmissioni. Nel contempo insegnava musica nelle scuole superiori «Nôtre Dame de Sion» e «Beata Vergine».
Nel campo della musica leggera colse il primo successo nel '53 vincendo il terzo premio al I Concorso della canzone veneziana sotto la direzione di Guido Cergoli; la sua canzone «Limpidi oci» fu molto apprezzata per la bella linea melodica tanto che il famoso soprano Toti dal Monte la eseguiva spesso. In seguito partecipò con successo anche ai festival di canzoni triestine organizzati dalla Taverna Dreher: le più note furono «Soto el ciel de Trieste», «L'amor più grande», «Vecia strada». Fu per molti anni impareggiabile maestra accompagnatrice nelle scuole di canto di famosi cantanti (Mario del Monaco, la dal Monte, la Adami Corradetti), ebbe occasione di accompagnare grossi nomi della lirica (Corelli, la Frazzoni, la Gencer). Fu apprezzata collaboratrice musicale al Teatro Nuovo.
LA REPUBBLICA
Fiumano di nascita, ma genovese di adozione, Dino Ciani, morto
nel 1974 in un incidente stradale a soli 33 anni, è stato un pianista dal
talento straordinario. Artista di profonda cultura, uomo dai molteplici
interessi (era un appassionato sportivo, ma amava anche la cucina nella quale
esibiva doti di raffinato gourmet) Ciani ha lasciato interpretazioni
indimenticabili e il doloroso rammarico di essere scomparso prima di aver
potuto esprimere pienamente le sue immense doti di musicisti. A Ciani, "Il
giovane pianista diventato leggenda" è dedicato un convegno nazionale in
programma domani (ore 16,30) nell' Auditorium della Banca Carige e organizzato
dalla Fondazione De Ferrari Fondo Neill. «Il convegno - ha spiegato Josè Scanu,
curatore scientifico del Fondo - è un omaggio al grande artista voluto dalla
Fondazione De Ferrari, che custodisce nel prezioso archivio storico diverse
testimonianze dell' amicizia e della sincera e autentica stima che intercorse
tra Neill e l' allora giovane Dino». Al convegno parteciperanno illustri
personaggi del mondo dell' arte e della cultura: oltre all' assessore
provinciale Maria Cristina Castellani, Massimiliano Damerini, pianista allievo
di Martha Del Vecchio (indimenticabile maestra di Ciani), amico e compagno di
studi di Dino, Nicola Costa, allievo della signora Del Vecchio e compagno di
studi di Dino, Laura Colombo, Premio Ciani Teatro Alla Scala, Leila Gencer,
soprano, Renato Caccamo, magistrato, le cugine Maria Grazia Ciani ed Hedy
Ciani, Nandi Ostali editore della Casa Musicale Sonzogno. Verranno inoltre
lette testimonianze di Claudio Abbado, Riccardo Muti e Maurizio Pollini.
«Abbiamo appoggiato questa iniziativa - ha dichiarato Maria Cristina
Castellani, assessore alla Cultura della Provincia di Genova - con grande
entusiasmo e soddisfazione. Un omaggio dovuto a un grande personaggio, una
figura di primo piano nel panorama culturale sia genovese che nazionale». Il
convegno sarà arricchito da preziosi filmati d' archivio forniti da Rai Teche e
dalla sede regionale della Rai Liguria che non sono mai più stati ritrasmessi:
si cita in particolare la registrazione del 1968 del Concerto n. 5 di Prokofiev
per pianoforte e orchestra diretto da Claudio Abbado (sul podio dell' Orchestra
della Rai di Roma) con Dino Ciani straordinario solista al pianoforte.
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È morto Roberto Negri: vinse con Celentano un Sanremo
MILANO Si è spento a Milano il pianista e compositore Roberto Negri, collaboratore (dal 1976) del Teatro alla Scala, dell'As.Li.Co, della Rai e dei più celebri nomi della lirica: Zubin Mehta, Carlos Kleiber, Claudio Abbado, Renata Scotto, Leyla Gencer, Giuseppe Di Stefano, Carlo Bergonzi. Straordinario pianista, arrangiatore e direttore, è stato un autentico maestro del teatro musicale leggero. Per il musical ha firmato le musiche di «Victor, Victoria» per Sandro Massimini, del recente «Cuore di cane» e la supervisione di «Gian Burrasca», collaborando a storici recital di Josephine Baker, Milly, Milva, Laura Betti.
Più volte era stato al Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e al Festival «Voci dal Ghetto» con il cantautore Renato Dibì, Karin Schmidt e Rosalina Neri. Vincitore nel 1969 di un Festival di Sanremo con Adriano Celentano, è stato negli anni Settanta una colonna del cabaret milanese (con Gianni Magni e Teo Teocoli) e stava lavorando a un disco su Valter Valdi.
IL PICCOLO
In cd uno storico Andrea Chénier
Il capitolo verista dell'opera italiana, oltre ad annoverare i nomi di Mascagni, di Leoncavallo, e, con qualche sfumatura diversa, di Cilea e Puccini, si arricchì dell'apporto di Umberto Giordano che vi aderì in pienezza ed autenticità d'intenti con due opere, altrettanti capolavori, quali «Andrea Chénier» e «Fedora», scritti rispettivamente nel 1896 e nel 1898.
«Chénier» fu la grande rivelazione che, dopo il folgorante successo alla Scala, procurò al musicista di Foggia fama mondiale. Una registrazione storica dell'opera, rimasterizzata in due compact dall'incisione originale in vinile avvenuta a Roma nel 1957, sarà distribuita domani nelle edicole, assieme al quotidiano «Il Piccolo» e con un sovraprezzo di € 9,90, nell'ambito della collana «La Grande Lirica». Come di consueto, vi è allegato il libretto integrale.
L'incisione risale a mezzo secolo fa e definirla storica non è un azzardo. Sul podio dell'Orchestra e del Coro di Santa Cecilia troviamo un grande maestro italiano, Gianandrea Gavazzeni, il cui decimo anniversario della morte, scoccato lo scorso mese, non ha trovato ricordo alcuno.
Si era sposato da poco in seconde nozze con una cantante, che ebbe l'opportunità di dirigere in una «Bohème» alla Scala, lui ottantaduenne, lei trentacinquenne. Nativo di Bergamo, gli si deve la «renaissance» del suo concittadino Donizetti, con le memorabili «Anna Bolena» interpretate prima dalla Callas e poi dalla Gencer, ma fra le tante benemerenze di studioso va segnalata proprio la difesa appassionata di Umberto Giordano e il tentativo di rifuggere dai giudizi spicciativi e superficiali per indicare una strada atta ad una seria valutazione critica della sua musica.
L'opera, il cui libretto fu scritto da Luigi Illica, si basa sulla vita del poeta Andrea Chénier, imprigionato durante la Rivoluzione a causa della sua attività politica e dei suoi scritti e ghigliottinato pochi giorni prima della fine del Terrore. Al ruolo del protagonista si sono dedicati i più famosi tenori del mondo, e questa edizione vanta la presenza di colui che fu definito l'unico degno erede di Caruso, Mario Del Monaco. Il tenore fiorentino dispiega qui tutta quella strapotenza degli acuti e quel fraseggio declamatorio che ne fecero un fenomeno più unico che raro.
Accanto a lui, quale trepida «Maddalena di Coigny», esibisce lo strumento prezioso e vellutato della sua voce una Renata Tebaldi poco più che trentenne. Il ruolo di Carlo Gérard è affidato ad Ettore Bastianini, baritono senese prematuramente scomparso, ed ai suoi tempi, forse a causa di una sovrabbondanza di colleghi di alto livello, non sempre valutato secondo i suoi grandi meriti. Nei ruoli di contorno colpisce incontrare l'allora debuttante Fiorenza Cossotto nei panni della «mulatta Bercy», mentre il nome del concittadino Silvio Maionica riporta alla memoria le stagioni del Comunale triestino dell'immediato dopoguerra.
