Al Comunale Carlo Rizzi dirige un ottocento di fosche passioni
«Il Trovatore è stato accusato di volgarità, ma questa
volgarità è connaturata alla vitalità e alla passione, senza le quali non esisterebbe
la grande arte», scriveva tanti anni fa Francis Toye, cogliendo un punto
fondamentale di una delle opere più difficili di Giuseppe Verdi, che stasera
(ore 20.30), dopo trentatré anni di assenza da Bologna torna al Teatro Comunale
in un nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro delle Muse di Ancona e
con il Circulo Portunese De Opera di Coliseu Do Porto, con la direzione di
Carlo Rizzi (recentemente nominato direttore ospite principale del Comunale di
Bologna), la regia di Paul Curran, che ha spostato l' ambientazione all'
Ottocento, e le scene di Kevin Knight. Nel cast, accanto a giovani cantanti
(«preparati e esperti», come sottolinea Vincenzo De Vivo), spicca il nome di
Leo Nucci, nella parte del Conte di Luna. «Non è un' opera romantica, ma un'
opera di passione», racconta, in un italiano fluido, il regista scozzese Paul
Curran, che sembra così idealmente riprendere la definizione di Toye. E per
giunta pone problemi anche dal punto di vista drammaturgico: «Non c' è nemmeno
un' azione», ricorda Curran. «è un' opera molto belcantistica», aggiunge Rizzi,
«che pone diversi problemi, e non solo dal punto di vista della linea del
canto, ma anche perché è un' opera a comparti, spezzettata. Quindi bisogna
riuscire a darle un' unità di fondo. Sono molto contento dei due cast di
cantanti, perché sono affiatati sia come persone che vocalmente. E questo in
un' opera del genere è importantissimo». Si alterneranno nella parte di Leonora
la greca Dimitra Theodossiou e Carmen Giannatasio, che è stata fra l' altro
allieva della grande Leyla Gencer. Si esibirà per la prima volta in Italia la
georgiana Mzia Nioradze, mentre per il coreano Francesco Hong («un registro
acuto, con uno squillo potentissimo. Ci ha lasciati senza parole nel corso di
un' audizione. Bravissimo», dice Stefano Mazzonis), questo Trovatore
rappresenta il debutto, nella parte di Manrico. L' opera verrà ripresa da Rai
Trade che produrrà un dvd. Repliche il 6, 10, 13, 15, 16 e 17 aprile.
IL PICCOLO
2005.06.09
RINO ALESSI
Butterfly chiude la stagione al «Verdi»
TRIESTE Prima ancora di essere una cantante affermata, Nicoletta Curiel è una
musicista coi fiocchi. Diplomata in violoncello al Conservatorio Tartini sotto
la guida, severa, di Libero Lana ha iniziato la sua attività musicale come
strumentista facendo la spola fra Trieste, la sua città, e Venezia dove
insegnava. «In effetti - racconta l'artista triestina, ormai fiorentina
d'adozione alla vigilia della prima di "Madama Butterfly" - non ho
fatto gavetta. Nel mondo della musica con un padre direttore d'orchestra, una
madre pianista e un fratello maggiore cantante come me, ci sono nata, ma al
palcoscenico sono arrivata un po' per spirito di emulazione e un po' per caso.
Il debutto è avvenuto alla Piccola Scala con un'opera di Vivaldi, il
"Farnace" che era il risultato dei corsi di perfezionamento
dell'Aslico. La mia gavetta l'ho fatta lì, con Leyla Gencer che ci ha preparato
con grande scrupolo. Dalla Piccola sono passata subito alla grande Scala con
una "Cavalleria rusticana" diretta dal maestro Patané. Ero Lola,
naturalmente, la rivale di Santuzza. Poi sono arrivati i contatti con il
maestro Muti e la mia prima Suzuki con il maestro Gavazzeni accanto a Catherine
Malfitano».
Un inizio alla grande non c'è che dire...
«E che continua, grazie al cielo. Suzuki è un ruolo
certamente secondario, ma lo affronto sempre con piacere. Dopo la Scala ho
avuto l'onore di partecipare alla nuova produzione di "Madama
Butterfly" all'Opéra Bastille di Parigi, uno spettacolo che ha fatto epoca
e che è tuttora nel repertorio del teatro. Due mesi e mezzo di prove con Bob
Wilson».
Cosa le è rimasto di quell'esperienza?
«Moltissimo. Wilson ci ha fatto ripensare il nostro modo
di stare in palcoscenico e ci ha chiesto rigore e sobrietà. Chi si muove tanto
perde in concentrazione, continuava a ripeterci. Se la postura è più ferma
esprimi meglio, con la faccia e con le mani. E questo in un'opera di ambiente
giapponese è fondamentale».
Suzuki ha, nella Madama Butterfly, il ruolo che ha il coro nella tragedia
greca. È la testimone degli avvenimenti...
«È un personaggio positivo, come la Fenena del "Nabucco" e l'Adalgisa
della "Norma". È per questo che li interpreto volentieri e ringrazio
il maestro Oren per avermi voluta nella mia città sia nelNabucco di qualche
stagione fa che ora in "Madama Butterfly". "Butterfly" è
anche l'ultima opera che mio padre ha diretto al Teatro Verdi prima
dell'incidente che gli costò la vita. Ne ho un ricordo molto netto anche se ero
una bambina. Il bonzo mi fece paura e del tenore mi innamorai perdutamente...».
Cosa significa essere musicista e non semplicemente cantante?
«Tutto. Significa poter spaziare, e quindi privilegiare
la musica. Significa affrontare repertori diversi, da Schönberg a Puccini,
dall'operetta a Mozart, da Rossini ai contemporanei. Il cantante spesso
dimentica la linea musicale che ha un suo iter ben preciso e che va seguito.
Insomma cantare è come eseguire una suite di Bach al violoncello».
Significa anche alternare opera e concerto da camera?
«Sicuramente. Dopo questa Suzuki triestina ripeto a Siena
il concerto tenuto qualche anno fa al Politeama Rossetti con il maestro Canino.
Questa volta, però, cambieremo programma e vorremmo inserire, come sta facendo
la grande Teresa Berganza, musiche di Astor Piazzolla».E poi?
«E poi ci sono un'Adalgisa in Francia e una serie di "Magnificat" di
Bach in Germania».
Ritornerà a Trieste?
«E chi lo può dire? Mi piace ritornare nella mia città e
qui ho fatto le mie primissime apparizioni in palcoscenico grazie a Fulvio
Gilleri che mi ha voluta al Festival dell'Operetta. Staremo a vedere».
IL PICCOLO
2005.11.17
LILIANA BOMBOSCHEK
Per ricordare la pianista triestina Livia D'Andrea
Romanelli (nata nel mese di novembre del 1914 e scomparsa nel 1988) viene
organizzata una serata con musica, poesie e foto oggi alle 17.30 presso la Sala
grande delle Assicurazioni Generali (piazza degli Abruzzi 2) alla quale anche
il pubblico potrà partecipare con aneddoti e ricordi personali.
Interverranno Silvana Alessio Martinelli a nome della Gioventù musicale, alcune
canzoni della Romanelli saranno cantate da Bruna Sbisà ed Elisabetta Olivo con
l'accompagnamento pianistico di Corrado Gulin, due poesie saranno lette da
Mariella Terragni e Loredana D'Andrea; collaboreranno inoltre Serafino Marchio
e il regista Ugo Amodeo. L'incontro si concluderà con la consegna di una targa.
Figura molto nota negli ambienti artistici triestini, Livia D'Andrea Romanelli
era un'ottima pianista, insegnante, accompagnatrice di cantanti, autrice di
musiche per pianoforte e di canzoni. Diplomata al Conservatorio Tartini cominciò
a farsi conoscere subito dopo la guerra suonando nei club degli americani e
insegnando pianoforte ai loro figli, accompagnando numerosissimi cantanti e
lavorando a Radio Trieste in trasmissioni come La Radio per le scuole, El
Campanon ecc.
Aveva molta facilità nel comporre e scriveva le musiche originali per varie
trasmissioni. Nel contempo insegnava musica nelle scuole superiori «Nôtre Dame
de Sion» e «Beata Vergine».
Nel campo della musica leggera colse il primo successo nel '53 vincendo il
terzo premio al I Concorso della canzone veneziana sotto la direzione di Guido
Cergoli; la sua canzone «Limpidi oci» fu molto apprezzata per la bella linea
melodica tanto che il famoso soprano Toti dal Monte la eseguiva spesso. In
seguito partecipò con successo anche ai festival di canzoni triestine
organizzati dalla Taverna Dreher: le più note furono «Soto el ciel de Trieste»,
«L'amor più grande», «Vecia strada». Fu per molti anni impareggiabile maestra
accompagnatrice nelle scuole di canto di famosi cantanti (Mario del Monaco, la
dal Monte, la Adami Corradetti), ebbe occasione di accompagnare grossi nomi
della lirica (Corelli, la Frazzoni, la Gencer). Fu apprezzata collaboratrice
musicale al Teatro Nuovo.
LA REPUBBLICA
2005.11.29
ROBERTO IOVINO
Ciani, la magia sulla tastiera omaggio a un talento perduto
Fiumano di nascita, ma genovese di adozione, Dino Ciani, morto
nel 1974 in un incidente stradale a soli 33 anni, è stato un pianista dal
talento straordinario. Artista di profonda cultura, uomo dai molteplici
interessi (era un appassionato sportivo, ma amava anche la cucina nella quale
esibiva doti di raffinato gourmet) Ciani ha lasciato interpretazioni
indimenticabili e il doloroso rammarico di essere scomparso prima di aver
potuto esprimere pienamente le sue immense doti di musicisti. A Ciani, "Il
giovane pianista diventato leggenda" è dedicato un convegno nazionale in
programma domani (ore 16,30) nell' Auditorium della Banca Carige e organizzato
dalla Fondazione De Ferrari Fondo Neill. «Il convegno - ha spiegato Josè Scanu,
curatore scientifico del Fondo - è un omaggio al grande artista voluto dalla
Fondazione De Ferrari, che custodisce nel prezioso archivio storico diverse
testimonianze dell' amicizia e della sincera e autentica stima che intercorse
tra Neill e l' allora giovane Dino». Al convegno parteciperanno illustri
personaggi del mondo dell' arte e della cultura: oltre all' assessore
provinciale Maria Cristina Castellani, Massimiliano Damerini, pianista allievo
di Martha Del Vecchio (indimenticabile maestra di Ciani), amico e compagno di
studi di Dino, Nicola Costa, allievo della signora Del Vecchio e compagno di
studi di Dino, Laura Colombo, Premio Ciani Teatro Alla Scala, Leila Gencer,
soprano, Renato Caccamo, magistrato, le cugine Maria Grazia Ciani ed Hedy
Ciani, Nandi Ostali editore della Casa Musicale Sonzogno. Verranno inoltre
lette testimonianze di Claudio Abbado, Riccardo Muti e Maurizio Pollini.
«Abbiamo appoggiato questa iniziativa - ha dichiarato Maria Cristina
Castellani, assessore alla Cultura della Provincia di Genova - con grande
entusiasmo e soddisfazione. Un omaggio dovuto a un grande personaggio, una
figura di primo piano nel panorama culturale sia genovese che nazionale». Il
convegno sarà arricchito da preziosi filmati d' archivio forniti da Rai Teche e
dalla sede regionale della Rai Liguria che non sono mai più stati ritrasmessi:
si cita in particolare la registrazione del 1968 del Concerto n. 5 di Prokofiev
per pianoforte e orchestra diretto da Claudio Abbado (sul podio dell' Orchestra
della Rai di Roma) con Dino Ciani straordinario solista al pianoforte.
2 0 0 6
IL PICCOLO
2006.01.30
È morto Roberto Negri: vinse con Celentano un Sanremo
MILANO Si è spento a Milano il pianista e compositore
Roberto Negri, collaboratore (dal 1976) del Teatro alla Scala, dell'As.Li.Co,
della Rai e dei più celebri nomi della lirica: Zubin Mehta, Carlos Kleiber,
Claudio Abbado, Renata Scotto, Leyla Gencer, Giuseppe Di Stefano, Carlo
Bergonzi. Straordinario pianista, arrangiatore e direttore, è stato un
autentico maestro del teatro musicale leggero. Per il musical ha firmato le musiche
di «Victor, Victoria» per Sandro Massimini, del recente «Cuore di cane» e la
supervisione di «Gian Burrasca», collaborando a storici recital di Josephine
Baker, Milly, Milva, Laura Betti.
Più volte era stato al Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e al Festival
«Voci dal Ghetto» con il cantautore Renato Dibì, Karin Schmidt e Rosalina Neri.
Vincitore nel 1969 di un Festival di Sanremo con Adriano Celentano, è stato
negli anni Settanta una colonna del cabaret milanese (con Gianni Magni e Teo Teocoli)
e stava lavorando a un disco su Valter Valdi.