LA REPUBBLICA
LA REPUBBLICA
L' italianista Raffaello Ramat (presidente delegato del Comunale su incarico di La Pira) contatta Roman Vlad, in vacanza a Fregene, per proporgli un Maggio dedicato all' espressionismo da tenersi due anni dopo. «Qualche tempo prima avevo pubblicato per Einaudi la storia della dodecafonia dove ovviamente un' ampia sezione trattava di espressionismo. Pensai di congegnare un festival aperto a tutte le arti e un convegno internazionale. Pertanto costituii un comitato di critici letterari, cinematografici e d' arte tra cui Cesare Brandi, Giulio Carlo Argan, Luigi e Paolo Chiarini. Il coreografo Aurelio Milloss mi accompagnò nei miei viaggi in Europa, durante i quali presi contatto con la figlia del drammaturgo Wedekind; con la vedova di Schoenberg, grazie a cui fu possibile realizzare una mostra di quadri del compositore; con Kurt Jooss, che convincemmo a ricostruire il suo storico balletto "Il tavolo verde"». In un' Italia ancora permeata dall' estetica neoclassica del Regime, un festival del genere pareva blasfemo. Vlad rammenta come, dalle pagine del «Messaggero», Renzo Rossellini (fratello del regista) incitasse il «popolo di Firenze» a sollevarsi contro tale «barbarie». Il sovrintendente del teatro, Pariso Votto, cercò fino all' ultimo di contrastarne l' avvio, mentre assoluto sostegno all' iniziativa veniva da La Pira e dal critico Leonardo Pinzauti. «Eppure quel Maggio è diventato un mito. Innegabile che ci furono spettacoli semivuoti. Altrettanto vero, però, che alle volte il teatro non bastava: il "Naso" di Sciostakovich con la regia di Eduardo avremmo potuto continuare a darlo a ripetizione». Vlad ritorna alla direzione artistica tra il 1968 e il '72. «Mi proponevo di completare il percorso cominciato con l' espressionismo integrando il quadro storico della prima metà del Novecento. Quindi ho sviluppato il tema del neoclassicismo tra le due guerre, dell' impegno civile, del rapporto con le civiltà extraeuropee. Un mio vanto sta nell' aver convinto René Clair (per cui avevo scritto le musiche di un film) a fare la sua unica regia teatrale: per il balletto "Relache" di Picabia e Satie. Inoltre ho dato fiducia a un giovanotto di nome Riccardo Muti diventato direttore stabile dell' orchestra». Fin da subito il Maestro, idolatrato dal pubblico, si dimostra esigentissimo con i collaboratori. Ricorda Veriano Luchetti, tenore di riferimento del Muti fiorentino: «Benché generoso con tutti e traboccante di musica, non aveva tuttavia un carattere dolce. Verso la fine di una prova del Requiem di Verdi al Comunale, un corista guarda l' orologio. Riccardo si ferma, risentito: "Sta controllando quanto dura? Ma si vergogni!". Ricordo lo stesso pezzo eseguito in San Lorenzo. Con teli stesi lungo la navata per attutire il riverbero; e fuori, una piazza zeppa di gente ad ascoltarci dagli altoparlanti». Luchetti incontra Muti nel 1971 per l' "Africana" di Meyerbeer: «Il tenore previsto era un omone finlandese che però, a cantarla, non ce la faceva proprio. Nel cast c' era mia moglie, Mietta Sighele, cui Riccardo un giorno dice: "So che tuo marito ha una bella voce". "A me piace", risponde lei. "Conosce quest' opera?". "L' aria 'O paradiso' l' ha imparata per un concorso". "Allora fallo venire", decreta Riccardo. Così ho dovuto preparare il mio esordio al Maggio in una settimana». Negli anni successivi Muti spreme al massimo l' ugola di Luchetti. «Riccardo volle dare integralmente la "Forza del destino", riaprendo dunque anche il duettone fra baritono e tenore, temibile e faticoso, che invece al Maggio del '53 Del Monaco aveva astutamente scansato. In seguito ho partecipato pure ai "Vespri siciliani" (che il medico mi consigliò di non fare più), provati in un caldo asfissiante per ore, mattina e pomeriggio, perché, ci confidava il sovrintendente Massimo Bogianckino, l' orchestra, di sera, voleva stare a casa». Partner di Muti è stata anche la leggendaria Leyla Gencer: con lui tuttora spartisce l' affetto dei loggionisti fiorentini. Al Maggio il soprano di origine turca aveva debuttato nel 1959 chiamata da Gui per la «Battaglia di Legnano». Trionfale la sua «Maria Stuarda» del '67 accanto a Shirley Verrett. «Allestimento all' avanguardia firmato De Lullo, dove già c' era tutto quanto oggi si suole chiamare moderno. Del resto a me piaceva buttarmi in cose nuove. E i risultati mi davano ragione». Sul fatto che Muti non lasci troppa libertà ai cantanti, sostiene: «E' falso, a patto che gli piacciano. Nel secondo atto di "Attila", per esempio, mi concedeva tutto lo spazio necessario, affascinato dai pianissimi di cui venivo considerata regina». Non solo spettacoli, nell' era Muti. Anche dibattiti, dentro e fuori il Comunale. Poca musica contemporanea, lamenta un manipolo di musicisti, Dallapiccola per primo. I giornali di sinistra definiscono il Maestro «artista del potere»; Luciano Pavarotti lo chiama addirittura «ducetto del podio». Pci e Psi, forze di minoranza nel cda del teatro, chiedono concerti in regione e un abbassamento del prezzo dei biglietti. Fra quei consiglieri vi è Mario Sperenzi, critico dell' "Avanti!": «Puntavamo a creare enti lirici più agili, produttivi, moderni; a una presenza organica del Novecento nei cartelloni; a un teatro accessibile a fasce sociali più ampie». L' attività regionale naufraga dato che la gran parte degli orchestrali non ha voglia di farla. «Tuttavia quella fu l' occasione perché fossero ripristinati spazi dismessi a Pisa, Siena, Arezzo, Grosseto, Carrara, Colle: ne avrebbero beneficiato in seguito il Teatro regionale toscano e l' Ort». Anni di contraddizioni. «Fu utile comunque, nel 1974, l' arrivo di Bogianckino, uomo di prestigio e grande levatura culturale che riportò a Firenze le orchestre e le compagnie di danza internazionali». Perciò, quando nell' 81 lui e Muti danno l' addio alla città, il Comunale piomba in una profonda crisi d' identità.
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LA REPUBBLICA
Torna al Carlo Felice "Der Rosenkavalier" il capolavoro neoclassico di Richard Strauss. L' appuntamento è per sabato prossimo. Nel cast figurano Solveig Kringelborn, Gunter Missenhardt, Kristine Jepson, Patrizia Ciofi, Enrico Marrucci, Ornella Vecchiarelli. Se regia e scene, di Pierluigi Pizzi, sono presumibilmente le stesse dell' ultima edizione genovese risalente al 1996, nuova e particolarmente attesa risulta la direzione orchestrale affidata a Fabio Luisi, 49 anni, che appartiene ad un' interessante schiera di giovani bacchette partite da Genova e affermatesi soprattutto all' estero (ricordiamo anche Guidarini e Armiliato). Luisi, lei è attualmente direttore principale della Staatskapelle di Dresda e direttore principale della Sinfonica di Vienna, ed è fra i nomi più autorevoli a livello internazionale. Dal Carlo Felice manca da un po' di anni... «Venni nel 1992 nella stagione inaugurale a dirigere la seconda opera in cartellone "Un ballo in maschera". E l' anno dopo tornai per "Rigoletto". Poi nulla più fino al 2000 o 2001, non ricordo, quando ho diretto un concerto sinfonico con pagine di Brahms e Wagner. Ma se non ho più frequentato il teatro, non ho certo dimenticato Genova. Ho casa a Santa Margherita, qui vivono i miei genitori e altri parenti, e qui trascorro regolarmente le mie vacanze. Insomma il legame non si è mai interrotto e ora essere al Carlo Felice mi fa particolarmente piacere perché sto provando in maniera assai soddisfacente». Lei lavora soprattutto in Germania. Come è l' ambiente musicale tedesco? «C' è una grande tradizione e un' estrema serietà. Autori che in Italia sono episodici, lì sono la regola. A Dresda si contano circa 280 recite l' anno fra opere e balletti. Al momento sono in repertorio 45 opere delle quali si propongono almeno un paio di recite l' anno. Per quanto riguarda i Sinfonici di Vienna non esiste penso composizione che loro non abbiano eseguito. Una situazione ben diversa dall' Italia. Qui si fanno dieci, dodici opere l' anno e poi si dimenticano. Lì ciò che viene allestito ritorna periodicamente, entra a far parte della vita del teatro. Sono due sistemi diversi di intendere la vita musicale, non paragonabili e non giudicabili». Torna a Genova con un autore da lei particolarmente frequentato in questi anni~ «Il mio amore per Strauss si è rafforzato dal 2000 quando diressi sue partiture a Monaco. Nel 2002, alla morte di Sinopoli, ho diretto al suo posto al Festival di Salisburgo "Die Lieber der Danae" e sono poi ritornato l' anno successivo per "Die Aegyptische Helena". A Dresda stiamo lavorando sull' integrale dei suoi poemi sinfonici. Insomma è un autore ormai molto caro». E gli operisti italiani? «Un giovane direttore italiano non può naturalmente sfuggire al nostro teatro di tradizione. Per fortuna lo amo, per cui lo dirigo volentieri. Però oggi i due terzi del mio lavoro sono rivolti al settore sinfonico, per cui lo spazio è più limitato». Dove ha studiato e come ha iniziato a dirigere? «Ho studiato qui a Genova pianoforte privatamente perché frequentavo il liceo Colombo e all' epoca era più difficile far combinare lo studio in Conservatorio con quello di una scuola media superiore. Ho dato regolarmente gli esami al Conservatorio Paganini da esterno e lì mi sono diplomato nel 1978. Poi per qualche anno ho insegnato teoria e solfeggio al Conservatorio di Spezia. Alla direzione sono arrivato dopo essermi appassionato al canto. Conobbi Leyla Gencer che veniva in estate in Liguria. Aveva bisogno di un pianista con cui studiare lieder e mi misi a seguirla. Poi incontrai anche Luciana Serra che stava iniziando una straordinaria carriera. La loro conoscenza mi aprì gli occhi su quelli che erano i miei interessi musicali. Mi trasferii a Graz a studiare direzione e da lì è iniziato tutto». "Der Rosenkavalier", dopo il debutto di sabato, verrà replicato martedì 12, venerdì 15, domenica 17 e martedì 19 febbraio.