IL PICCOLO
2006.03.31
CLAUDIO GHERBITZ
In cd uno storico Andrea Chénier
Il capitolo verista dell'opera italiana, oltre ad
annoverare i nomi di Mascagni, di Leoncavallo, e, con qualche sfumatura
diversa, di Cilea e Puccini, si arricchì dell'apporto di Umberto Giordano che
vi aderì in pienezza ed autenticità d'intenti con due opere, altrettanti
capolavori, quali «Andrea Chénier» e «Fedora», scritti rispettivamente nel 1896
e nel 1898.
«Chénier» fu la grande rivelazione che, dopo il folgorante successo alla Scala,
procurò al musicista di Foggia fama mondiale. Una registrazione storica
dell'opera, rimasterizzata in due compact dall'incisione originale in vinile
avvenuta a Roma nel 1957, sarà distribuita domani nelle edicole, assieme al quotidiano
«Il Piccolo» e con un sovraprezzo di € 9,90, nell'ambito della collana «La
Grande Lirica». Come di consueto, vi è allegato il libretto integrale.
L'incisione risale a mezzo secolo fa e definirla storica non è un azzardo. Sul
podio dell'Orchestra e del Coro di Santa Cecilia troviamo un grande maestro
italiano, Gianandrea Gavazzeni, il cui decimo anniversario della morte,
scoccato lo scorso mese, non ha trovato ricordo alcuno.
Si era sposato da poco in seconde nozze con una cantante, che ebbe l'opportunità
di dirigere in una «Bohème» alla Scala, lui ottantaduenne, lei trentacinquenne.
Nativo di Bergamo, gli si deve la «renaissance» del suo concittadino Donizetti,
con le memorabili «Anna Bolena» interpretate prima dalla Callas e poi dalla
Gencer, ma fra le tante benemerenze di studioso va segnalata proprio la difesa
appassionata di Umberto Giordano e il tentativo di rifuggere dai giudizi
spicciativi e superficiali per indicare una strada atta ad una seria
valutazione critica della sua musica.
L'opera, il cui libretto fu scritto da Luigi Illica, si basa sulla vita del
poeta Andrea Chénier, imprigionato durante la Rivoluzione a causa della sua
attività politica e dei suoi scritti e ghigliottinato pochi giorni prima della
fine del Terrore. Al ruolo del protagonista si sono dedicati i più famosi
tenori del mondo, e questa edizione vanta la presenza di colui che fu definito
l'unico degno erede di Caruso, Mario Del Monaco. Il tenore fiorentino dispiega
qui tutta quella strapotenza degli acuti e quel fraseggio declamatorio che ne
fecero un fenomeno più unico che raro.
Accanto a lui, quale trepida «Maddalena di Coigny», esibisce lo strumento
prezioso e vellutato della sua voce una Renata Tebaldi poco più che trentenne.
Il ruolo di Carlo Gérard è affidato ad Ettore Bastianini, baritono senese
prematuramente scomparso, ed ai suoi tempi, forse a causa di una sovrabbondanza
di colleghi di alto livello, non sempre valutato secondo i suoi grandi meriti.
Nei ruoli di contorno colpisce incontrare l'allora debuttante Fiorenza Cossotto
nei panni della «mulatta Bercy», mentre il nome del concittadino Silvio
Maionica riporta alla memoria le stagioni del Comunale triestino dell'immediato
dopoguerra.
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OPERA NEWS
2007 January
I'll never stop saying Maria
When critics evaluate Donizetti's "Three Queens" trilogy, Maria Stuarda is often treated like a "vil bastarda" itself. As Dallas Opera prepares to open a production of the opera this month, IRA SIFF offers a spirited defense of this bel canto gloss on the final days of Mary, Queen of Scots.
Back in the 1980s in New York, before the advent of the CD crowded the shelves at Tower Records with previously rare "pirated" live-performance and broadcast recordings, one could always tune in to Columbia University's WKCR on a Saturday night and listen to some of the marvels of the previous decades on Stefan Zucker's radio program, Opera Fanatic. One such evening, I tuned in and twenty minutes later realized I had been standing stock still in my living room, riveted into place by the final scene of Maria Stuarda, as sung by the "Queen of the Pirates," soprano Leyla Gencer.
It had taken a moment to realize what I was listening to; I knew two of Donizetti's other Tudor operas, Anna Bolena and Roberto Devereux, very well, but I realized then that I had neglected Stuarda. Like so many, I had the vague impression that Maria was a weak sister of Anna and the Devereux Elisabetta. But that performance caused me to think again about this unusual and deeply rewarding work - Donizetti's forty-sixth opera, which deals with the final days and execution of Mary Queen of Scots.
With the bel canto revival in full swing in the 1960s, it was inevitable that the merits of Maria Stuarda would be discovered, and they were - in the thrilling Maggio Musicale Fiorentino production of 1967, starring Gencer and Shirley Verrett, and later, in the '70s, when Beverly Sills and her director, Tito Capobianco, created the perception of the "Tudor Trilogy" by their famous collaboration on all three works at New York City Opera. But Stuarda's merits are not always immediately evident to those who are comparing the three works; perhaps because of the gentler nature of this protagonist and the fact that Stuarda is really a two-diva opera, some listeners, and even singers, perceive Anna Bolena and Roberto Devereux as stronger.
"But it's not true at all!" counters Leyla Gencer, who sang all three operas. "All three queens are very strong." Another criticism leveled at the opera is that Friedrich Schiller - whose 1800 play Maria Stuart inspired Donizetti's opera - rewrote history, and in adapting the play, Donizetti's inexperienced librettist, seventeen-year-old Giuseppe Bardari, strayed even further from fact. Actually, Schiller was a historian, but his view on historical fact was that it had to bend to the needs of great theater. In fact, for the sake of the structure of Romantic opera, all three of these Donizetti works employ a love triangle that didn't really exist, and of all of them Stuarda comes closest to fact. Leicester, loved in the opera by both Maria and Elisabetta, was Elizabeth's favorite and was also proposed by her as a possible spouse for her cousin Mary in 1563, more than two decades before the action of Maria Stuarda. But history per se is hardly the point of Romantic bel canto opera. "These queens are seen as Donizetti wished to see them," explains Gencer. "And so we must think on another level, not just precisely historic. They are very different, one from the other. Stuarda is the sweetest, let's say, most noble, and above all, she is the Catholic queen. She dies as a person of great faith. But one cannot make comparisons between the three. She isn't the palest one - she is one of the most beautiful, the most romantic. I find it unjust, absolutely, to define her as secondary. She's secondary because they play her in a secondary fashion! This role depends on the interpreter to render her important. All three queens can become extremely tedious if they're played badly. Donizetti is a very great composer, a creator of characters, who has never been entirely understood. He understood, felt, how different these queens were psychologically one from the other. I could say, even, that my favorite is Stuarda. The confrontation scene, when she rebels against Elisabetta, can pass into the history of Romantic opera as some of the most important pages. And you know, you will hear on the recording, that I don't sing, but I insult! And after that insult I get applause from the entire audience. Think of the scene of Maria's confession, and the final scene. These are exceptional, extraordinary pages, very beautiful. It gives one chills."
But Beverly Sills, whose desire to record and perform all three Donizetti queens brought these operas to New York audiences, sees it differently. "Well, if you do all three, you have a powerhouse Elizabeth I - probably the most powerful woman in the world - Anna Bolena, who was a very strong personality … and Maria, who was high-strung, and for whom everything was romantic and love. She's got two powerhouse words, and they're called 'vil bastarda,' and that's it. But the truth of the matter is that any time you have an opera with Elizabeth I in it, you're going to be overshadowed by the strength of that character. Frankly, Stuarda has more beautiful things to sing… and the way Tito [Capobianco] staged it for me! In the final scene he had her in that red dress, and there's a fermata in the score, which he took total advantage of, and had her rap three times on the side of the guillotine for the holy spirits, and then you saw the blade come down, and then a blackout! On the opening night, a woman screamed out, 'No, no!' But still, with Elizabeth there - and I was blessed, I had a wonderful English girl whose name was Pauline Tinsley, who not only had a voice of steel, but she looked like Elizabeth. And she had a powerhouse high E-flat, which she used to great avail - it didn't hurt her in the least bit! Because of the contrast, it made Maria much more vulnerable and easier to play, so that by the time the opera ended, the audience's sympathies were totally on Maria's side. I also had, aside from Eileen [Farrell] on the recording, Marisa Galvany as Elisabetta. I loved her. She also had a steel-like quality onstage. Between Tinsley and Galvany, you had your work cut out for you! They were both fearless. I liked singers like that. But if I hadn't sung the other two, I would have been a bit frustrated with Stuarda. I would have wanted to sing Elizabeth!"
Galvany says of Elizabeth, "You can sing her as a soprano or mezzo. I think it's delicious when two sopranos do the opera, and my voice was darker than Beverly's. The confrontation scene took on its own life. Sparks really flew, and the audience went crazy. I think it's a strong piece - not, perhaps, for the men, but for the women it has wonderful opportunities. It brings out Elizabeth's doubts, strengths and her feminine side. You can find various aspects to her character. One night, when I was deciding Maria's fate, I got really worked up at the pressure of sentencing her to death, and I banged on the table so hard the proclamation flew up in the air - and I caught it!"
Fortunately, Maria Stuarda has hardly been put on the shelf by contemporary opera producers; this month, it turns up as part of Dallas Opera's season. Karen Stone, Dallas's general director, feels that "Stuarda is the ultimate 'diva' opera. I love bel canto opera and many unknown Donizetti works, but Stuarda is certainly my preferred Tudor one. How many opportunities does a soprano have to scream 'Vil bastarda' at another one - onstage, during a performance, and loudly! How to top that scene? Donizetti manages it in one of the most poignant arias with chorus in the whole repertory, Maria's Act III prayer."
These comments drive home the point that Romantic bel canto opera is performer-driven opera. And Stuarda is a brilliant case in point. Sills's 1971 recording offers a vivid interpretation of a headstrong romantic, and she lavishes upon it her plangent tone and florid virtuosity in the form of high-flying embellishments. Gencer, a champion of the composer, who delivers her Donizetti more come scritto, finds the meaning, as she puts it, "within the notes," using less decoration, achieving a towering portrayal. Both are stunning. It's a matter of the artist's gifts and the listener's taste. There is also room for Caballé, Sutherland and Gruberova, who all made Maria their own in different ways.
Another aspect of the opera that presents a challenge is the fact that Schiller's play deals only with the final days of Mary Stuart's life. Her tumultuous youth - her coronation as Queen of Scotland before her first birthday; her childhood betrothal to the Dauphin of France and her brief, teen-aged reign as French queen; her abdication of the Scots crown and her flight for refuge to England, where she was a virtual prisoner for the last nineteen years of her life - is well over by the time the action of the drama begins. The attendant intrigues and violent episodes of her reign as Queen of Scots - including the suspicious death of her second husband, Henry Stuart, Lord Darnley - are only mentioned fleetingly in the confrontation and confession scenes of the opera. Therefore, Maria seems a more passive character, save her one outburst defying Elisabetta. She is a martyr to her faith, and her music defines her as such, through some of Donizetti's most noble melodies and imaginative harmonies. In contrast, Elisabetta's music harks back to Rossini; like the queen herself, it is more rigid but also has an inherent irony, even sarcasm to its nature. She may not be quite the complex Elisabetta of Devereux - the only Donizetti character I can think of who is awarded two entirely different verses of text in her final cabaletta - but neither is she one-dimensional.
What contemporary audiences may easily overlook, and what certainly resonated with Donizetti's public, is the opera's historical context. Both Elizabeth and Mary were direct descendants of the English king Henry VII; the Protestant Elizabeth Tudor was his granddaughter and Mary Stuart was his great-granddaughter - and principal Roman Catholic claimant to the English throne. To her supporters, Mary was also the principal legitimate claimant to the crown, as the Catholic Church did not recognize the validity of the marriage of Elizabeth's parents, Henry VIII and Anne Boleyn. As Mary Stuart's biographer Antonia Fraser has pointed out in The Donizetti Society Journal, the fictional Mary's hasty use of the epithet "vil bastarda" indicates not just the Scots queen's desire to insult her cousin but her desire to supplant her. And in one important sense, Mary did exactly that, for her descendants have served as England's kings and queens since the childless Elizabeth's death. At the time of Maria Stuarda's premiere, in 1834, a Protestant Hanover, William IV, occupied the English throne, but in Donizetti's Italy, Mary Stuart was still a powerful Catholic heroine to a Catholic audience. It is also important to stress that the face-to-face confrontation of the two queens, who never met in real life, was Schiller's invention, one that has been carried through in the numerous movie and television dramatizations of their lives - from John Ford's Mary of Scotland (1936), starring Katharine Hepburn, to the 1971 film Mary, Queen of Scots, with Glenda Jackson and Vanessa Redgrave as the sparring cousins, to the 2005 HBO series Elizabeth I, with Helen Mirren.