«Devereux» torna a Trieste dopo oltre 40 anni
TRIESTE Debutta oggi, alle 20.30, al Teatro Verdi nella celebre e storica messa in scena del Teatro dell'Opera di Roma, così come fu ideata dallo scomparso Alberto Fassini negli anni Ottanta e disegnata dallo scenografo David Walker, l'opera «Roberto Devereux» di Gaetano Donizetti, penultima opera della stagione lirica, che sarà replicata a Trieste fino al 20 maggio con la regia di Francesco Bellotto e la direzione musicale del maestro Bruno Campanella.
Al «Verdi» questo capolavoro donizettiano ritorna per la prima volta dopo le rappresentazioni ottocentesche nell'allora Teatro "Grande" del 1838 e 1841; mentre la ripresa dell'opera in tempi recenti data 1964 con l'interpretazione nel ruolo di Elisabetta di Leyla Gencer e in seguito di Montserrat Caballé nei più grandi teatri europei.
«Roberto Devereux» fa parte del trittico donizettiano dedicato alle regine assieme a «Anna Bolena» ed a «Maria Stuarda» ma, pur riproponendo gli intrighi e le oscure suggestioni delle altre due opere della trilogia, rappresenta un'evoluzione di queste in senso drammatico, per l'approfondimento del personaggio di Elisabetta la cui gelosia e smania di vendetta sono presentate in chiave più intimistica e disperata, rispetto agli altri due personaggi femminili.
Strettamente legata alle tragiche vicende umane del compositore, l'opera ruota intorno a tre oggetti, i tre nodi proposti dagli autori: un anello, segno del legame tra Elisabetta e Roberto; una sciarpa, segno del legame coniugale tra Sara e Nottingham, e una corona, simbolo del legame tra una Regina e il suo Stato. I quattro i protagonisti dell'opera sono dotati di pari dignità teatrale: Elisabetta, Sara, Nottingham e Roberto Devereux sono nobili d'animo e di sentimenti; tutti e quattro però, in maniera tragicamente umana, tradiscono ignobilmente i loro doveri. E tutto l'intreccio del dramma procede verso un finale tragico.
Nel ruolo di Elisabetta si alterneranno i soprani Nelly Miricioiu e Darina Takova, mentre interpreti del ruolo protagonista di Roberto Devereux, saranno in alternanza i tenori Roberto Aronica e Roberto De Biasio. Laura Polverelli e Francesca Provvisionato si alterneranno nel ruolo mezzosopranile di Sara e i baritoni Roberto Servile e Paolo Rumetz in quello del Conte di Nottingham. Nel cast anche Saverio Bambi (Lord Cecil), Slavko Sekulic (Sir Gualtiero Raleigh/ un famigliare di Nottingham) e Seon Young Pak ( un paggio).
Completano la compagnia artistica l'Orchestra e il Coro del Teatro Verdi preparato dal M° Lorenzo Fratini.
LA REPUBBLICA
Al timbro dei castrati, che con le loro voci ipnotiche, celestiali e sessualmente ambigue mandavano in visibilio dame e cicisbei di tutta Europa, si ispira un sopranista raffinato come Angelo Manzotti. Nato nelle campagne di Marmirolo (vicino a Mantova) e giunto al successo nel '92 con la vittoria al concorso Pavarotti di Philadelphia, Manzotti perlustra da tempo sulle orme di Farinelli il sontuoso repertorio tardo barocco degli evirati cantori, interpretando ruoli operistici "en travesti", tenendo masterclass e prestandosi al cinema come nel cortometraggio su Giovan Battista Velluti, uno degli ultimi castrati che cantò per Rossini. Stasera sarà lui la star del concerto di Natale di orchestra e coro della Ueco diretti da Massimo Palumbo, ripescando a sorpresa con il collega Angelo Bonazzoli arie piroteniche dalla Merope di Geminiano Giacomelli oltre a "Lascia ch' io pianga" e ai cori dal Messiah di Haendel, di cui nel 2009 scatteranno i 250 anni dalla morte. Carriera lunga la sua, che a 12 anni aveva iniziato imitando i gesti e i monologhi buffi di Moira Orfei ai Festival dell' Unità di paese, perfezionando via via una tecnica di canto che (invece del falsetto) usa solo la vibrazione anteriore delle corde vocali, riducendo la lunghezza al timbro femminile. Manzotti, quando ha scoperto il talento per il canto? «Da ragazzino, ascoltando la divina Callas nella scena della pazzìa dalla Lucia di Lammermoor di Donizetti. Imparavo tutto a memoria, non appena avevo in tasca due lire mi fiondavo all' Arena di Verona e sognavo la polvere di palcoscenico. Ma prima del successo ho dovuto faticare. Sono passato dalla danza classica al canto e anche dopo la vittoria del "Pavarotti" ho mantenuto fino al '96 il posto di infermiere all' ospedale di Suzzara» Come definirebbe la sua voce? «è un timbro diverso da quello 'imbiancato' degli evirati cantori, anche perché io non sono castrato per nulla e non ho mai avuto problemi ormonali. Ho anzi due belle corde da baritono, ma con una tecnica particolare supero i limiti del falsetto maschile e arrivo in zona sovracuta. Posso fare i "filati" come un soprano lirico, ma soprattutto la mia voce è un' onda circolare che esce dal corpo, arriva al pubblico e torna dentro di me». Che idea si è fatto del mondo dei castrati riportato in auge da film, libri e documentari? «Si dicono sempre molte falsità. Erano esseri dal corpo voluminoso, non certo i figurini snelli che vediamo sullo schermo: Parini ce li descrive come elefanti dalla voce esile e il caricaturista veneziano Antonio Zanetti li ritrae impietosamente. In scena erano acclamati come star, ma senza avere nulla di volgare e di incolto, anche perché spesso vivevano tra infelicità e solitudine. Ma soprattutto la loro vita sessuale non era sfrenata, anche se ce ne fu uno (Giovanni Francesco Grossi, detto Siface) assassinato dai parenti di una dama bolognese con la quale era fuggito per amore». C' è stato qualche idolo del pop-rock che cantava come loro? «Freddy Mercury: semplicemente un mito per l' estensione straordinaria e una carica sensuale unica. Anche Demetrio Stratos aveva una voce incredibile, sapeva emettere un fischio invece del canto, ma io non l' ho mai ascoltato dal vivo. Fra i miei idoli metterei Mina, Mia Martini e il meraviglioso De André, anche se non mancano certo i bluff come Madonna~~». E nella lirica? «Una decisamente "montata" dal marketing è la Gheorghiu. Bella sulla scena, ma non altrettanto brava, almeno rispetto ai miei prediletti: la Gencer, la Olivero, la Scotto, la Horne, la Valentini Terrani, ovviamente la Callas, e fra gli uomini sublimi Kraus, Bergonzi e poi Domingo: unico per l' interpretazione, anche se discutibile per la tecnica»-Santa Maria del Carmine Piazza del Carmine, ore 21.15, 10/20 euro. Tel.02365572990.