Although Stuarda must be assessed as the sum of its parts, Donizetti's writing for Maria alone qualifies this opera as a masterwork. Her entrance aria, "O nube! che lieve per l'aria," so full of nostalgia for France and freedom, introduces a more advanced Donizetti, and the cabaletta that follows, with its clipped upward phrases of nervous agitation, expresses perfectly Maria's fear of Elisabetta, who is approaching. In the course of composition, as Donizetti's involvement with Maria increased, so did his inspiration. When Leicester approaches, urging Maria to meet with the Queen, her agitation increases, but suddenly the nature of the music changes radically as Maria exits and the suspicious but far more contained Elisabetta appears. When Maria reluctantly returns, the Queen's hatred and jealousy are revealed as she launches the confrontation scene with the dismissive "È sempre la stessa" (She's always the same). Maria makes an effort at reconciliation, but her music lets us - and Elisabetta - know that her pride is intact, and the Queen responds by bringing up Maria's rather sordid past and suggesting that she has paid for Leicester's defense with sexual favors. This triggers Maria's loss of control and her brazen insults, hurled at the queen with minimal accompaniment, so that the outrageous text is heard in shocking relief. This coup de théâtre explodes into the thrilling stretta that ends the act. Through this celebrated confrontation scene, which subordinates strict musical structure to drama; the moving confession of her sins to her ally Talbot; and most notably the trio of arias comprising the final scene, Donizetti is ablaze with brilliance. Surely, the modulation to C major during Maria's prayer in E-flat, "Deh! Tu di unumile preghiera," is a stroke of genius, expressing perfectly her spiritual transcendence at that moment, as she sustains a long high G and ascends to A-flat and B-flat, while the melody returns to E-flat. And the choice of maestoso for her final cabaletta, rather than a rapid showpiece tempo, gives her last gesture of forgiveness as she goes to her death far more grandeur. Pale? Anything but.
LA REPUBBLICA
2007.03.30
Un' irripetibile abbondanza di capolavori
Se si guarda alla quantità ed al livello qualitativo
della discografia esistente si può dire che il periodo che va dal dopoguerra
alla fine degli anni Sessanta sia stato la vera "età dell' oro" del
Maggio. Un repertorio vastissimo (da Cimarosa a Prokofiev), i più affermati
direttori del tempo (Serafin, Votto, Gavazzeni, Giulini, Sanzogno, Mitropoulos,
Rodzinsky, Schippers, Erich Kleiber) e le stelle assolute del canto. Bergonzi,
Corelli, del Monaco, Di Stefano, Bastianini, Kraus, Tucker, Bruscantini,
Corena, Gobbi tra gli uomini, ed una lista sterminata tra le donne: Cerqueti,
Stignani, Gencer, Steber, Simionato, Nilsson, Berganza, Scotto, Caballé,
Sutherland e, ovviamente, Maria Callas. Tutti attorno alla grande Orchestra
fiorentina. Impossibile scegliere in questa irripetibile abbondanza se non,
arbitrariamente, alcuni dei dischi più emblematici e "imperdibili".
Innanzitutto la Lucia di Lammermoor del 1953 con la Callas, Di Stefano e Gobbi
sotto la direzione di Tullio Serafin, incisione di altissimo livello e grande
presa emotiva, specie nella scena della "pazzia". E altrettanto
grande è l' Elisir d' amore diretto da Gianandrea Gavazzeni nel '67, con Renata
Scotto, Bergonzi e Taddei in ottima forma. E' per molti la versione migliore,
non ancora superata. Bellissima è la Fanciulla del West versione 1954, nella
quale Dimitri Mitropoulos dirige Eleanor Steber e del Monaco. Una riuscita
totale, per la direzione intensa e cantabile e per il grande apporto delle
voci. E così è per la Gioconda del '57 ove, sotto la bacchetta di Gavazzeni,
svettano la splendida Anita Cerqueti, del Monaco, Bastianini e la Simionato.
Difficile trascurare la grande Joan Sutherland nella Sonnambula del '62 con Monti
e Corena e Richard Bonynge sul podio, o la Cavalleria rusticana del '57 con
Renata Tebaldi e Bjorling diretti da Alberto Erede. Infine un omaggio al disco
che non c' è stato e che forse poteva essere il più prezioso di tutti. Nel 1964
Roman Vlad organizzò un Maggio monografico sull' espressionismo e produsse la
prima italiana del Naso di Shostakovich con la regia di Eduardo de Filippo, le
scene di Mino Maccari e la direzione musicale di Bruno Bartoletti. Fu un
successo assolutamente strepitoso e sensazionale, pur tra le proteste indignate
dei chiassosi benpensanti musicali. Di quell' edizione non esiste sul mercato
alcuna "traccia sonora". Qualcuno ha delle registrazioni pirata?
LA REPUBBLICA
2007.04.06
GREGORIO MOPPI
L'Europa guarda a Firenze capitale di idee e polemiche estate 1962.
L' italianista Raffaello Ramat (presidente delegato del
Comunale su incarico di La Pira) contatta Roman Vlad, in vacanza a Fregene, per
proporgli un Maggio dedicato all' espressionismo da tenersi due anni dopo.
«Qualche tempo prima avevo pubblicato per Einaudi la storia della dodecafonia
dove ovviamente un' ampia sezione trattava di espressionismo. Pensai di
congegnare un festival aperto a tutte le arti e un convegno internazionale.
Pertanto costituii un comitato di critici letterari, cinematografici e d' arte
tra cui Cesare Brandi, Giulio Carlo Argan, Luigi e Paolo Chiarini. Il
coreografo Aurelio Milloss mi accompagnò nei miei viaggi in Europa, durante i
quali presi contatto con la figlia del drammaturgo Wedekind; con la vedova di
Schoenberg, grazie a cui fu possibile realizzare una mostra di quadri del
compositore; con Kurt Jooss, che convincemmo a ricostruire il suo storico
balletto "Il tavolo verde"». In un' Italia ancora permeata dall'
estetica neoclassica del Regime, un festival del genere pareva blasfemo. Vlad
rammenta come, dalle pagine del «Messaggero», Renzo Rossellini (fratello del
regista) incitasse il «popolo di Firenze» a sollevarsi contro tale «barbarie».
Il sovrintendente del teatro, Pariso Votto, cercò fino all' ultimo di
contrastarne l' avvio, mentre assoluto sostegno all' iniziativa veniva da La
Pira e dal critico Leonardo Pinzauti. «Eppure quel Maggio è diventato un mito.
Innegabile che ci furono spettacoli semivuoti. Altrettanto vero, però, che alle
volte il teatro non bastava: il "Naso" di Sciostakovich con la regia
di Eduardo avremmo potuto continuare a darlo a ripetizione». Vlad ritorna alla
direzione artistica tra il 1968 e il '72. «Mi proponevo di completare il
percorso cominciato con l' espressionismo integrando il quadro storico della
prima metà del Novecento. Quindi ho sviluppato il tema del neoclassicismo tra
le due guerre, dell' impegno civile, del rapporto con le civiltà extraeuropee.
Un mio vanto sta nell' aver convinto René Clair (per cui avevo scritto le
musiche di un film) a fare la sua unica regia teatrale: per il balletto
"Relache" di Picabia e Satie. Inoltre ho dato fiducia a un giovanotto
di nome Riccardo Muti diventato direttore stabile dell' orchestra». Fin da
subito il Maestro, idolatrato dal pubblico, si dimostra esigentissimo con i
collaboratori. Ricorda Veriano Luchetti, tenore di riferimento del Muti
fiorentino: «Benché generoso con tutti e traboccante di musica, non aveva
tuttavia un carattere dolce. Verso la fine di una prova del Requiem di Verdi al
Comunale, un corista guarda l' orologio. Riccardo si ferma, risentito:
"Sta controllando quanto dura? Ma si vergogni!". Ricordo lo stesso
pezzo eseguito in San Lorenzo. Con teli stesi lungo la navata per attutire il
riverbero; e fuori, una piazza zeppa di gente ad ascoltarci dagli
altoparlanti». Luchetti incontra Muti nel 1971 per l' "Africana" di
Meyerbeer: «Il tenore previsto era un omone finlandese che però, a cantarla,
non ce la faceva proprio. Nel cast c' era mia moglie, Mietta Sighele, cui
Riccardo un giorno dice: "So che tuo marito ha una bella voce".
"A me piace", risponde lei. "Conosce quest' opera?".
"L' aria 'O paradiso' l' ha imparata per un concorso". "Allora
fallo venire", decreta Riccardo. Così ho dovuto preparare il mio esordio
al Maggio in una settimana». Negli anni successivi Muti spreme al massimo l'
ugola di Luchetti. «Riccardo volle dare integralmente la "Forza del
destino", riaprendo dunque anche il duettone fra baritono e tenore,
temibile e faticoso, che invece al Maggio del '53 Del Monaco aveva astutamente
scansato. In seguito ho partecipato pure ai "Vespri siciliani" (che
il medico mi consigliò di non fare più), provati in un caldo asfissiante per
ore, mattina e pomeriggio, perché, ci confidava il sovrintendente Massimo
Bogianckino, l' orchestra, di sera, voleva stare a casa». Partner di Muti è
stata anche la leggendaria Leyla Gencer: con lui tuttora spartisce l' affetto
dei loggionisti fiorentini. Al Maggio il soprano di origine turca aveva
debuttato nel 1959 chiamata da Gui per la «Battaglia di Legnano». Trionfale la
sua «Maria Stuarda» del '67 accanto a Shirley Verrett. «Allestimento all'
avanguardia firmato De Lullo, dove già c' era tutto quanto oggi si suole
chiamare moderno. Del resto a me piaceva buttarmi in cose nuove. E i risultati
mi davano ragione». Sul fatto che Muti non lasci troppa libertà ai cantanti,
sostiene: «E' falso, a patto che gli piacciano. Nel secondo atto di
"Attila", per esempio, mi concedeva tutto lo spazio necessario,
affascinato dai pianissimi di cui venivo considerata regina». Non solo
spettacoli, nell' era Muti. Anche dibattiti, dentro e fuori il Comunale. Poca
musica contemporanea, lamenta un manipolo di musicisti, Dallapiccola per primo.
I giornali di sinistra definiscono il Maestro «artista del potere»; Luciano
Pavarotti lo chiama addirittura «ducetto del podio». Pci e Psi, forze di
minoranza nel cda del teatro, chiedono concerti in regione e un abbassamento
del prezzo dei biglietti. Fra quei consiglieri vi è Mario Sperenzi, critico
dell' "Avanti!": «Puntavamo a creare enti lirici più agili,
produttivi, moderni; a una presenza organica del Novecento nei cartelloni; a un
teatro accessibile a fasce sociali più ampie». L' attività regionale naufraga
dato che la gran parte degli orchestrali non ha voglia di farla. «Tuttavia quella
fu l' occasione perché fossero ripristinati spazi dismessi a Pisa, Siena,
Arezzo, Grosseto, Carrara, Colle: ne avrebbero beneficiato in seguito il Teatro
regionale toscano e l' Ort». Anni di contraddizioni. «Fu utile comunque, nel
1974, l' arrivo di Bogianckino, uomo di prestigio e grande levatura culturale
che riportò a Firenze le orchestre e le compagnie di danza internazionali».
Perciò, quando nell' 81 lui e Muti danno l' addio alla città, il Comunale
piomba in una profonda crisi d' identità.
LA REPUBBLICA
2007.04.23
LEONETTA BENTIVOGLIO
Il teatro dei grandi maestri
Firenze Vitalità del Maggio Musicale Fiorentino: cade
quest' anno la sua settantesima edizione, ma è sempre fresca, interessante e
solida la fisionomia del festival, pronto ad aprirsi domani sera con una prima
assoluta, l' Antigone di Ivan Fedele, direttore Michel Tabachnik, regia di
Mario Martone. Aristocratico e popolare, sempre sospinto da istanze nuove, è
anche un festival fiero della propria storia, costellata da direttori
leggendari: Gui, De Sabata, Marinuzzi, Karajan, Mitropoulos, Klemperer... Nella
sua lunga vita il Maggio ha riscoperto molto melodramma ottocentesco, ha
accolto le avventure del contemporaneo, ha dato impulso a stagioni innovative
per la regia operistica. È quanto ci dimostrano anche i percorsi fiorentini di
Riccardo Muti e Zubin Mehta, inclusi entrambi nel cartellone di quest' anno
accanto ad altri grandi nomi come Mariss Jansons, atteso con l' Orchestra
Sinfonica della Radio Bavarese, e Daniel Barenboim, protagonista di una
rassegna dove figurerà sia in veste di pianista sia come direttore della
Staatskapelle di Berlino (Quinta e Settima Sinfonia di Mahler). Firenze, per
Muti, è una delle città del cuore: «Le devo tanto», dice. «Tra l' altro proprio
qui nacquero i miei tre figli». Evoca il tempo della sua bella amicizia con
Vittorio Gui, «musicista di esperienza straordinaria, col quale ebbe incontri
molto formativi a Firenze». Al Maggio di quest' anno Muti dirigerà in forma di
concerto Orfeo ed Euridice di Gluck, che già affrontò a Firenze nel '76,
inaugurando un sodalizio fertilissimo con il regista Ronconi e lo scenografo
Pizzi, «autori di uno spettacolo affascinante», riferisce, «dove le scene
essenziali, scandite da giochi di specchi, determinavano una concezione
originale dello spazio». Il risultato fu un trionfo: uno dei tanti conquistati
dal maestro napoletano, che guidò stabilmente l' orchestra fiorentina dal 1968
al 1980. Muti approda a Firenze giovanissimo, dopo aver vinto il Concorso
Cantelli. Il primo concerto risale al '68, e vi partecipa un pianista mitico:
Sviatoslav Richter. Nel '69 affronta I Masnadieri di Verdi: è la prima volta
che guida un' opera in un grande teatro e Andrew Porter, sul Financial Times,
sottolinea il valore di una concertazione «with fire, with verve». Le ovazioni
del pubblico annunciano un' ammirazione che toccherà vertici di tifoseria da
stadio: solo la Callas, negli anni Cinquanta, aveva scosso tanto gli animi dei
fiorentini. Sfilano per Muti i traguardi, uno via l' altro: il rossiniano
Guglielmo Tell, l' Agnese di Hohenstaufen di Spontini con lo spettacolo di
Franco Enriquez, Macbeth con la possente Leyla Gencer nel ruolo della Lady, il
Nabucco ronconiano «contestato da alcuni», racconta il maestro, «per la sua
idea di sovrapporre all' epoca antica il Risorgimento», Il Trovatore, in cui
toglie il do finale della "Pira" (provocando le proteste dei fanatici
delle acrobazie vocali), Norma con un soprano (e non un mezzosoprano) nella
parte di Adalgisa (nel rispetto della distribuzione dei ruoli pensata da
Bellini), Le Nozze di Figaro con la regia di Vitez e molto altro. Quanto all'
epoca più recente, l' artefice dei massimi successi è Zubin Mehta, direttore
principale dell' orchestra fiorentina dall' 85, e pronto a definire «magico» il
suo rapporto con Firenze, dove ha voluto mettere radici prendendo casa (una
delle sue due abitazioni con quella di Los Angeles) e a cui si sente legato da
un nodo di affettività «speciale». Nel giugno di quest' anno Mehta sarà sul
podio dell' Oro del Reno e della Valchiria, primi due tasselli di un nuovo
allestimento del Ring wagneriano curato dal trasgressivo gruppo catalano La
Fura dels Baus. Le imprese fiorentine del maestro indiano (elencate anche nella
sua autobiografia: La partitura della mia vita, che esce in Italia il 10
maggio) prendono il via nel '62, quando Mehta dirige il Concerto per pianoforte
e orchestra di Schumann, solista Friedrich Gulda, e la Prima Sinfonia di
Mahler, autore all' epoca poco frequentato in Italia. Tra il '62 e il '64
propone a Firenze composizioni classiche e romantiche austro-tedesche e brani
del Novecento («nei miei programmi», dice, «punto sempre a quest' equilibrio»),
e nel '64 approda alla Traviata, «la mia prima opera lirica
"europea"». Il festival fiorentino del '69 passerà alla storia come
il "MehtaMaggio": Zubin vi dirige, oltre ad Aida, Il Ratto del
Serraglio e Fidelio, titoli che segnano il suo incontro con Strehler («regista
di profonda sensibilità musicale»), e ancora il Requiem di Verdi e un concerto
con la Israel Philharmonic e Arthur Rubinstein nel Terzo di Beethoven. Memorabile
è la Tetralogia di Wagner realizzata tra il '79 e l' 81 col binomio
Ronconi-Pizzi («fu il mio primo approccio all' intero Ring», ricorda Mehta, «e
un' opportunità intensissima per studiare l' universo wagneriano»), e nell' 86
cura come responsabile artistico il 49esimo Maggio, «una vera e propria
maratona, con I Maestri Cantori, Tosca ambientata in epoca fascista da Jonathan
Miller e i Gurrelieder di Schonberg con Klaus Maria Brandauer voce recitante».
Tra le tappe del suo prezioso viaggio fiorentino segnala pure «la trilogia
Mozart-Da Ponte con regia di Miller, Il Flauto Magico allestito da Julie Taymor
(celebre per il musical Il Re Leone) e la Turandot che fece debuttare nella
lirica il regista cinematografico cinese Zhang Yimou, rappresentata anche nella
Città Proibita di Pechino». Seguiranno Wozzeck, prima regia operistica del
cineasta William Fredkin, Tristano e Isotta con regia di Gruber, La Traviata
messa in scena da Cristina Comencini, Les Troyens con lo spettacolo di Graham
Vick, Otello realizzato con Lev Dodin e Falstaff con Ronconi. Naturalmente c' è
dell' altro, tra capolavori e sperimentazioni: con i suoi amati complessi
fiorentini, Zubin non ha mai smesso di esplorare strade nuove, e anche di
questa sua curiosità e passione vive l' odierno volto culturale di un evento
come il Maggio. Tanto fiorentino, tanto internazionale.
THE BALTIMORE-SUN
2007.09.30
2 0 0 8
LA REPUBBLICA
2008.01.19
ANGELO FOLETTO
Dalla prigione si salvano solo le due Regine
In prigione, confuse tra i suggestivi ma poco agìti, camminamenti e scivoli carcerari di Pier Luigi Pizzi, non vivificate dalla smunta esecuzione di Antonino Fogliani, nella Maria Stuarda della Scala, c' erano anche le idee visive e musicali. Così il ritorno di un caposaldo del repertorio belcantistico, s' è ridotto a una passerella di vocalismi declinati al femminile, alla volonterosa prestazione del tenore Francesco Meli e all' intensa presenza del coro di Bruno Casoni, che ha sfruttato al meglio la splendida occasione offerta dalla partitura. In questo modo s' è dato ragione a chi da sempre lamenta la freddezza per il mondo di donizettiano della Scala, che pure ha avuto tra i musicisti di riferimento Gianandrea Gavazzeni e Leyla Gencer (indimenticabile Maria Stuarda, non a Milano). Offrendo però agli appassionati l' opportunità di ammirare canto duttile e scaltro, proprietà stilistica, temperamento e bellezza di Anna Caterina Antonacci. E di celebrare per l' ennesima volta la meravigliosa dottrina belcantistica e l' adamantina longevità di Mariella Devia, autentico fenomeno vocale e regina di questo repertorio: restituito con tecnica, sicurezza e gusto musicale perfetti, seppure un po' a scapito della commozione e del mordente espressivo. Teatro alla Scala, ore 20, info: 02/72223744, repliche domani, il 22, 26, 30, gennaio e 3 e 7 febbraio.
LA REPUBBLICA
2008.02.06
ROBERTO IOVINO
Il ritorno di Luisi L' Opera ritrova una gloria perduta
Torna al Carlo Felice "Der Rosenkavalier" il
capolavoro neoclassico di Richard Strauss. L' appuntamento è per sabato
prossimo. Nel cast figurano Solveig Kringelborn, Gunter Missenhardt, Kristine
Jepson, Patrizia Ciofi, Enrico Marrucci, Ornella Vecchiarelli. Se regia e
scene, di Pierluigi Pizzi, sono presumibilmente le stesse dell' ultima edizione
genovese risalente al 1996, nuova e particolarmente attesa risulta la direzione
orchestrale affidata a Fabio Luisi, 49 anni, che appartiene ad un' interessante
schiera di giovani bacchette partite da Genova e affermatesi soprattutto all'
estero (ricordiamo anche Guidarini e Armiliato). Luisi, lei è attualmente
direttore principale della Staatskapelle di Dresda e direttore principale della
Sinfonica di Vienna, ed è fra i nomi più autorevoli a livello internazionale.
Dal Carlo Felice manca da un po' di anni... «Venni nel 1992 nella stagione
inaugurale a dirigere la seconda opera in cartellone "Un ballo in
maschera". E l' anno dopo tornai per "Rigoletto". Poi nulla più fino
al 2000 o 2001, non ricordo, quando ho diretto un concerto sinfonico con pagine
di Brahms e Wagner. Ma se non ho più frequentato il teatro, non ho certo
dimenticato Genova. Ho casa a Santa Margherita, qui vivono i miei genitori e
altri parenti, e qui trascorro regolarmente le mie vacanze. Insomma il legame
non si è mai interrotto e ora essere al Carlo Felice mi fa particolarmente
piacere perché sto provando in maniera assai soddisfacente». Lei lavora
soprattutto in Germania. Come è l' ambiente musicale tedesco? «C' è una grande
tradizione e un' estrema serietà. Autori che in Italia sono episodici, lì sono
la regola. A Dresda si contano circa 280 recite l' anno fra opere e balletti.
Al momento sono in repertorio 45 opere delle quali si propongono almeno un paio
di recite l' anno. Per quanto riguarda i Sinfonici di Vienna non esiste penso
composizione che loro non abbiano eseguito. Una situazione ben diversa dall'
Italia. Qui si fanno dieci, dodici opere l' anno e poi si dimenticano. Lì ciò
che viene allestito ritorna periodicamente, entra a far parte della vita del
teatro. Sono due sistemi diversi di intendere la vita musicale, non
paragonabili e non giudicabili». Torna a Genova con un autore da lei
particolarmente frequentato in questi anni~ «Il mio amore per Strauss si è
rafforzato dal 2000 quando diressi sue partiture a Monaco. Nel 2002, alla morte
di Sinopoli, ho diretto al suo posto al Festival di Salisburgo "Die Lieber
der Danae" e sono poi ritornato l' anno successivo per "Die Aegyptische
Helena". A Dresda stiamo lavorando sull' integrale dei suoi poemi
sinfonici. Insomma è un autore ormai molto caro». E gli operisti italiani? «Un
giovane direttore italiano non può naturalmente sfuggire al nostro teatro di
tradizione. Per fortuna lo amo, per cui lo dirigo volentieri. Però oggi i due
terzi del mio lavoro sono rivolti al settore sinfonico, per cui lo spazio è più
limitato». Dove ha studiato e come ha iniziato a dirigere? «Ho studiato qui a
Genova pianoforte privatamente perché frequentavo il liceo Colombo e all' epoca
era più difficile far combinare lo studio in Conservatorio con quello di una
scuola media superiore. Ho dato regolarmente gli esami al Conservatorio
Paganini da esterno e lì mi sono diplomato nel 1978. Poi per qualche anno ho
insegnato teoria e solfeggio al Conservatorio di Spezia. Alla direzione sono
arrivato dopo essermi appassionato al canto. Conobbi Leyla Gencer che veniva in
estate in Liguria. Aveva bisogno di un pianista con cui studiare lieder e mi
misi a seguirla. Poi incontrai anche Luciana Serra che stava iniziando una
straordinaria carriera. La loro conoscenza mi aprì gli occhi su quelli che
erano i miei interessi musicali. Mi trasferii a Graz a studiare direzione e da
lì è iniziato tutto». "Der Rosenkavalier", dopo il debutto di sabato,
verrà replicato martedì 12, venerdì 15, domenica 17 e martedì 19 febbraio.
IL PICCOLO
2008.05.08
«Devereux» torna a Trieste dopo oltre 40 anni
TRIESTE Debutta oggi, alle 20.30, al Teatro Verdi nella
celebre e storica messa in scena del Teatro dell'Opera di Roma, così come fu
ideata dallo scomparso Alberto Fassini negli anni Ottanta e disegnata dallo
scenografo David Walker, l'opera «Roberto Devereux» di Gaetano Donizetti,
penultima opera della stagione lirica, che sarà replicata a Trieste fino al 20
maggio con la regia di Francesco Bellotto e la direzione musicale del maestro
Bruno Campanella.
Al «Verdi» questo capolavoro donizettiano ritorna per la prima volta dopo le
rappresentazioni ottocentesche nell'allora Teatro "Grande" del 1838 e
1841; mentre la ripresa dell'opera in tempi recenti data 1964 con
l'interpretazione nel ruolo di Elisabetta di Leyla Gencer e in seguito di
Montserrat Caballé nei più grandi teatri europei.
«Roberto Devereux» fa parte del trittico donizettiano dedicato alle regine
assieme a «Anna Bolena» ed a «Maria Stuarda» ma, pur riproponendo gli intrighi
e le oscure suggestioni delle altre due opere della trilogia, rappresenta
un'evoluzione di queste in senso drammatico, per l'approfondimento del
personaggio di Elisabetta la cui gelosia e smania di vendetta sono presentate
in chiave più intimistica e disperata, rispetto agli altri due personaggi
femminili.