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«Tutti giù per terra!» (o peggio ancora: «Tanaaa!») pare oggi la principale chiave interpretativa di tantissimi registi d' opera, con risultati visivi e cognitivi scadenti. Già nel Settecento, a Milano, l' abate Parini era stato chiaro, circa l' ermeneutica musicale: «Aborro in su la scena - un canoro elefante - che si strascina a pena - su le adipose piante - e manda per gran foce - di bocca un fil di voce». Attualmente, malgrado le corpulenze e l' età, i cantanti d' opera devono continuamente accucciarsi come vecchi cani su pavimenti deserti e spogli, magari cantando come cagnolini con una zampa sotto il culone o il culetto. E poi, rialzarsi a fatica. E quindi, far sforzi di su e giù per decine di volte. Come se l' interpretazione espressiva di angosce e tormenti si risolvesse nel poggiare spessissimo le chiappe sul suolo. E mai un sedile, nemmeno quando le situazioni lo esigono. Soprattutto per i grandi drammi verdiani così precisamente ambientati (anche nei colori musicali) in circostanze storiche documentatissime dalla grande pittura più frequentata al Prado e a Venezia nelle gite proprio basiche. Giovani e vecchi spettatori del Don Carlo alla Scala e dell' Otello a Roma, evidentemente non ignari di Tiziano o Velàzquez, chissà come sopporterebbero in una multisala o in tv, senza eventi o contenitori di gala, un poliziesco di mafia o un western ambientati fra questi rettangoli o quadrati in tinte così uggiose da edilizia scolastica. E se le coppie e le casalinghe e gli intellettuali in crisi continuassero a sedersi per terra negli uffici, commissariati, ascensori, tavole calde? Naturalmente può far ridere l' idea o l' immagine di qualunque serata ove un pubblico griffatissimo e carico di gemme applaude beato alcuni poligoni o triangoli bianchi e neri o grigi ove "divine" e "balene" d' ogni epoca storica o mitica si presentano smandrappate come appena giunte in motorino. O magari, ci si può indignare - civilmente? - quando un monumento storico "notificato" come Verdi viene ristrutturato come un condominio o dormitorio in crisi sponsor-creditizia. Così, per l' Otello romano, alla magnifica esecuzione musicale di Riccardo Muti corrispondeva un generico scenario tuttofare o usa-e-getta che potrebbe ugualmente andar bene o male, indifferentemente, per qualunque Fidelio o Gioconda o Nabucco. Ma se manca un utensile indispensabile come il letto di Desdemona, l' assopimento e lo strangolamento della poveretta non si distinguono più dall' analoga fine di Maria Goretti, sul suolo di una capanna. Qui la protagonista, Marina Poplavskaya è chiaramente la migliore di tutto il cast. Ma l' interpretazione eccessivamente verginale depista il carattere del personaggio, che è una birbona. Non già una santarellina; e neanche un' anziana, come parrebbe dal duetto verdiano col consorte, laddove - fra senilità e wagnerismi - trascorrono patetiche rimembranze di «pietà» e di «sventure». Mentre nel primo atto "veneziano" di Shakespeare si spiega addirittura davanti al Doge che il padre di Desdemona invitava spesso Otello in casa per farsi spiegare (evidentemente con fini commerciali) le sue «avventure» in terre lontane da sfruttare per la Serenissima. Così là nacque una passione carnale violenta fra la ragazza patrizia e il Moro condottiero. Analogamente, nel primo atto (di Fontainebleau) del Don Carlo, non eseguito alla Scala, avviene il primo incontro del sentimentale giovane con la tenera Elisabetta di Valois. In questo spettacolo, duplicati o sostituiti da mimi ragazzini: che doppiano anche il Marchese di Posa, coi loro girotondini, ma non anche la Principessa d' Eboli. «Don Carlo si è fermato a Eboli», si dicevano gli spiritosi d' una volta. Il pubblico meno preparato d' oggidì si chiedeva piuttosto, alla Scala, se i tre e non quattro o più "doppi" infantili fossero una trovata di Verdi, o di Pirandello, o di Antonin Artaud (Il teatro e il suo doppio), o un intervento dell' artista Cattelan, quando un piccino viene tirato per aria con una corda, come i manichini impiccati con fama istantanea in un giardino pubblico milanese. In scena, per il rogo cattolico, figuravano i pali già famigliari nelle vignette sui selvaggi cannibali, che danzano al suono dei bonghi (come nelle notti milanesi attuali del quartiere Ticinese), mentre l' esploratore o missionario di turno cuoce nel proprio brodo. Alla ormai rinomata «anteprima giovanile» - con la nostra terza età giustamente sistemata in palchi per antichi, senza causar macchie di vecchiaia in una platea adolescente - la prima sensazione fu che non un solo teenager portasse i jeans. Solo alcuni vecchietti. I «meno di 26 anni» venivano certificati dal documento d' identità corrispondente al basso prezzo. Con inevitabili reminiscenze dei primi anni Cinquanta, quando normalmente si acquistavano i biglietti loggionistici alla biglietteria come al cinema, poco prima dello spettacolo, nelle "solite serate medie" con la Callas, la Tebaldi, la Simionato, la Schwarzkopf, De Sabata, Karajan, Votto, Furtwangler, Strehler, Visconti, e i massimi tenori. Come del resto al Nuovo si compravano lì per lì gli ingressi o le poltroncine per Gieseking e Backhaus, Totò o Wanda Osiris. «A loro agio nelle scarpe da tennis», come si ripete nelle agiografie giovanilistiche. Ma tutti molto curati nel cosiddetto look, con gran disinvoltura e allegria. E un notevole buon senso: neanche una ciccia debordante verso gli ombelichi o le chiappe. Fra i "maschietti", né pizzetti né peluzzi, sulle guance glabre e soft. Ma allora: sono loro che ispirano l' attuale pubblicità per ogni «new fragrance for men» così ridicola per sbarbati imberbi? All' opposto dei lanci grotteschi di profumi per "barbudos" ispidi e villosi in "mimetica" fra Vietnam e Chiapas e Campo dei Fiori, fino all' estate scorsa? O trattasi di un viceversa reciproco? Eccezionale resistenza giovanile a più di quattro ore di monotonia: soprattutto apprezzabile da chi visse ben altre esecuzioni scaligere dello stesso Don Carlo, mitiche e documentabili con interpreti e artefici sommi: Abbado, Ghiaurov, Cappuccilli, Talvela, Kabaivanska, Cossotto, Domingo, Verrett, Gencer, Ponnelle, Raimondi, Ronconi, Freni, Nucci, Carreras, Bruson, Obraztsova, Nesterenko, Salminen... E le care memorie di un indimenticabile Don Carlo romano di Luchino Visconti (1965) che nelle riprese ultime apparve assai meno stupendo: un macchinoso baraccone. Così alcuni "antichi" fuggirono dalla Scala, dopo l' eccellente e "classico" Filippo II di Ferruccio Furlanetto, il solo che interpretasse anche vocalmente quel personaggio verdiano lì, per niente generico. Dunque si passò, lì davanti, al celebrato «Caravaggio Odescalchi»: perplessi giacché appeso così in basso, nella Sala dell' Alessi. In qualunque chiesa o cappella, infatti, ogni dipinto è concepito per venire appeso e guardato sopra un altare col suo tabernacolo, e comunque sopra la testa dei fedeli. (Solo una volta, in un' infelice esposizione a Palazzo Venezia, venne posato per terra, in un angolo, con un faretto davanti). E del resto, nella dimora romana di Guido e Nicoletta Odescalchi (pervenuto dall' eredità Balbi di Genova), si ritrova sopra i divani e i mobili, e non a mezzo metro dai pavimenti e dalle scarpe. Forse quel tramonto corrusco e giallo tanto eccezionale in Caravaggio, sistemato come per un «Appartamento dei Nani», si può apprezzare meglio a quattro zampe o in carrozzella? Come i "cartigli" appesi anche in eccellenti mostre a un livello di mezzo metro, in caratteri tipografici piccoli, su un ton-sur-ton delicato, possono funzionare come espediente fisioterapico: centocinquanta piegamenti. Ma forse si adattano meglio ai cantanti d' opera, più abituati a sedersi decine di volte per terra.
EMANUELE BONOMI
Maria Stuarda Teatro alla Fenice
La reputazione di Donizetti ha subito nel corso dei due secoli passati alterni rovesci di fortuna. Negli ultimi anni della sua attività le opere del musicista bergamasco, complice anche la prematura scomparsa del rivale Belliniche in più di un’occasione aveva mostrato di detestare la musica del collega, avevano conquistato i teatri di tutta Europa, rimpiazzando poco alla volta i titoli rossiniani. Accompagnata dall’invidia e dalla malcelata ostilità di numerose personalità artistiche del tempo (oltre al già menzionato Bellini citiamo almeno Berlioz e Schumann), la fama del compositore raggiunse presto anche i principali centri di potere, chegli tributarono riconoscimenti e incarichi di raro prestigio: nel luglio del 1842 Donizetti ricevette l’ambita nomina a Kapellmeister presso la corteasburgica di Vienna – «come un tempo Mozart», amava ripetere –, mentre nel dicembre dello stesso annofu nominato corrispondente straniero dell’Académie des beaux-artesparigina. Eppure, a dispetto della notorietà e del successo che questi eventi avevano certificato e che sembravano promettergli un tranquillo e agiato futuro, le tristi vicende che circondarono le ultime fasi della vita del compositore – in modo particolare la natura ‘scandalosa’della sifilide che lo colpì e la conseguente demenza – compromisero in modo definitivo il suo buon nome di fronte al pubblico, influendo negativamente anche sulla sua fortuna critica.
Con lo sviluppo di un sistema di repertorio lirico nell’Italia post-risorgimentale dominato dalle nuove opere di Verdi e caratterizzato, a partire dagli anni Sessanta e Settanta,dalla moda per il teatro francese e dall’introduzione dei drammi wagneriani, le opere di Donizetti trovarono sempre minor spazio, ad eccezione dei pochi titoli collaudati: seri(Lucia di Lammermoor, La favorita) e buffi(L’elisir d’amore eDon Pasquale). Nel frattempo anche all’estero la considerazione nei confronti del musicista si era appannata. Dalla posizione di predominio che aveva condiviso con Rossini e Bellini,la figura di Donizetti fu ben presto ridimensionata e giudicata da più parti come l’anello debole della triade. Al compositore veniva generalmente riconosciuta un’inesauribile inventiva melodica, incapace però di sorreggere un intero lavoro e che troppo spesso scadeva in formule convenzionali. La facilità e la rapidità di scrittura, esemplificate da un catalogo teatrale che conta una settantina di titoli – un numero impressionante se paragonato all’esiguità della produzione del rivale Bellini, ma in linea con quella di alcuni dei principali compositori italiani coevi (Mercadante e Pacini)–,venivano spiegate in primo luogo alla luce di una presunta superficialità e di una incapacità nello sviluppare e nel rifinire il proprio lessico musicale.
Simili preconcetti e giudizi negativi furono alimentati (anche in sede musicologica) almeno fino al periodo del secondo dopoguerra, quando con le celebrazioni nel 1948 del centenario della morte, seguite da una serie di allestimenti di opere donizettiane allora sconosciute – celebre è rimasta la ripresa scaligera nel 1957 di AnnaBolena con Maria Callas nel ruolo della protagonista – iniziò una seria rivalutazione del lascito del musicista bergamasco. A quella che viene generalmente definita come Donizetti-Renaissance concorsero sia il favore accordato alla sua musica da parte di famosi soprani di tradizione belcantistica, come Maria Callas, Leyla Gencer, Joan Sutherland e Beverly Sills, sia la nascita negli stessi anni di una specifica storiografia donizettiana e di studi incentrati specificamente sulle problematiche dell’opus del musicista. L’ampliamento del repertorio grazie alla ripresa di lavori del passato – una tendenza che va sempre più affermandosi data la scarsità di titoli contemporanei da immettere nel circuito teatrale – ha particolarmente giovato all’opera di Donizetti che, oramai largamente esplorata, si pone come anello di congiunzione imprescindibile tra i primi decenni dell’Ottocento e lo sviluppo del teatro lirico italiano a partire dagli anni Cinquanta.