Strettamente legata alle tragiche vicende umane del compositore, l'opera ruota
intorno a tre oggetti, i tre nodi proposti dagli autori: un anello, segno del
legame tra Elisabetta e Roberto; una sciarpa, segno del legame coniugale tra
Sara e Nottingham, e una corona, simbolo del legame tra una Regina e il suo
Stato. I quattro i protagonisti dell'opera sono dotati di pari dignità
teatrale: Elisabetta, Sara, Nottingham e Roberto Devereux sono nobili d'animo e
di sentimenti; tutti e quattro però, in maniera tragicamente umana, tradiscono
ignobilmente i loro doveri. E tutto l'intreccio del dramma procede verso un
finale tragico.
Nel ruolo di Elisabetta si alterneranno i soprani Nelly Miricioiu e Darina Takova,
mentre interpreti del ruolo protagonista di Roberto Devereux, saranno in
alternanza i tenori Roberto Aronica e Roberto De Biasio. Laura Polverelli e
Francesca Provvisionato si alterneranno nel ruolo mezzosopranile di Sara e i
baritoni Roberto Servile e Paolo Rumetz in quello del Conte di Nottingham. Nel
cast anche Saverio Bambi (Lord Cecil), Slavko Sekulic (Sir Gualtiero Raleigh/
un famigliare di Nottingham) e Seon Young Pak ( un paggio).
Completano la compagnia artistica l'Orchestra e il Coro del Teatro Verdi
preparato dal M° Lorenzo Fratini.
MUSICA MAGAZINE
2008 June
LA REPUBBLICA
2008.12.11
LUIGI DI FRONZO
L' uomo che canta da soprano 'Ma è solo questione di tecnica'
Al timbro dei castrati, che con le loro voci ipnotiche,
celestiali e sessualmente ambigue mandavano in visibilio dame e cicisbei di
tutta Europa, si ispira un sopranista raffinato come Angelo Manzotti. Nato
nelle campagne di Marmirolo (vicino a Mantova) e giunto al successo nel '92 con
la vittoria al concorso Pavarotti di Philadelphia, Manzotti perlustra da tempo
sulle orme di Farinelli il sontuoso repertorio tardo barocco degli evirati
cantori, interpretando ruoli operistici "en travesti", tenendo
masterclass e prestandosi al cinema come nel cortometraggio su Giovan Battista
Velluti, uno degli ultimi castrati che cantò per Rossini. Stasera sarà lui la
star del concerto di Natale di orchestra e coro della Ueco diretti da Massimo
Palumbo, ripescando a sorpresa con il collega Angelo Bonazzoli arie piroteniche
dalla Merope di Geminiano Giacomelli oltre a "Lascia ch' io pianga" e
ai cori dal Messiah di Haendel, di cui nel 2009 scatteranno i 250 anni dalla
morte. Carriera lunga la sua, che a 12 anni aveva iniziato imitando i gesti e i
monologhi buffi di Moira Orfei ai Festival dell' Unità di paese, perfezionando
via via una tecnica di canto che (invece del falsetto) usa solo la vibrazione
anteriore delle corde vocali, riducendo la lunghezza al timbro femminile. Manzotti,
quando ha scoperto il talento per il canto? «Da ragazzino, ascoltando la divina
Callas nella scena della pazzìa dalla Lucia di Lammermoor di Donizetti.
Imparavo tutto a memoria, non appena avevo in tasca due lire mi fiondavo all'
Arena di Verona e sognavo la polvere di palcoscenico. Ma prima del successo ho
dovuto faticare. Sono passato dalla danza classica al canto e anche dopo la
vittoria del "Pavarotti" ho mantenuto fino al '96 il posto di
infermiere all' ospedale di Suzzara» Come definirebbe la sua voce? «è un timbro
diverso da quello 'imbiancato' degli evirati cantori, anche perché io non sono
castrato per nulla e non ho mai avuto problemi ormonali. Ho anzi due belle
corde da baritono, ma con una tecnica particolare supero i limiti del falsetto
maschile e arrivo in zona sovracuta. Posso fare i "filati" come un
soprano lirico, ma soprattutto la mia voce è un' onda circolare che esce dal
corpo, arriva al pubblico e torna dentro di me». Che idea si è fatto del mondo
dei castrati riportato in auge da film, libri e documentari? «Si dicono sempre
molte falsità. Erano esseri dal corpo voluminoso, non certo i figurini snelli
che vediamo sullo schermo: Parini ce li descrive come elefanti dalla voce esile
e il caricaturista veneziano Antonio Zanetti li ritrae impietosamente. In scena
erano acclamati come star, ma senza avere nulla di volgare e di incolto, anche
perché spesso vivevano tra infelicità e solitudine. Ma soprattutto la loro vita
sessuale non era sfrenata, anche se ce ne fu uno (Giovanni Francesco Grossi,
detto Siface) assassinato dai parenti di una dama bolognese con la quale era
fuggito per amore». C' è stato qualche idolo del pop-rock che cantava come
loro? «Freddy Mercury: semplicemente un mito per l' estensione straordinaria e
una carica sensuale unica. Anche Demetrio Stratos aveva una voce incredibile,
sapeva emettere un fischio invece del canto, ma io non l' ho mai ascoltato dal
vivo. Fra i miei idoli metterei Mina, Mia Martini e il meraviglioso De André,
anche se non mancano certo i bluff come Madonna~~». E nella lirica? «Una
decisamente "montata" dal marketing è la Gheorghiu. Bella sulla
scena, ma non altrettanto brava, almeno rispetto ai miei prediletti: la Gencer,
la Olivero, la Scotto, la Horne, la Valentini Terrani, ovviamente la Callas, e
fra gli uomini sublimi Kraus, Bergonzi e poi Domingo: unico per l'
interpretazione, anche se discutibile per la tecnica»-Santa Maria del Carmine
Piazza del Carmine, ore 21.15, 10/20 euro. Tel.02365572990.
2 0 0 9
BRITANNICA
2009
LA REPUBBLICA
2009.01.20
ALBERTO ARBASINO
Se otello fosse un western «Tutti giù per terra!» (o peggio ancora: «Tanaaa!») pare
oggi la principale chiave interpretativa di tantissimi registi d' opera, con
risultati visivi e cognitivi scadenti. Già nel Settecento, a Milano, l' abate
Parini era stato chiaro, circa l' ermeneutica musicale: «Aborro in su la scena
- un canoro elefante - che si strascina a pena - su le adipose piante - e manda
per gran foce - di bocca un fil di voce». Attualmente, malgrado le corpulenze e
l' età, i cantanti d' opera devono continuamente accucciarsi come vecchi cani
su pavimenti deserti e spogli, magari cantando come cagnolini con una zampa
sotto il culone o il culetto. E poi, rialzarsi a fatica. E quindi, far sforzi
di su e giù per decine di volte. Come se l' interpretazione espressiva di
angosce e tormenti si risolvesse nel poggiare spessissimo le chiappe sul suolo.
E mai un sedile, nemmeno quando le situazioni lo esigono. Soprattutto per i
grandi drammi verdiani così precisamente ambientati (anche nei colori musicali)
in circostanze storiche documentatissime dalla grande pittura più frequentata
al Prado e a Venezia nelle gite proprio basiche. Giovani e vecchi spettatori
del Don Carlo alla Scala e dell' Otello a Roma, evidentemente non ignari di
Tiziano o Velàzquez, chissà come sopporterebbero in una multisala o in tv,
senza eventi o contenitori di gala, un poliziesco di mafia o un western
ambientati fra questi rettangoli o quadrati in tinte così uggiose da edilizia
scolastica. E se le coppie e le casalinghe e gli intellettuali in crisi
continuassero a sedersi per terra negli uffici, commissariati, ascensori,
tavole calde? Naturalmente può far ridere l' idea o l' immagine di qualunque
serata ove un pubblico griffatissimo e carico di gemme applaude beato alcuni
poligoni o triangoli bianchi e neri o grigi ove "divine" e
"balene" d' ogni epoca storica o mitica si presentano smandrappate
come appena giunte in motorino. O magari, ci si può indignare - civilmente? -
quando un monumento storico "notificato" come Verdi viene ristrutturato
come un condominio o dormitorio in crisi sponsor-creditizia. Così, per l'
Otello romano, alla magnifica esecuzione musicale di Riccardo Muti
corrispondeva un generico scenario tuttofare o usa-e-getta che potrebbe
ugualmente andar bene o male, indifferentemente, per qualunque Fidelio o
Gioconda o Nabucco. Ma se manca un utensile indispensabile come il letto di
Desdemona, l' assopimento e lo strangolamento della poveretta non si
distinguono più dall' analoga fine di Maria Goretti, sul suolo di una capanna.
Qui la protagonista, Marina Poplavskaya è chiaramente la migliore di tutto il
cast. Ma l' interpretazione eccessivamente verginale depista il carattere del
personaggio, che è una birbona. Non già una santarellina; e neanche un'
anziana, come parrebbe dal duetto verdiano col consorte, laddove - fra senilità
e wagnerismi - trascorrono patetiche rimembranze di «pietà» e di «sventure».
Mentre nel primo atto "veneziano" di Shakespeare si spiega
addirittura davanti al Doge che il padre di Desdemona invitava spesso Otello in
casa per farsi spiegare (evidentemente con fini commerciali) le sue «avventure»
in terre lontane da sfruttare per la Serenissima. Così là nacque una passione
carnale violenta fra la ragazza patrizia e il Moro condottiero. Analogamente,
nel primo atto (di Fontainebleau) del Don Carlo, non eseguito alla Scala,
avviene il primo incontro del sentimentale giovane con la tenera Elisabetta di
Valois. In questo spettacolo, duplicati o sostituiti da mimi ragazzini: che
doppiano anche il Marchese di Posa, coi loro girotondini, ma non anche la
Principessa d' Eboli. «Don Carlo si è fermato a Eboli», si dicevano gli
spiritosi d' una volta. Il pubblico meno preparato d' oggidì si chiedeva
piuttosto, alla Scala, se i tre e non quattro o più "doppi" infantili
fossero una trovata di Verdi, o di Pirandello, o di Antonin Artaud (Il teatro e
il suo doppio), o un intervento dell' artista Cattelan, quando un piccino viene
tirato per aria con una corda, come i manichini impiccati con fama istantanea
in un giardino pubblico milanese. In scena, per il rogo cattolico, figuravano i
pali già famigliari nelle vignette sui selvaggi cannibali, che danzano al suono
dei bonghi (come nelle notti milanesi attuali del quartiere Ticinese), mentre
l' esploratore o missionario di turno cuoce nel proprio brodo. Alla ormai
rinomata «anteprima giovanile» - con la nostra terza età giustamente sistemata
in palchi per antichi, senza causar macchie di vecchiaia in una platea
adolescente - la prima sensazione fu che non un solo teenager portasse i jeans.
Solo alcuni vecchietti. I «meno di 26 anni» venivano certificati dal documento
d' identità corrispondente al basso prezzo. Con inevitabili reminiscenze dei
primi anni Cinquanta, quando normalmente si acquistavano i biglietti
loggionistici alla biglietteria come al cinema, poco prima dello spettacolo,
nelle "solite serate medie" con la Callas, la Tebaldi, la Simionato,
la Schwarzkopf, De Sabata, Karajan, Votto, Furtwangler, Strehler, Visconti, e i
massimi tenori. Come del resto al Nuovo si compravano lì per lì gli ingressi o
le poltroncine per Gieseking e Backhaus, Totò o Wanda Osiris. «A loro agio
nelle scarpe da tennis», come si ripete nelle agiografie giovanilistiche. Ma
tutti molto curati nel cosiddetto look, con gran disinvoltura e allegria. E un
notevole buon senso: neanche una ciccia debordante verso gli ombelichi o le
chiappe. Fra i "maschietti", né pizzetti né peluzzi, sulle guance
glabre e soft. Ma allora: sono loro che ispirano l' attuale pubblicità per ogni
«new fragrance for men» così ridicola per sbarbati imberbi? All' opposto dei
lanci grotteschi di profumi per "barbudos" ispidi e villosi in
"mimetica" fra Vietnam e Chiapas e Campo dei Fiori, fino all' estate
scorsa? O trattasi di un viceversa reciproco? Eccezionale resistenza giovanile
a più di quattro ore di monotonia: soprattutto apprezzabile da chi visse ben
altre esecuzioni scaligere dello stesso Don Carlo, mitiche e documentabili con
interpreti e artefici sommi: Abbado, Ghiaurov, Cappuccilli, Talvela,
Kabaivanska, Cossotto, Domingo, Verrett, Gencer, Ponnelle, Raimondi, Ronconi,
Freni, Nucci, Carreras, Bruson, Obraztsova, Nesterenko, Salminen... E le care
memorie di un indimenticabile Don Carlo romano di Luchino Visconti (1965) che
nelle riprese ultime apparve assai meno stupendo: un macchinoso baraccone. Così
alcuni "antichi" fuggirono dalla Scala, dopo l' eccellente e
"classico" Filippo II di Ferruccio Furlanetto, il solo che
interpretasse anche vocalmente quel personaggio verdiano lì, per niente
generico. Dunque si passò, lì davanti, al celebrato «Caravaggio Odescalchi»:
perplessi giacché appeso così in basso, nella Sala dell' Alessi. In qualunque
chiesa o cappella, infatti, ogni dipinto è concepito per venire appeso e
guardato sopra un altare col suo tabernacolo, e comunque sopra la testa dei
fedeli. (Solo una volta, in un' infelice esposizione a Palazzo Venezia, venne
posato per terra, in un angolo, con un faretto davanti). E del resto, nella
dimora romana di Guido e Nicoletta Odescalchi (pervenuto dall' eredità Balbi di
Genova), si ritrova sopra i divani e i mobili, e non a mezzo metro dai
pavimenti e dalle scarpe. Forse quel tramonto corrusco e giallo tanto
eccezionale in Caravaggio, sistemato come per un «Appartamento dei Nani», si
può apprezzare meglio a quattro zampe o in carrozzella? Come i "cartigli"
appesi anche in eccellenti mostre a un livello di mezzo metro, in caratteri
tipografici piccoli, su un ton-sur-ton delicato, possono funzionare come
espediente fisioterapico: centocinquanta piegamenti. Ma forse si adattano
meglio ai cantanti d' opera, più abituati a sedersi decine di volte per terra.
AVANT SCENE OPERA
2009 March
OPERA MAGAZINE
2009 March
PROGRAMME BOOKLET TEATRO ALLA FENICE DI VENEZIA
2009.04.24
EMANUELE BONOMI
Maria Stuarda Teatro alla Fenice
La reputazione di Donizetti ha subito nel corso dei due secoli passati alterni rovesci di fortuna. Negli ultimi anni della sua attività le opere del musicista bergamasco, complice anche la prematura scomparsa del rivale Belliniche in più di un’occasione aveva mostrato di detestare la musica del collega, avevano conquistato i teatri di tutta Europa, rimpiazzando poco alla volta i titoli rossiniani. Accompagnata dall’invidia e dalla malcelata ostilità di numerose personalità artistiche del tempo (oltre al già menzionato Bellini citiamo almeno Berlioz e Schumann), la fama del compositore raggiunse presto anche i principali centri di potere, chegli tributarono riconoscimenti e incarichi di raro prestigio: nel luglio del 1842 Donizetti ricevette l’ambita nomina a Kapellmeister presso la corteasburgica di Vienna – «come un tempo Mozart», amava ripetere –, mentre nel dicembre dello stesso annofu nominato corrispondente straniero dell’Académie des beaux-artesparigina. Eppure, a dispetto della notorietà e del successo che questi eventi avevano certificato e che sembravano promettergli un tranquillo e agiato futuro, le tristi vicende che circondarono le ultime fasi della vita del compositore – in modo particolare la natura ‘scandalosa’della sifilide che lo colpì e la conseguente demenza – compromisero in modo definitivo il suo buon nome di fronte al pubblico, influendo negativamente anche sulla sua fortuna critica.
Con lo sviluppo di un sistema di repertorio lirico nell’Italia post-risorgimentale dominato dalle nuove opere di Verdi e caratterizzato, a partire dagli anni Sessanta e Settanta,dalla moda per il teatro francese e dall’introduzione dei drammi wagneriani, le opere di Donizetti trovarono sempre minor spazio, ad eccezione dei pochi titoli collaudati: seri(Lucia di Lammermoor, La favorita) e buffi(L’elisir d’amore eDon Pasquale). Nel frattempo anche all’estero la considerazione nei confronti del musicista si era appannata. Dalla posizione di predominio che aveva condiviso con Rossini e Bellini,la figura di Donizetti fu ben presto ridimensionata e giudicata da più parti come l’anello debole della triade. Al compositore veniva generalmente riconosciuta un’inesauribile inventiva melodica, incapace però di sorreggere un intero lavoro e che troppo spesso scadeva in formule convenzionali. La facilità e la rapidità di scrittura, esemplificate da un catalogo teatrale che conta una settantina di titoli – un numero impressionante se paragonato all’esiguità della produzione del rivale Bellini, ma in linea con quella di alcuni dei principali compositori italiani coevi (Mercadante e Pacini)–,venivano spiegate in primo luogo alla luce di una presunta superficialità e di una incapacità nello sviluppare e nel rifinire il proprio lessico musicale.
Simili preconcetti e giudizi negativi furono alimentati (anche in sede musicologica) almeno fino al periodo del secondo dopoguerra, quando con le celebrazioni nel 1948 del centenario della morte, seguite da una serie di allestimenti di opere donizettiane allora sconosciute – celebre è rimasta la ripresa scaligera nel 1957 di AnnaBolena con Maria Callas nel ruolo della protagonista – iniziò una seria rivalutazione del lascito del musicista bergamasco. A quella che viene generalmente definita come Donizetti-Renaissance concorsero sia il favore accordato alla sua musica da parte di famosi soprani di tradizione belcantistica, come Maria Callas, Leyla Gencer, Joan Sutherland e Beverly Sills, sia la nascita negli stessi anni di una specifica storiografia donizettiana e di studi incentrati specificamente sulle problematiche dell’opus del musicista. L’ampliamento del repertorio grazie alla ripresa di lavori del passato – una tendenza che va sempre più affermandosi data la scarsità di titoli contemporanei da immettere nel circuito teatrale – ha particolarmente giovato all’opera di Donizetti che, oramai largamente esplorata, si pone come anello di congiunzione imprescindibile tra i primi decenni dell’Ottocento e lo sviluppo del teatro lirico italiano a partire dagli anni Cinquanta.
Fino alla metà del Novecento, come detto, la messe di volumi dedicati al musicista fu alquanto esigua e di scarsa qualità. I primi contributi furono pubblicati nei decenni successivi alla sua morte einquadrarono il fenomeno Donizetti all’interno della tradizione belcantistica italiana, operando,attraverso l’analisi delle opere del compositore, un raffronto con la produzione dei suoi due grandi contemporanei, Rossini e Bellini. Il giudizio complessivo era in genere il medesimo: nell’autore bergamasco si individuavano una inusuale facilità e rapidità nel comporre, così come la capacità di affrontare sia il genere tragico che quello buffo, fondendoli insieme. Le celebrazioni del centenario della nascita (1897) diedero nuovo impulso agli studi donizettiani. Un comitato congiunto tra Bergamo, Napoli, Parigi e Vienna organizzò una mostra che rivelò per la prima volta, attraverso la pubblicazione dei diversi cataloghi suddivisi secondo la provenienza, l’ampiezza e l’importanza della produzione del musicista;parallelamente in quei mesi videro la luce numerosi repertori e contributi sulla ricezione in Italia e in Europa delle opere di Donizetti.
Al grande successo tributato dalla cittadinanza alla mostra celebrativa nel centenario della nascita del compositore seguì nel 1906 l’apertura del Museo donizettiano, grazie in primo luogo a due importanti donazioni: la preziosa raccolta di cimeli donizettiani della baronessa Basoni Scotti e gli arredi della stanza in cui il compositore bergamasco morì, di proprietà di Cristoforo Scotti che ospitò il musicista malato negli ultimi anni della sua vita. Negli anni successivi il Museo, che nei suoi depositi poteva annoverare fin dalla sua inaugurazione la ricca collezione di oggetti e documenti di proprietà comunale, conservati sino allora per la maggior parte presso la Civica biblioteca Angelo Mai, assistette ad un prodigioso e rapido sviluppo, dovuto soprattutto a Guido Zavadini. Per merito della sua infaticabile opera di ricerca e di valorizzazione dei materiali conservati, il patrimonio del Museo subì un notevole accrescimento, così che nel 1936 fu possibile compilare il primo catalogo dell’archivio dell’istituzione.
La pubblicazione di Zavadini che diede il suggello definitivo al suo trentennale lavoro di studioso donizettiano fu però un’altra: l’imponente volume Donizetti. Vita, musiche, epistolario, pubblicato nel 1948– nel centenario della morte del musicista – e rimasto a tutt’oggi la principale fonte diretta di informazioni sul compositore bergamasco. L’opera è suddivisa in tre sezioni, ognuna delle quali è basata su documentazione per la maggior parte inedita e raccolta secondo criteri storiografici attendibili: alla biografia del musicista, completamente ricostruita e organizzata anno per anno, seguono un ampio catalogo delle composizioni, suddiviso per generi, e un ricchissimo e fino allora sconosciuto epistolario che contiene più di settecento lettere.
La pubblicazione del testo di Zavadini rivoluzionò o, per meglio dire, pose le basi finalmente per un modernoorientamento degli studi donizettiani, dopo che nei primi decenni del Novecento avevano visto la luce numerosi titoli basati ancora con poche eccezioni su una scarsa documentazione diretta e impostati sugli abusati preconcetti ottocenteschi. La rivalutazione di Donizetti subì così una drastica accelerazione, che portò alla ripresa di molte sue opere dimenticate, grazie a pochi,ma decisivi contributi bibliografici nuovi. Precursore in tal senso fu Guglielmo Barblan, autore di numerosi saggi critici e storici dedicati al musicista bergamasco e anima del Centro di studi donizettiani, fondato a Bergamo nel 1962, le cui pubblicazioni – quattro numeri a cadenza decennale – hanno arricchito notevolmente il già corposo epistolario raccolto da Zavadini. Tra gli altri titoli significativi di quel periodo segnaliamo i volumi curati da Angelo Geddo e da Herbert Weinstock, nei quali gli autori abbinano a una parte biografica una sezione di analisi delle principali opere teatrali del musicista, il fondamentale testo di William Ashbrook, biografia di riferimento per ogni studioso o appassionato di Donizetti e l’esteso saggio di Franca Cella, che analizza le fonti letterarie francesi della librettistica del compositore.
La cosiddetta Donizetti-Renaissance, iniziatasi sul finire degli anni Cinquanta, ebbe il suo culmine negli anni Settanta. La ripresa delle opere donizettiane dimenticate divenne sistematica, dal 1974 fece il suo ingresso nel panorama bibliografico la Donizetti Society di Londra, attiva con le frequenti «Newsletter»e con i sette numeri delsuo «Journal», mentre nell’anno successivo il primo convegno internazionale di studi tenutosi a Bergamo sancì definitivamente l’ingresso del musicista nell’ambito accademico mondiale. Nel breve volgere di un ventennio, grazie anche alla concomitanza con le celebrazioni per il bicentenario della nascita, il catalogo delle pubblicazioni donizettiane ha subito un nuovo e deciso incremento quantitativo e qualitativo. I contributi più importanti sono senza dubbio la monografia di Philip Gossett interamente dedicata ad Anna Bolena, nella quale il musicologo americano applica i più moderni strumenti della filologia musicale per indagare la complessità del processo compositivo donizettiano, i numerosi saggi contenuti negli atti dei diversi convegni di studio organizzati nel 1997 e nel 1998 che coinvolgono l’impresa editoriale che più di ogni altra ha inciso sulla rivalutazione del repertorio donizettiano: l’edizione critica delle opere di Gaetano Donizetti, diretta da Gabriele Dotto e da Roger Parker e riconosciuta dal 2001 dal Ministero per i beni e le attività culturali come Edizione nazionale.
Tra i titoli più interessanti dell’ultimo decennio citiamo infine il fondamentale volume curato da Annalisa Bini e Jeremy Commons che raccoglie le recensioni delle prime rappresentazioni delle opere di Donizetti, il pratico compendio bibliografico redatto da James Cassaro e la curiosa biografia di Silvana Milesi, narrata in prima persona dallo stesso compositore e corredata di un ricchissimo apparato iconografico. Dal 1997 è attiva inoltre nella città natale del musicista la Fondazione Donizetti diretta da Paolo Fabbri, che si occupa principalmente di studiare aspetti ancora trascurati dell’attività donizettiana, quali l’edizione delle opere, l’ampliamento e l’aggiornamento del lascito epistolare, la storiografia e la librettistica donizettiana.