Fino alla metà del Novecento, come detto, la messe di volumi dedicati al musicista fu alquanto esigua e di scarsa qualità. I primi contributi furono pubblicati nei decenni successivi alla sua morte einquadrarono il fenomeno Donizetti all’interno della tradizione belcantistica italiana, operando,attraverso l’analisi delle opere del compositore, un raffronto con la produzione dei suoi due grandi contemporanei, Rossini e Bellini. Il giudizio complessivo era in genere il medesimo: nell’autore bergamasco si individuavano una inusuale facilità e rapidità nel comporre, così come la capacità di affrontare sia il genere tragico che quello buffo, fondendoli insieme. Le celebrazioni del centenario della nascita (1897) diedero nuovo impulso agli studi donizettiani. Un comitato congiunto tra Bergamo, Napoli, Parigi e Vienna organizzò una mostra che rivelò per la prima volta, attraverso la pubblicazione dei diversi cataloghi suddivisi secondo la provenienza, l’ampiezza e l’importanza della produzione del musicista;parallelamente in quei mesi videro la luce numerosi repertori e contributi sulla ricezione in Italia e in Europa delle opere di Donizetti.
Al grande successo tributato dalla cittadinanza alla mostra celebrativa nel centenario della nascita del compositore seguì nel 1906 l’apertura del Museo donizettiano, grazie in primo luogo a due importanti donazioni: la preziosa raccolta di cimeli donizettiani della baronessa Basoni Scotti e gli arredi della stanza in cui il compositore bergamasco morì, di proprietà di Cristoforo Scotti che ospitò il musicista malato negli ultimi anni della sua vita. Negli anni successivi il Museo, che nei suoi depositi poteva annoverare fin dalla sua inaugurazione la ricca collezione di oggetti e documenti di proprietà comunale, conservati sino allora per la maggior parte presso la Civica biblioteca Angelo Mai, assistette ad un prodigioso e rapido sviluppo, dovuto soprattutto a Guido Zavadini. Per merito della sua infaticabile opera di ricerca e di valorizzazione dei materiali conservati, il patrimonio del Museo subì un notevole accrescimento, così che nel 1936 fu possibile compilare il primo catalogo dell’archivio dell’istituzione.
La pubblicazione di Zavadini che diede il suggello definitivo al suo trentennale lavoro di studioso donizettiano fu però un’altra: l’imponente volume Donizetti. Vita, musiche, epistolario, pubblicato nel 1948– nel centenario della morte del musicista – e rimasto a tutt’oggi la principale fonte diretta di informazioni sul compositore bergamasco. L’opera è suddivisa in tre sezioni, ognuna delle quali è basata su documentazione per la maggior parte inedita e raccolta secondo criteri storiografici attendibili: alla biografia del musicista, completamente ricostruita e organizzata anno per anno, seguono un ampio catalogo delle composizioni, suddiviso per generi, e un ricchissimo e fino allora sconosciuto epistolario che contiene più di settecento lettere.
La pubblicazione del testo di Zavadini rivoluzionò o, per meglio dire, pose le basi finalmente per un modernoorientamento degli studi donizettiani, dopo che nei primi decenni del Novecento avevano visto la luce numerosi titoli basati ancora con poche eccezioni su una scarsa documentazione diretta e impostati sugli abusati preconcetti ottocenteschi. La rivalutazione di Donizetti subì così una drastica accelerazione, che portò alla ripresa di molte sue opere dimenticate, grazie a pochi,ma decisivi contributi bibliografici nuovi. Precursore in tal senso fu Guglielmo Barblan, autore di numerosi saggi critici e storici dedicati al musicista bergamasco e anima del Centro di studi donizettiani, fondato a Bergamo nel 1962, le cui pubblicazioni – quattro numeri a cadenza decennale – hanno arricchito notevolmente il già corposo epistolario raccolto da Zavadini. Tra gli altri titoli significativi di quel periodo segnaliamo i volumi curati da Angelo Geddo e da Herbert Weinstock, nei quali gli autori abbinano a una parte biografica una sezione di analisi delle principali opere teatrali del musicista, il fondamentale testo di William Ashbrook, biografia di riferimento per ogni studioso o appassionato di Donizetti e l’esteso saggio di Franca Cella, che analizza le fonti letterarie francesi della librettistica del compositore.
La cosiddetta Donizetti-Renaissance, iniziatasi sul finire degli anni Cinquanta, ebbe il suo culmine negli anni Settanta. La ripresa delle opere donizettiane dimenticate divenne sistematica, dal 1974 fece il suo ingresso nel panorama bibliografico la Donizetti Society di Londra, attiva con le frequenti «Newsletter»e con i sette numeri delsuo «Journal», mentre nell’anno successivo il primo convegno internazionale di studi tenutosi a Bergamo sancì definitivamente l’ingresso del musicista nell’ambito accademico mondiale. Nel breve volgere di un ventennio, grazie anche alla concomitanza con le celebrazioni per il bicentenario della nascita, il catalogo delle pubblicazioni donizettiane ha subito un nuovo e deciso incremento quantitativo e qualitativo. I contributi più importanti sono senza dubbio la monografia di Philip Gossett interamente dedicata ad Anna Bolena, nella quale il musicologo americano applica i più moderni strumenti della filologia musicale per indagare la complessità del processo compositivo donizettiano, i numerosi saggi contenuti negli atti dei diversi convegni di studio organizzati nel 1997 e nel 1998 che coinvolgono l’impresa editoriale che più di ogni altra ha inciso sulla rivalutazione del repertorio donizettiano: l’edizione critica delle opere di Gaetano Donizetti, diretta da Gabriele Dotto e da Roger Parker e riconosciuta dal 2001 dal Ministero per i beni e le attività culturali come Edizione nazionale.
Tra i titoli più interessanti dell’ultimo decennio citiamo infine il fondamentale volume curato da Annalisa Bini e Jeremy Commons che raccoglie le recensioni delle prime rappresentazioni delle opere di Donizetti, il pratico compendio bibliografico redatto da James Cassaro e la curiosa biografia di Silvana Milesi, narrata in prima persona dallo stesso compositore e corredata di un ricchissimo apparato iconografico. Dal 1997 è attiva inoltre nella città natale del musicista la Fondazione Donizetti diretta da Paolo Fabbri, che si occupa principalmente di studiare aspetti ancora trascurati dell’attività donizettiana, quali l’edizione delle opere, l’ampliamento e l’aggiornamento del lascito epistolare, la storiografia e la librettistica donizettiana.
Maria Stuarda è stato uno dei lavori teatrali del musicista a cui la Donizetti-Renaissance degli ultimi decenni ha più giovato. L’opera è stata ripresa e incisa più volte in tempi moderni – oltre all’importante ripresa del 1958, dovuta a Gianandrea Gavazzeni, memorabile è rimasto l’allestimento del Maggio Musicale Fiorentino nel 1967, con Leyla Gencer e Shirley Verrett quali protagoniste e la regia di Giorgio De Lullo – e ha avuto l’onore di essere la partitura inaugurale dell’edizione critica, curata da Anders Wiklund sulla base dell’autografo conservato presso lo Stiftelsen Musikkulturens Främjande di Stoccolma. I primi saggidi un certo interesse sulla Maria Stuardarisalgono invece agli anni Settanta e Ottanta e sono contenuti per la maggior parte nei primi numeri del «Donizetti Society Journal». Nella prima uscita della rivista citiamo i due articoli di John Allitt, che propone una descrizione in chiave allegorica del personaggio dell’infelice regina scozzese, e di John Watts, il cui contributo elenca le rappresentazioni di Maria Stuarda tra il 1958 e il 1973, riportando data, luogo, direttore e interpreti, mentre nel terzo numero, dedicato quasi interamente all’opera, segnaliamo due saggi di William Ashbrook: il primo è incentrato sulla tormentata genesi del lavoro, dovuta ai problemi con la censura napoletana e ai numerosi ripensamenti del musicista, e sulla sua struttura musicale, il secondo si sofferma invece sulle problematiche relative al libretto, confrontato con la sua fonte letteraria e studiato nelle sue diverse versioni. Contenutiall’interno della stessa rivista (nel quinto numero) sono il prezioso contributo del soprano Leyla Gencer, che esamina le difficoltà interpretative delle regine donizettiane – oltre a Maria Stuarda sono analizzati i ruoli della prima donna in Anna Bolena e Roberto Devereux – e l’articolo di Fulvio Lo Presti, nel quale l’autore affronta diversi aspetti del lavoro, indicandolo come il risultato più importante della moderna rivalutazione donizettiana. Più specificamente dedicato al rapporto con la fonte il recente contributo di Helga Lühning.
Per la loro completezza e varietà di spunti analitici occorre segnalare alcuni dei programmi di sala redatti per le moderne rappresentazioni dell’opera. Legato alle manifestazioni musicali svoltesi nel corso dell’ottavo Festival Donizetti è il volume relativo a Maria Stuarda che raccoglie gli interventi di alcuni dei principali studiosi donizettiani – si veda in particolare il contributo di Gabriele Dotto e Roger Parker, nel quale i due musicologi descrivono le scelte metodologiche operate per la redazione dell’edizione critica dell’opera –, mentre del programmadi sala edito per l’allestimento del lavoro al Teatro Regio di Torino nel 1999 citiamo l’articolo di Paolo Cecchi che, dopo una introduzione basata sulla fortuna italiana della Maria Stuart di Schiller nei primi decenni dell’Ottocento, propone un attento studio della pièce del drammaturgo tedesco e un’analisi della semplificazione drammatica operata da Donizetti e Bardari ai fini di un adeguamento alle esigenze operistiche.
Per completare, la più recente monografia dedicata all’opera è quella apparsa a cura di Chantal Cazaux per la rivista «L’Avant-scène Opéra». E, per chiudere, il saggio recente più illuminante ai fini della comprensione di questo capolavoro: Una drammaturgia borghese di Luca Zoppelli.
Milano Con un po' di tristezza ricorda la sua infanzia sofferta a Tbilisi, capitale della Georgia, dove ha vissuto fino a due anni fa, prima di arrivare a Milano come allieva dell' Accademia della Scala. Ma per il mezzosoprano Anita Rachvelishvili, 25 anni, lunghi capelli ricci bruni, sguardo intenso, è il momento del riscatto: il 7 dicembre debutterà al Piermarini come protagonista della Carmen diretta da Daniel Barenboim e con la regia di Emma Dante. «Mi rendo conto che è una prova importantissima, perché finora ho interpretato solo tre piccole parti, tutte alla Scala - spiega - Però sono tranquillissima. Affronto le situazioni con sangue freddo, forse perché ne ho passate tante. Sto provando tantissimo: quasi quasi chiedo che mi mettano un letto qui in teatro». Com' è stata la sua vita prima di arrivare in Italia? «Quando ero bambina la Georgia era in conflitto con l' Unione Sovietica. La situazione era disperata: non c' era da mangiare, mancavano luce, gas. Avevo cinque anni, e con la mia famiglia facevo i chilometri coi secchi per andare a prendere l' acqua: d' inverno si usava la neve, d' estate si aspettava la pioggia. Ho dovuto rinunciare al pattinaggio artistico: era troppo pericoloso raggiungere il centro della città per gli allenamenti. Un grande dispiacere: avevo talento». E la musica? «Vengo da una famiglia di musicisti, e ho cominciato col pianoforte. La voce? Da piccola cantavo brani popolari georgiani e mi divertivo a comporre. Ho studiato al Conservatorio e mi sono diplomata anche in canto lirico. In Italia sono arrivata perché la mia insegnante, che stava morendo, voleva mettermi in mani sicure. E l' Accademia della Scala in Georgia è famosissima: ricordo con amore Leyla Gencer, ora scomparsa, che mi ha dato consigli utilissimi. "Non urlare mai, mantieni sempre l' eleganza nel canto" mi diceva». Lei si è diplomata a giugno, ma già prima era stata "scoperta" da Barenboim. «Ho fatto un' audizione per il personaggio di Frasquita. Il maestro mi ha chiesto di cantargli tutte le arie di Carmen ed è rimasto impressionato. Nell' aprile scorso mi ha affidato il ruolo». Cosa le dice ora il maestro? «Che di Carmen ho tutto: la voce, l' aspetto, il temperamento». E lei cosa ne pensa? «Io mi sento molto più simile alla generosa e dolce Micaela, Certo Carmen è una donna libera, sensuale, affascinante. È forte, ha idea di cosa vuole ottenere. Ma il suo egoismo la porta a volere tutto, a non pensare al domani, a fare scelte sbagliate. Fino ad andare incontro alla morte per mano di Don José». E la regista come vede l' opera? «La sua non è una Carmen moderna né una Carmen tradizionale. Lo spettacoloè molto forte, pieno di energia. C' è anche violenza, come nel duetto finale, quando Don José cerca di abusare di Carmen. Emma Dante sottolinea l' ambivalenza del loro amore: a volte tenero, a volte animalesco». È vero che le fa indossare un abito monacale? «In tutto lo spettacolo c' è un tocco di Suditalia: in scena ci sono molti simboli religiosi che trasmettono un senso di morte. Ma i costumi sono belli, sensuali, colorati. Quello che ho quando assisto alla vittoria di Escamillo è un po' spagnoleggiante». L' ha influenzata qualche interprete del passato di Carmen? «Le ho ascoltate tutte, ma non in fase di preparazione. Però posso dire che, come mezzosoprano, Fiorenza Cossotto è il mio modello». Lei è fidanzata con il tenore Riccardo Massi, anche lui allievo dell' Accademia. «Sì, e sta imparando la parte di Don José come sostituto di Jonas Kaufmann. Se tutto va bene, non canteremo assieme. Ma quanto mi piacerebbe! Quando provavamo il duetto finale, Barenboim ci prendeva in giro: ragazzi, non siete superstiziosi?»
TRIESTE In giugno avrebbe compiuto 70 anni, occasione in cui un artista può anche guardarsi indietro e che invece rende più struggente il ricordo di Dino Ciani, assieme a Michelangeli e Pollini il nostro più grande pianista del dopoguerra. Il mondo non fece in tempo a invidiarcelo perché scomparve a soli 32 anni in un incidente stradale. Era nato nel 1941 a Fiume e tale contiguità ce lo rendeva particolarmente caro, anche se non si esibì spesso a Trieste: tra il '68 e il '70 un paio di volte per la Società dei Concerti e al "Verdi" in un concerto sinfonico diretto da Luigi Toffolo. In assenza di parenti musicisti, la rivelazione del suo talento fu inaspettata e avvenne a Genova dove la famiglia si trasferì ( il papà era agente marittimo) alla fine della guerra. Diploma a pieni voti al Conservatorio di Santa Cecilia, poi l'incontro decisivo della carriera, quello con Alfred Cortot, il cui insegnamento seguì a Losanna, a Parigi e d'estate anche all'Accademia Chigiana di Siena. L'anziano mago della tastiera fu conquistato dal giovanissimo fiumano che definì «uno dei pochissimi che percepiscono il vero dell'intenzione creatrice nella diversità delle sue manifestazioni». Dotato di cultura vastissima, curioso e audace, Ciani non rispecchiava il clichè consunto del pianista, perfezionista e propenso alla tecnica muscolare. Sempre alla ricerca di nuove vie e nuove emozioni, frugava nel repertorio e amava far musica in compagnia, anche mettersi al servizio di cantanti. Lo provano i sodalizi con Leyla Gencer e Placido Domingo, e il ciclo schubertiano del "Winterreise" con Claudio Desderi. Un paio di giorni prima della sciagura aveva suonato a Chicago il Terzo Concerto di Beethoven diretto da Giulini e fu la sua ultima volta. Sull'onda emotiva della scomparsa, il Teatro alla Scala bandì un Concorso internazionale per l'anno successivo, il 1975. Presieduta da Franco Abbiati, poi da Arthur Rubinstein, da Nikita Magaloff e da Riccardo Muti, la competizione prosperò per oltre 20 anni per poi affievolirsi. Il testimone è ora passato a un Festival che porta il suo nome e che si svolge tra luglio e agosto a Cortina d'Ampezzo (dove è sepolto). Ne è direttore artistico Jeffrey Swann, vincitore della prima edizione del Concorso Ciani.