Maria Stuarda è stato uno dei lavori teatrali del musicista a cui la Donizetti-Renaissance degli ultimi decenni ha più giovato. L’opera è stata ripresa e incisa più volte in tempi moderni – oltre all’importante ripresa del 1958, dovuta a Gianandrea Gavazzeni, memorabile è rimasto l’allestimento del Maggio Musicale Fiorentino nel 1967, con Leyla Gencer e Shirley Verrett quali protagoniste e la regia di Giorgio De Lullo – e ha avuto l’onore di essere la partitura inaugurale dell’edizione critica, curata da Anders Wiklund sulla base dell’autografo conservato presso lo Stiftelsen Musikkulturens Främjande di Stoccolma. I primi saggidi un certo interesse sulla Maria Stuardarisalgono invece agli anni Settanta e Ottanta e sono contenuti per la maggior parte nei primi numeri del «Donizetti Society Journal». Nella prima uscita della rivista citiamo i due articoli di John Allitt, che propone una descrizione in chiave allegorica del personaggio dell’infelice regina scozzese, e di John Watts, il cui contributo elenca le rappresentazioni di Maria Stuarda tra il 1958 e il 1973, riportando data, luogo, direttore e interpreti, mentre nel terzo numero, dedicato quasi interamente all’opera, segnaliamo due saggi di William Ashbrook: il primo è incentrato sulla tormentata genesi del lavoro, dovuta ai problemi con la censura napoletana e ai numerosi ripensamenti del musicista, e sulla sua struttura musicale, il secondo si sofferma invece sulle problematiche relative al libretto, confrontato con la sua fonte letteraria e studiato nelle sue diverse versioni. Contenutiall’interno della stessa rivista (nel quinto numero) sono il prezioso contributo del soprano Leyla Gencer, che esamina le difficoltà interpretative delle regine donizettiane – oltre a Maria Stuarda sono analizzati i ruoli della prima donna in Anna Bolena e Roberto Devereux – e l’articolo di Fulvio Lo Presti, nel quale l’autore affronta diversi aspetti del lavoro, indicandolo come il risultato più importante della moderna rivalutazione donizettiana. Più specificamente dedicato al rapporto con la fonte il recente contributo di Helga Lühning.
Per la loro completezza e varietà di spunti analitici occorre segnalare alcuni dei programmi di sala redatti per le moderne rappresentazioni dell’opera. Legato alle manifestazioni musicali svoltesi nel corso dell’ottavo Festival Donizetti è il volume relativo a Maria Stuarda che raccoglie gli interventi di alcuni dei principali studiosi donizettiani – si veda in particolare il contributo di Gabriele Dotto e Roger Parker, nel quale i due musicologi descrivono le scelte metodologiche operate per la redazione dell’edizione critica dell’opera –, mentre del programmadi sala edito per l’allestimento del lavoro al Teatro Regio di Torino nel 1999 citiamo l’articolo di Paolo Cecchi che, dopo una introduzione basata sulla fortuna italiana della Maria Stuart di Schiller nei primi decenni dell’Ottocento, propone un attento studio della pièce del drammaturgo tedesco e un’analisi della semplificazione drammatica operata da Donizetti e Bardari ai fini di un adeguamento alle esigenze operistiche.
Per completare, la più recente monografia dedicata all’opera è quella apparsa a cura di Chantal Cazaux per la rivista «L’Avant-scène Opéra». E, per chiudere, il saggio recente più illuminante ai fini della comprensione di questo capolavoro: Una drammaturgia borghese di Luca Zoppelli.
BOLETTINO DEGLI AMICI DEL SAN CARLO
2009 September
LA REPUBBLICA
2009.11.24
PAOLA ZONCA
Io, una Cenerentola miracolata da Barenboim Milano Con un po' di tristezza ricorda la sua infanzia
sofferta a Tbilisi, capitale della Georgia, dove ha vissuto fino a due anni fa,
prima di arrivare a Milano come allieva dell' Accademia della Scala. Ma per il
mezzosoprano Anita Rachvelishvili, 25 anni, lunghi capelli ricci bruni, sguardo
intenso, è il momento del riscatto: il 7 dicembre debutterà al Piermarini come
protagonista della Carmen diretta da Daniel Barenboim e con la regia di Emma
Dante. «Mi rendo conto che è una prova importantissima, perché finora ho
interpretato solo tre piccole parti, tutte alla Scala - spiega - Però sono
tranquillissima. Affronto le situazioni con sangue freddo, forse perché ne ho
passate tante. Sto provando tantissimo: quasi quasi chiedo che mi mettano un
letto qui in teatro». Com' è stata la sua vita prima di arrivare in Italia?
«Quando ero bambina la Georgia era in conflitto con l' Unione Sovietica. La
situazione era disperata: non c' era da mangiare, mancavano luce, gas. Avevo
cinque anni, e con la mia famiglia facevo i chilometri coi secchi per andare a
prendere l' acqua: d' inverno si usava la neve, d' estate si aspettava la
pioggia. Ho dovuto rinunciare al pattinaggio artistico: era troppo pericoloso
raggiungere il centro della città per gli allenamenti. Un grande dispiacere:
avevo talento». E la musica? «Vengo da una famiglia di musicisti, e ho
cominciato col pianoforte. La voce? Da piccola cantavo brani popolari georgiani
e mi divertivo a comporre. Ho studiato al Conservatorio e mi sono diplomata
anche in canto lirico. In Italia sono arrivata perché la mia insegnante, che
stava morendo, voleva mettermi in mani sicure. E l' Accademia della Scala in
Georgia è famosissima: ricordo con amore Leyla Gencer, ora scomparsa, che mi ha
dato consigli utilissimi. "Non urlare mai, mantieni sempre l' eleganza nel
canto" mi diceva». Lei si è diplomata a giugno, ma già prima era stata
"scoperta" da Barenboim. «Ho fatto un' audizione per il personaggio
di Frasquita. Il maestro mi ha chiesto di cantargli tutte le arie di Carmen ed
è rimasto impressionato. Nell' aprile scorso mi ha affidato il ruolo». Cosa le
dice ora il maestro? «Che di Carmen ho tutto: la voce, l' aspetto, il
temperamento». E lei cosa ne pensa? «Io mi sento molto più simile alla generosa
e dolce Micaela, Certo Carmen è una donna libera, sensuale, affascinante. È
forte, ha idea di cosa vuole ottenere. Ma il suo egoismo la porta a volere
tutto, a non pensare al domani, a fare scelte sbagliate. Fino ad andare
incontro alla morte per mano di Don José». E la regista come vede l' opera? «La
sua non è una Carmen moderna né una Carmen tradizionale. Lo spettacoloè molto
forte, pieno di energia. C' è anche violenza, come nel duetto finale, quando
Don José cerca di abusare di Carmen. Emma Dante sottolinea l' ambivalenza del
loro amore: a volte tenero, a volte animalesco». È vero che le fa indossare un
abito monacale? «In tutto lo spettacolo c' è un tocco di Suditalia: in scena ci
sono molti simboli religiosi che trasmettono un senso di morte. Ma i costumi
sono belli, sensuali, colorati. Quello che ho quando assisto alla vittoria di
Escamillo è un po' spagnoleggiante». L' ha influenzata qualche interprete del
passato di Carmen? «Le ho ascoltate tutte, ma non in fase di preparazione. Però
posso dire che, come mezzosoprano, Fiorenza Cossotto è il mio modello». Lei è
fidanzata con il tenore Riccardo Massi, anche lui allievo dell' Accademia. «Sì,
e sta imparando la parte di Don José come sostituto di Jonas Kaufmann. Se tutto
va bene, non canteremo assieme. Ma quanto mi piacerebbe! Quando provavamo il
duetto finale, Barenboim ci prendeva in giro: ragazzi, non siete
superstiziosi?»
2 0 1 0
A PIER LUIGI PIZZI
2010 Amici della Fenice
2 0 1 1
LA REPUBBLICA
2011.04.26
FULVIO PALOSCIA
Aida mi ha cambiato ora sono una superstar'
Aida ha cambiato la vita al soprano cinese Hui He. Il suo
debutto nel ruolo della principessa etiope avvenne con la benedizione del
Maggio Musicale nel 1998, quando i complessi fiorentini inaugurarono il Grand
Theatre di Shangai con l' opera di Verdi: l' allora direttore artistico, Cesare
Mazzonis, ebbe infatti l' idea di un secondo cast tutto locale. Come
protagonista fu scelta lei, giovanissima nata a Xi' An (la vecchia città
imperiale, nota anche per il famoso esercito di terracotta) ma già con molti
assi da giocare. Di lì a poco, l' esplosione nel mondo e l' ascesa
inarrestabile: il lavoro con direttori del calibro di Maazel, Myung-Whun Chung,
i successi europei, l' approdo alla Scala. Con queste credenziali Hui He
inaugura il Maggio sotto la guida musicale di Mehta e quella registica di
Ferzan Ozpetek, anche se non è la sua prima volta a Firenze. Qualche anno fa,
fu sempre Aida nell' allestimento «tascabile» di Zeffirelli, alla Pergola. Da
Zeffirelli a Ozpetek. Due registi diversissimi. «Ferzan ha voluto giocare molto
sulla presenza del deserto, metafora della terra originaria di Aida: quando
cantoO cieli azzurri, vuole che afferri la sabbia che, in quel momento, evoca
le radici di Aida. E, nel finale, sarà proprio la sabbia a seppellire Aida e
Radames, trasformandosi nella loro morte». Il personaggio di Aida sembra
svilupparsi attraverso duetti cruciali: con Amneris, Radames, Amonasro. Svelano
rivalità, amori, sotterfugi che muovono l' azione. «La dualità è l' elemento
ricorrente dell' opera. La stessa protagonista ha due anime: la donna
innamorata e la principessa fiera che sente le responsabilità nei confronti
della sua patria. Il duetto con Amneris è senza dubbio tra rivali, ma non come
avviene in Gioconda, dove le due antagoniste giocano ad armi pari: Aida
risponde alla perfida Amneris non con la rabbia, ma con la pietà. L' incontro
con Amonasro è quello tra la figlia che ritrova il padre, ma anche quello di
una donna di potere che ritrova il Re, e questo prende il sopravvento. E nei
confronti di Radames Aida prova sofferenza. Da donna tradita. E che tradisce».
Una voce verdiana. Ma anche pucciniana. Cosa sente di congeniale in questi due
compositori? «Verdi ha capito ogni cosa della voce. Cantare le sue opere
significa arricchire la propria tecnica. Interpretare Puccini invece permette
di approfondire l' altro aspetto del canto che per me è ha importanza tanto
quanto la vocalità. La recitazione. Di Puccini amo la teatralità. E il suo
disegnare una femminilità che è sempre vincente. Anche quando si dissolve nel
suicidio». In effetti la critica spesso tesse gli elogi non solo della sua
preparazione vocale, ma anche dell' appeal attoriale. «In questo mi è stata di
grande aiuto Raina Kabaivanska, con cui ho preparato il mio debutto in Tosca,
al Regio di Parma, nel 2002. Lei mi ha insegnato come la cura del personaggio
dal punto di vista psicologico e della recitazione sia un dovere nei confronti
del pubblico: incarnare nel modo più vero i sentimenti è uno dei modi migliori
per spiegare l' opera al pubblico». Altri suoi numi tutelari sono stati Leyla
Gencer e Domingo. «Ho vinto il concorso verdiano di Busseto nel 2002, proprio
quando la Gencer era presidente della giuria. Al termine della mia esibizione -
tra l' altro proprio conO cieli azzurri di Aida- lei non trattenne la standing
ovation tradendo l' imparzialità. Della Gencer vorrei avere gli acuti verdiani:
perfetti, ineccepibili, ideali. Con Domingo ho cantato dopo essere arrivata
seconda al concorso da lui creato, "Operalia": di lui non
dimenticherò mai la grande umiltà, anche nei confronti di una che stava
muovendo i suoi primissimi passi, come me. A questi grandi nomi aggiungo Mehta,
che mi ha insegnato la necessità della precisione». Lei è la prima voce lirica
cinese a conquistare il mondo. «Mi considero fortunata, ma sento questo anche
come una responsabilità. Per questo dedico tantissime ore allo studio, si
tratti di ruoli rodati (come Butterfly, che ho cantato 94 volte, anche a Torre
del Lago) o di debutti (sto preparando Il vascello fantasma, Don Carlo e Gioconda
): la mia vita è il canto, non voglio deludere mai. Mi soffermo non solo sulla
vocalità o la recitazione, ma anche sull' approfondimento culturale e sociale
in cui le opere sono state scritte. E capire i segreti delle grandi che mi
hanno preceduta attraverso cd o dvd. Ho lasciato la mia terra appena la
carriera ha spiccato il volo, non sono più tornata in Cina per esibirmi, e
questo mi fa capire il dolore di Aida per la lontananza dalla patria». E nel
tempo libero? «Dipingo. Sono stata incerta se seguire il canto o l' arte. Poi
ho scelto la musica: ho l' orecchio assoluto e sono in grado di eseguire un
brano anche dopo averlo ascoltato una sola volta».