LA REPUBBLICA
La Scalata Giovani cantanti crescono e conquistano un posto al sole
C' è chi è uscito da poco, come il tenore Leonardo Cortellazzi e chi, come la ventiquattrenne Pretty Yende, si metterà in tasca il suo diploma di soprano solo il 19 giugno, e ci sono tante giovani star, come la georgiana Nino Machaidze, 28 anni, conosciuta ovunque come l' Angelina Jolie della lirica (vedere per verificare la somiglianza), e il già arcinoto Giuseppe Filianoti, che aprirà il 7 dicembre la stagione scaligera nel Don Giovanni. Ma l' elenco è lungo: Capitanucci, Surguladze, Cavalletti, tutti talenti che si sono perfezionati a Milano, all' Accademia per cantanti lirici del Teatro alla Scala e che saranno i protagonisti della prossima stagione del Piermarini (intanto oggi, nella sede di via Santa Marta 18, si tiene il terzo e ultimo open-day della scuola, dalle 10 alle 17). La nostra Angelina Jolie, che all' anagrafe fa Nino, cosa buffa per questo schianto, ha anticipato addirittura i tempi: sarà lei, infatti, la diva di Romeo e Juliette di Gounod diretta da Yannick Nezet-Seguin, in scena dal 6 giugno. Con questa Juliette, ha già incantato a Salisburgo e Londra, ma la Scalaè la Scalae Nino, che avrà come Romeo Vittorio Grigolo, non sta più nella pelle: «Ci sono dei ruoli che ti appartengono, altri che ti richiedono più sforzo. Juliette fa parte della prima categoria. Come lei anch' io sono solare, sorridente e positiva...certo il finale è drammatico ma la musica e il libretto sono talmente perfetti che il personaggio evolve con naturalezza». Nino, alla Scala, è conosciuta (La Figlia del Reggimento, Bohème), ma a lei è rimasta impressa quella prima volta del novembre 2005, quando, dopo appena due mesi di Accademia, fu scelta come solista per interpretare delle arie di Mozart: «Sono stati due anni indimenticabili. La mia insegnante era Luciana Serra, con cui ho perfezionato l' agilità degli acuti, e poi c' erano i masterclass con Leyla Gencer e la Freni e l' opportunità di cantare in Scala...cosa puoi desiderare di più? In Accademia ho persino trovato l' amore!» svela Nino, fidanzatissima col baritono Guido Lo Consolo. Alla Scala tornerà nel 2012: sarà Gilda nel Rigoletto, che ha appena interpretato a New-York con l' exaccademico Giuseppe Filianoti. Il quale sarà Don Ottavio nel Mozart che inaugura. «Capita spesso di incontrare per il mondo colleghi usciti dall' Accademia; ciò mi rende orgoglioso di essere italiano. Don Ottavio? Canta due delle arie più belle scritte da Mozart per un tenore. Interpretare Mozart è come danzare delicatamente su una superficie di vetro. Bisogna essere espressivi rispettando lo stile dell' autore e curare la purezza di ogni suono come se la voce fosse uno strumento». Ma nella prossima stagione scaligera conosceremo anche tante voci nuove e straordinarie come quelle dei giovani che si diplomeranno a giugno Evis Mula, Jihan Shin, Valeria Tornatore e Ananna Victorova. E soprattutto come quella della sudafricana Pretty Yende, prima studentessa nera dell' Accademia, che nel 2011-2012 sarà, nell' ordine: la Sacerdotessa nell' Aida di Zeffirelli; Barbarina in Le Nozze di Figaro e Musetta in Bohème nel settembre del 2012. Paura? «Per niente. Non vedo l' ora di cominciare queste produzioni grandiose. E' la prima volta che la Scala offre così tanti ruoli ad un' unica artista nell' arco di una sola stagione, ma credo che siano tutti titoli giusti per me. Non speravo di arrivare a Bohème così presto. Mi sarà molto utile dare un' occhiata a come lavorano i colleghi che mi affiancheranno». E' una ragazza umile, Pretty, ma esprime tutta la forza di chi, per primo, ha sfondato una barriera: «Essere la prima cantante nera dell' Accademia ha un significato speciale: vuol dire che la Scala è aperta a tutti e che tutti, se hanno il sogno di cantarvi e hanno talento, possono farcela». E ce l' ha fatta anche Leonardo Cortellazzi, classe 1980, a guadagnarsi un posto al sole nel prossimo cartellone. Interpreterà a settembre Telemaco ne Il Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi diretto da Bob Wilson. «Adoro il barocco. Richiede una voce flessibile, ma anche sonora. Ma è piacevole cantare questo repertorio anche per un altro motivo: trovi colleghi meno snob».
LA REPUBBLICA
La carriera di Mariella Devia, che festeggia i quarant' anni dal debutto, ha nel Maggio Musicale uno dei teatri cruciali. Dove i suoi fan l' hanno di volta in volta applaudita come interprete pergolesiana, mozartiana, verdiana, belliniana. E, ovviamente donizettiana: la lunare, immaginifica Lucia di Lammermoor firmata dal regista Graham Vick e la riscoperta di Parisina. Ma è un Donizetti diverso quello del concerto che la vede protagonista, domani, al Comunale, sul podio Daniele Callegari, a chiusura del festival. In programma, infatti, i finali delle opere che hanno per protagoniste grandi regine: da Maria Stuarda ad Anna Bolena fino a Elisabetta prima, che Donizetti ritrasse nel Roberto Devereux (da novembre, con debutto a Marsiglia, entrerà nel repertorio della Devia). «Perché ho deciso di accettare un concerto del genere? Non me lo ricordo e se me lo ricordassi mi picchierei da sola - dice il soprano, sovrana assoluta del belcanto, alludendo alla difficoltà del programma - confesso che mi sento come un toro nell' arena. Qui le difficoltà sono di due ordini. Tecnico, visto che ogni regina si avvale di una propria vocalità, e interpretativo: dal pentimento cattolico di Maria Stuarda all' alternanza tra folliae lucidità di Anna Bolena». Una follia ben diversa da quella di Lucia, «ragazza angelicata, sognante, che rifugia nella pazzia il dolore per le mancate nozze, da lei tanto bramate, con Edgardo». Sono 15 i titoli donizettiani che la Devia ha in repertorio, in questo seconda solo ad un' altra grande «portavoce» del compositore: Leyla Gencer. «Mi piace perché pone sempre sfide - dice Devia - a forza di studiarlo, ci sono degli elementi del suo fare musica che sono diventati miei». A tanti altri cantanti, invece, Donizetti non va proprio giù e le sue opere vanno scomparendo dai cartelloni. Forse perché non ci sono più voci adatte? «Non amo mai toccare il discorso sui giovani interpreti di oggi, che rischiano di bruciarsi subito. Chi mi assicura che anche nel passato questo non accadesse? Io sono ancora qui perché ho studiato molto e perché ho sempre posto grande attenzione al repertorio. Ho detto tantissimi no: a Traviata pochi anni dopo il mio debutto, a Madama Butterfly che mi veniva proposta solo perché anche Toti dal Monte e Renata Scotto l' avevano interpretata. Due voci ben diverse dalla mia». Sul futuro di Mariella Devia continua ad aleggiare il fantasma di Norma: "Casta diva" è uno dei suoi cavalli di battaglia nei concerti, «ma all' opera completa dico no. Per ora. Il problema di questo personaggio è che fino ad oggi è stato affidato a voci che non erano belcantiste. Potrei accettare soloa determinate condizioni: un cast e un teatro adeguati alla mia voce. Chessò: se il Maggio decidesse di allestirla alla Pergola, forse potrei pensarci». Nel concerto di domani, ogni finale sarà preceduto dall' esecuzione della sinfonia dell' opera in questione: «Non sono una passeggiata, presentano caratteristiche strumentali impegnative» spiega Callegari, che si sofferma sulla mal sopportazione, da parte delle orchestre, di Donizetti, «troppi cliché da rispettare. Invece l' accompagnamento, nelle sue opere, è radicalmente legato alla parola, è in funzione di ciò che si dice, e così va restituito». Alla Devia è dedicato l' incontro di stasera, al Piccolo Teatro (ore 21) a cura di Andrea Merli e Michael Aspinall, grande esperto di belcanto e protagonista di memorabili concerti en travestì, da sopranista. «Un omaggio? - sbotta ridendo la Devia - Ehi, ma non sono mica morta!». Teatro Comunale, corso Italia Domani, ore 20.30. 80, 60, 30 euro Informazioni 055/2779350
Mariella Devia aprirà con Anna Bolena
TRIESTE A tre mesi dall'inaugurazione, la stagione del Teatro Verdi è compilata in ogni sua parte e i pieghevoli sono a disposizione degli appassionati per l'abbonamento. Dopo averla delineata lo scorso 4 settembre, la Fondazione, nella persona del suo sovrintendente Antonio Calenda, è stata di parola nel presentarne i dettagli. Per la verità, qualche casella porta ancora la dizione "da definire", ma si tratta di marginalità. Tenuto conto delle difficoltà contingenti, il lavoro è stato sodo con un riconoscimento al segretario artistico Antonio Tasca. Si parte, quindi, dalla donizettiana "Anna Bolena", di grande interesse anche se non un capolavoro assoluto. Riesumata una sessantina d'anni addietro, tra l'altro a Glyndebourne da Leyla Gencer, Carlo Cava e Juan Oncina diretti da Gavazzeni, avrà sul podio un "donizettiano" doc quale Bruno Campanella nell'edizione ideata dal regista Graham Vick. Attesissima la gran dama del belcanto Mariella Devia nelle vesti della protagonista che si alternerà con Cinzia Forte, mentre al personaggio di Enrico VIII presterà la voce Luiz-Ottavio Faria e a quello di Lord Riccardo Celso Albelo, a Trieste applaudito in "Don Pasquale", "Pescatori" e "Stuarda". Un astro di prima grandezza del belcanto connoterà anche la prima delle due opere verdiane, "La battaglia di Legnano" e "Rigoletto" previste per febbraio e marzo. Si tratta di Dimitra Theodossiou, soprano greco ammirata in questi giorni a Parma nel "Requiem" ed in Sicilia in "Norma", qui rivelatasi più di dieci anni fa nel "Corsaro". Nella "Battaglia" la Theodossiou (alternata da Sara Galli) sarà affiancata da Enrico Iori, da Leonardo Lopez Linares e Giorgio Caoduro. Molta attenzione è stata prestata al successivo "Rigoletto", diretto da Corrado Rovaris e con Michele Mirabella in cabina di regia. Il primo cast è in linea con la difficoltà dei tre temibili ruoli, affidati a Luca Salsi, debuttante nel ruolo, Julia Novikova e Francesco Meli. Tutte da scoprire le alternanze, con David Lecconi, Paola Cigna e Armando Kllogjeri. Sul podio della successiva "Bohème" salirà Donato Renzetti, qui atteso all'imminente concerto sinfonico. Il nuovo allestimento sarà firmato da Pier Paolo Bisleri, vi canteranno Rossana Potenza, Jean François Borras, Gezim Myshketa e la beniamina per antonomasia Daniela Mazzucato. Due concittadini di peso quali il tenore Massimo Giordano e Paolo Rumetz connoteranno il mascagnano "Amico Fritz", mentre, convocando Antonino Siragusa, Roberto Di Candia, Paolo Bordogna e Marco Vinco, si è riusciti ad equilibrare il cast del "Barbiere di Siviglia": tutto dire, vista la Rosina di Daniela Barcellona. Il musical di Pirandello "Proprio così" in prima assoluta e due spettacoli di balletto completano il cartellone 2012, più luci che ombre nonostante i tempi di magra.
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ERIC DAHAN
Anna Netrebko trône à Gaveau
Lyrique. La soprano autrichienne d’origine russe, habituée des grands rôles, poursuit son ascension ce soir à Paris.
La première fois qu'on l'a entendue, c'était au Mariinsky de Saint-Pétersbourg dans les Fiançailles au couvent de Prokofiev, puis en fille-fleur dans Parsifal. Beauté du timbre, physique de rêve, sa carrière internationale semblait assurée, comme l'a confirmé des années plus tard sa Traviata à Salzbourg. Signée en 2002 par Deutsche Grammophon, Anna Netrebko a été bombardée nouvelle diva du lyrique avec des méthodes habituellement réservées aux stars pop.
Mais elle nous a toujours posé problème par son intonation fluctuante et son émission couverte. Sa Susanna, dans les Noces de Figaro à Salzbourg en 2006, était éprouvante. Son Antonia, braillée faux dans les Contes d'Hoffmann en 2009 au Met, était irrecevable. Triomphe du marketing ? On ne retournait pas moins l'écouter il y a un mois en Manon, au Met. Si son contrôle du vibrato reste problématique, le timbre a gagné en chaleur et en couleurs, et les notes hasardeuses sont coulées dans un legato qui les «résout» de façon spectaculaire.
«Miracle». D'où ce rendez-vous donné dans un bar panoramique de l'Upper West Side où elle arrive très star, brushing et lunettes noires. Elle commande une coupe de champagne, dévore olives et chips et refuse de raconter l'enfance de son art : «Tout est sur Internet.» Rappelons donc que la soprano lyrique est née le 18 septembre 1971, à Krasnodar en Russie, sur les rives de la mer Noire, qu'elle a fait ses études au conservatoire de Saint-Pétersbourg et s'est fait engager comme femme de ménage au Mariinsky, où Valery Gergiev l'a découverte puis lancée. «Depuis toute petite, j'ai toujours voulu monter sur scène, chanter, jouer la comédie, je ne sais pas d'où ça m'est venu»,concède-t-elle.
Dès 1995, elle chante à l'Opéra de San Francisco. En 2002, elle fait ses débuts au Met dans Guerre et Paix de Prokofiev.
Dix ans plus tard, c'est la nouvelle «reine» du plus grand théâtre lyrique de la planète. Sa spécialité : bel canto. Sa recette ? «J'ai beaucoup écouté les disques de Mirella Freni, de Callas et Tebaldi, et pris des leçons avec Renata Scotto, qui m'a appris le style bel cantiste.» On évoque Massenet et cette Manon dont elle n'est pas folle. «Don Quichotte, c'est beau, mais Thaïs, bof, je ne pense pas qu'on puisse passer de courtisane à nonne. Je suis artiste, ne crois pas en Dieu. Anna Bolena, c'était plus difficile, mais quelle musique géniale.»
Cet été à Salzbourg, elle sera à nouveau Mimi dans la Bohême : «J'aime bien le rôle. La musique de Puccini est la meilleure, il suffit de chanter de la façon la plus simple et directe, et le miracle se produit.» Dans un an, elle tentera sa première comtesse des Noces de Figaro à Baden-Baden : «Pour moi, c'est une femme pleine d'esprit, je n'aime pas qu'on l'interprète comme un personnage triste au cœur brisé. Mon idéal, c'est Kiri Te Kanawa.»
N’étant ni soprano dramatique ni colorature légère, Netrebko n’est pas taillée pour l’opéra russe, mais a néanmoins enregistré un disque de mélodies avec orchestre sous la baguette de Gergiev, qu’elle a ensuite donné en récital, accompagnée au piano par Daniel Barenboim.
«Sexuelle». C'est ce programme qu'elle propose salle Gaveau, à l'invitation de la série «les Grandes Voix», avec, au piano, l'épouse de Barenboim, Elena Bashkirova. Elle reviendra en novembre salle Pleyel chanter Iolanta de Tchaïkovski en version de concert. Entre-temps, elle ouvrira à nouveau, en septembre, la saison du Met avec l'Elixir d'amour et fera également l'ouverture 2013 avec Eugène Onéguine. Alors, contente d'être la nouvelle reine du Met ? «N'écrivez pas ça, s'il vous plaît, il y a d'excellents chanteurs toute la saison et on va encore plus me détester, surtout les femmes. Les pires critiques parues sur Manon étaient signées de femmes. Elles disaient que j'étais trop sexuelle, pas assez vulnérable.»
Che cosa è una voce verdiana? Che caratteristiche deve possedere? Che cosa la distingue da un voce non verdiana?
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Usate il cervello, non solo la voce»
Carmen Giannattasio: «L'opera non è una cosa per vecchi, in Italia non viene valorizzata»
Incontriamo Carmen Giannattasio, una delle protagoniste del Gala Operalia.
Carmen... qualche ricordo di Parigi, della sua edizione, quella del 2002, vincitrice del primo premio della giuria e del premio del pubblico?
«Ricordi tantissimi, innumerevoli… il più vivo quello di Leyla Gencer, con cui avevo studiato all’Accademia della Scala, ma dopo quell’esperienza non ci eravamo lasciate bene…A Parigi la ritrovai in giuria, poco prima delle audizioni per i quarti di finale ci incrociammo in bagno; avevo cambiato colore di capelli, subito non mi riconobbe, mi ripresentai… e mi rispose … “Che Dio te la mandi buona”. Da lì capii che non mi sarebbe stata favorevole. Dopo Operalia, dopo aver ricevuto, del tutto inaspettati, i due premi più importanti, mi riappacificai con lei, che ritornò ad essere un punto di riferimento prezioso. Umanamente questo fu il successo per me più importante: recuperare un rapporto a dir poco materno, che oggi mi manca molto».
Italiana in terra straniera…
«Fu un’emozione che ancora oggi mi lascia attonita: arrivammo in finale in due italiane, a competere con due francesi, una di loro parigina… vincere il premio della giuria (che all’epoca non era diviso per categorie ma era unico) e poi quello del pubblico significò moltissimo, straniera in una terra che vantava colleghe e concorrenti bravissime».
In un anno di mondiali di calcio…. Quelli del Giappone-Corea del Sud…
«Sì… noi italiani, insieme al Maestro Domingo, eravamo tristi, l’Italia e la Spagna erano state eliminate. Noi, che partecipavamo a una sorta di Olimpiadi per giovani cantanti, avevamo con noi le nostre bandiere… così quando vinsi il premio… mi sembrò quasi di vincere la medaglia d’oro ad una competizione sportiva. La sensazione che permea tutti noi al momento della premiazione è quella d’essere campioni in una competizione atletica».
Come mai, quasi sempre, su 40 cantanti selezionati a prendere parte ai quarti di finale, su centinaia di domande che giungono da tutto il mondo, vi sono sempre pochi italiani?
«Non è un problema di qualità, il Made in Italy è una garanzia nel mondo dell’opera, sinonimo di una tradizione autorevole; se siamo in minoranza è per un problema culturale: sempre meno giovani in Italia studiano canto lirico, anche perché si tratta di un tipo di cultura che in Italia non viene sufficientemente valorizzato. Spesso i giovani credono che l’opera sia un genere obsoleto e per vecchi, non è così. Purtroppo non vi sono strutture abbastanza organizzate per insegnare musica, e sufficienti borse di studio per studenti meritevoli, non parlo solo dei cantanti, ma di pianisti, violinisti, musicisti…»
E Operalia?
«Operalia per questo è una vera manna dal cielo! I premi in denaro permettono ai giovani vincitori di far fronte alle spese contingenti e poi la giuria e tutta l’organizzazione ti aprono porte che nell’immediato portano a scritture e ruoli in moltissimi teatri…».
Cosa consiglierebbe ai giovani partecipanti di quest’anno?
«Concentrazione, concentrazione, concentrazione! Il cervello è la cosa più importante in questo lavoro; la voce, una volta che c’è, va in automatico, ma occorre pensare e concentrarsi, e poi occorre desiderare fortemente di arrivare in finale e di vincere. Forse ho vinto proprio perché l’ho desiderato intensamente. A questo proposito mi viene in mente una citazione di Paolo Coehlo, dal Manuale del guerriero della luce: “Quando si desidera una cosa, tutto l'universo cospira affinché chi lo desidera con tutto sé stesso possa riuscire a realizzare i propri sogni».
La televisión italiana realizó en 1984 un magnífico relato de la vida verdiana, donde Renato Castellani contó con el actor inglés de notable parecido con el compositor, Ronald Pickut, y con la bailarina Carla Fracci capaz de ofrecer un encantador perfil de la Strepponi. En la banda sonora, entre los cantantes a disfrutar, la grandísima Leyla Gencer que fugazmente aparece también en pantalla. Fue un éxito de audiencia incluso en nuestro país.
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