IL PICCOLO
2011.05.11
CLAUDIO GHERBITZ
Cortina ricorda il pianista Dino Ciani
TRIESTE In giugno avrebbe compiuto 70 anni, occasione in
cui un artista può anche guardarsi indietro e che invece rende più struggente
il ricordo di Dino Ciani, assieme a Michelangeli e Pollini il nostro più grande
pianista del dopoguerra. Il mondo non fece in tempo a invidiarcelo perché
scomparve a soli 32 anni in un incidente stradale. Era nato nel 1941 a Fiume e
tale contiguità ce lo rendeva particolarmente caro, anche se non si esibì
spesso a Trieste: tra il '68 e il '70 un paio di volte per la Società dei
Concerti e al "Verdi" in un concerto sinfonico diretto da Luigi
Toffolo. In assenza di parenti musicisti, la rivelazione del suo talento fu
inaspettata e avvenne a Genova dove la famiglia si trasferì ( il papà era
agente marittimo) alla fine della guerra. Diploma a pieni voti al Conservatorio
di Santa Cecilia, poi l'incontro decisivo della carriera, quello con Alfred
Cortot, il cui insegnamento seguì a Losanna, a Parigi e d'estate anche
all'Accademia Chigiana di Siena. L'anziano mago della tastiera fu conquistato
dal giovanissimo fiumano che definì «uno dei pochissimi che percepiscono il
vero dell'intenzione creatrice nella diversità delle sue manifestazioni».
Dotato di cultura vastissima, curioso e audace, Ciani non rispecchiava il
clichè consunto del pianista, perfezionista e propenso alla tecnica muscolare.
Sempre alla ricerca di nuove vie e nuove emozioni, frugava nel repertorio e
amava far musica in compagnia, anche mettersi al servizio di cantanti. Lo
provano i sodalizi con Leyla Gencer e Placido Domingo, e il ciclo schubertiano
del "Winterreise" con Claudio Desderi. Un paio di giorni prima della
sciagura aveva suonato a Chicago il Terzo Concerto di Beethoven diretto da
Giulini e fu la sua ultima volta. Sull'onda emotiva della scomparsa, il Teatro
alla Scala bandì un Concorso internazionale per l'anno successivo, il 1975.
Presieduta da Franco Abbiati, poi da Arthur Rubinstein, da Nikita Magaloff e da
Riccardo Muti, la competizione prosperò per oltre 20 anni per poi affievolirsi.
Il testimone è ora passato a un Festival che porta il suo nome e che si svolge
tra luglio e agosto a Cortina d'Ampezzo (dove è sepolto). Ne è direttore
artistico Jeffrey Swann, vincitore della prima edizione del Concorso Ciani.
LA REPUBBLICA
2011.05.21
LAURA MAGNETTI
La Scalata Giovani cantanti crescono e conquistano un posto al sole
C' è chi è uscito da poco, come il tenore Leonardo
Cortellazzi e chi, come la ventiquattrenne Pretty Yende, si metterà in tasca il
suo diploma di soprano solo il 19 giugno, e ci sono tante giovani star, come la
georgiana Nino Machaidze, 28 anni, conosciuta ovunque come l' Angelina Jolie
della lirica (vedere per verificare la somiglianza), e il già arcinoto Giuseppe
Filianoti, che aprirà il 7 dicembre la stagione scaligera nel Don Giovanni. Ma
l' elenco è lungo: Capitanucci, Surguladze, Cavalletti, tutti talenti che si
sono perfezionati a Milano, all' Accademia per cantanti lirici del Teatro alla
Scala e che saranno i protagonisti della prossima stagione del Piermarini
(intanto oggi, nella sede di via Santa Marta 18, si tiene il terzo e ultimo
open-day della scuola, dalle 10 alle 17). La nostra Angelina Jolie, che all'
anagrafe fa Nino, cosa buffa per questo schianto, ha anticipato addirittura i
tempi: sarà lei, infatti, la diva di Romeo e Juliette di Gounod diretta da
Yannick Nezet-Seguin, in scena dal 6 giugno. Con questa Juliette, ha già
incantato a Salisburgo e Londra, ma la Scalaè la Scalae Nino, che avrà come
Romeo Vittorio Grigolo, non sta più nella pelle: «Ci sono dei ruoli che ti
appartengono, altri che ti richiedono più sforzo. Juliette fa parte della prima
categoria. Come lei anch' io sono solare, sorridente e positiva...certo il
finale è drammatico ma la musica e il libretto sono talmente perfetti che il
personaggio evolve con naturalezza». Nino, alla Scala, è conosciuta (La Figlia
del Reggimento, Bohème), ma a lei è rimasta impressa quella prima volta del
novembre 2005, quando, dopo appena due mesi di Accademia, fu scelta come
solista per interpretare delle arie di Mozart: «Sono stati due anni
indimenticabili. La mia insegnante era Luciana Serra, con cui ho perfezionato
l' agilità degli acuti, e poi c' erano i masterclass con Leyla Gencer e la
Freni e l' opportunità di cantare in Scala...cosa puoi desiderare di più? In
Accademia ho persino trovato l' amore!» svela Nino, fidanzatissima col baritono
Guido Lo Consolo. Alla Scala tornerà nel 2012: sarà Gilda nel Rigoletto, che ha
appena interpretato a New-York con l' exaccademico Giuseppe Filianoti. Il quale
sarà Don Ottavio nel Mozart che inaugura. «Capita spesso di incontrare per il
mondo colleghi usciti dall' Accademia; ciò mi rende orgoglioso di essere
italiano. Don Ottavio? Canta due delle arie più belle scritte da Mozart per un
tenore. Interpretare Mozart è come danzare delicatamente su una superficie di
vetro. Bisogna essere espressivi rispettando lo stile dell' autore e curare la
purezza di ogni suono come se la voce fosse uno strumento». Ma nella prossima
stagione scaligera conosceremo anche tante voci nuove e straordinarie come
quelle dei giovani che si diplomeranno a giugno Evis Mula, Jihan Shin, Valeria Tornatore
e Ananna Victorova. E soprattutto come quella della sudafricana Pretty Yende,
prima studentessa nera dell' Accademia, che nel 2011-2012 sarà, nell' ordine:
la Sacerdotessa nell' Aida di Zeffirelli; Barbarina in Le Nozze di Figaro e
Musetta in Bohème nel settembre del 2012. Paura? «Per niente. Non vedo l' ora
di cominciare queste produzioni grandiose. E' la prima volta che la Scala offre
così tanti ruoli ad un' unica artista nell' arco di una sola stagione, ma credo
che siano tutti titoli giusti per me. Non speravo di arrivare a Bohème così
presto. Mi sarà molto utile dare un' occhiata a come lavorano i colleghi che mi
affiancheranno». E' una ragazza umile, Pretty, ma esprime tutta la forza di
chi, per primo, ha sfondato una barriera: «Essere la prima cantante nera dell'
Accademia ha un significato speciale: vuol dire che la Scala è aperta a tutti e
che tutti, se hanno il sogno di cantarvi e hanno talento, possono farcela». E
ce l' ha fatta anche Leonardo Cortellazzi, classe 1980, a guadagnarsi un posto
al sole nel prossimo cartellone. Interpreterà a settembre Telemaco ne Il
Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi diretto da Bob Wilson. «Adoro il
barocco. Richiede una voce flessibile, ma anche sonora. Ma è piacevole cantare
questo repertorio anche per un altro motivo: trovi colleghi meno snob».
LA REPUBBLICA
2011.06.22
FULVIO PALOSCIA
Mariella Devia La regina del belcanto quarant' anni di applausi
La carriera di Mariella Devia, che festeggia i quarant'
anni dal debutto, ha nel Maggio Musicale uno dei teatri cruciali. Dove i suoi
fan l' hanno di volta in volta applaudita come interprete pergolesiana,
mozartiana, verdiana, belliniana. E, ovviamente donizettiana: la lunare,
immaginifica Lucia di Lammermoor firmata dal regista Graham Vick e la
riscoperta di Parisina. Ma è un Donizetti diverso quello del concerto che la
vede protagonista, domani, al Comunale, sul podio Daniele Callegari, a chiusura
del festival. In programma, infatti, i finali delle opere che hanno per
protagoniste grandi regine: da Maria Stuarda ad Anna Bolena fino a Elisabetta
prima, che Donizetti ritrasse nel Roberto Devereux (da novembre, con debutto a
Marsiglia, entrerà nel repertorio della Devia). «Perché ho deciso di accettare
un concerto del genere? Non me lo ricordo e se me lo ricordassi mi picchierei
da sola - dice il soprano, sovrana assoluta del belcanto, alludendo alla
difficoltà del programma - confesso che mi sento come un toro nell' arena. Qui
le difficoltà sono di due ordini. Tecnico, visto che ogni regina si avvale di
una propria vocalità, e interpretativo: dal pentimento cattolico di Maria
Stuarda all' alternanza tra folliae lucidità di Anna Bolena». Una follia ben
diversa da quella di Lucia, «ragazza angelicata, sognante, che rifugia nella
pazzia il dolore per le mancate nozze, da lei tanto bramate, con Edgardo». Sono
15 i titoli donizettiani che la Devia ha in repertorio, in questo seconda solo
ad un' altra grande «portavoce» del compositore: Leyla Gencer. «Mi piace perché
pone sempre sfide - dice Devia - a forza di studiarlo, ci sono degli elementi
del suo fare musica che sono diventati miei». A tanti altri cantanti, invece,
Donizetti non va proprio giù e le sue opere vanno scomparendo dai cartelloni.
Forse perché non ci sono più voci adatte? «Non amo mai toccare il discorso sui
giovani interpreti di oggi, che rischiano di bruciarsi subito. Chi mi assicura
che anche nel passato questo non accadesse? Io sono ancora qui perché ho studiato
molto e perché ho sempre posto grande attenzione al repertorio. Ho detto
tantissimi no: a Traviata pochi anni dopo il mio debutto, a Madama Butterfly
che mi veniva proposta solo perché anche Toti dal Monte e Renata Scotto l'
avevano interpretata. Due voci ben diverse dalla mia». Sul futuro di Mariella
Devia continua ad aleggiare il fantasma di Norma: "Casta diva" è uno
dei suoi cavalli di battaglia nei concerti, «ma all' opera completa dico no.
Per ora. Il problema di questo personaggio è che fino ad oggi è stato affidato
a voci che non erano belcantiste. Potrei accettare soloa determinate
condizioni: un cast e un teatro adeguati alla mia voce. Chessò: se il Maggio
decidesse di allestirla alla Pergola, forse potrei pensarci». Nel concerto di
domani, ogni finale sarà preceduto dall' esecuzione della sinfonia dell' opera
in questione: «Non sono una passeggiata, presentano caratteristiche strumentali
impegnative» spiega Callegari, che si sofferma sulla mal sopportazione, da
parte delle orchestre, di Donizetti, «troppi cliché da rispettare. Invece l'
accompagnamento, nelle sue opere, è radicalmente legato alla parola, è in
funzione di ciò che si dice, e così va restituito». Alla Devia è dedicato l'
incontro di stasera, al Piccolo Teatro (ore 21) a cura di Andrea Merli e
Michael Aspinall, grande esperto di belcanto e protagonista di memorabili
concerti en travestì, da sopranista. «Un omaggio? - sbotta ridendo la Devia -
Ehi, ma non sono mica morta!». Teatro Comunale, corso Italia Domani, ore 20.30.
80, 60, 30 euro Informazioni 055/2779350
OPERA MAGAZINE
2011 July
Palermo.At the Teatro Massimo on February 24, Ponchielli's La Gioconda was on the playbill for the first time in more than 40 years. The 1970 production starred Leyla Gencer (Gioconda), Oralia Dominguez (Laura) and Piero Cappuccilli (Barnaba);
DAILY MIRROR
2011.10.05
OPERA CHINEESE
2011 November
IL PICCOLO
2011.11.12
CLAUDIO GHERBITZ
Mariella Devia aprirà con Anna Bolena
TRIESTE A tre mesi dall'inaugurazione, la stagione del
Teatro Verdi è compilata in ogni sua parte e i pieghevoli sono a disposizione
degli appassionati per l'abbonamento. Dopo averla delineata lo scorso 4
settembre, la Fondazione, nella persona del suo sovrintendente Antonio Calenda,
è stata di parola nel presentarne i dettagli. Per la verità, qualche casella
porta ancora la dizione "da definire", ma si tratta di marginalità.
Tenuto conto delle difficoltà contingenti, il lavoro è stato sodo con un
riconoscimento al segretario artistico Antonio Tasca. Si parte, quindi, dalla
donizettiana "Anna Bolena", di grande interesse anche se non un
capolavoro assoluto. Riesumata una sessantina d'anni addietro, tra l'altro a
Glyndebourne da Leyla Gencer, Carlo Cava e Juan Oncina diretti da Gavazzeni,
avrà sul podio un "donizettiano" doc quale Bruno Campanella
nell'edizione ideata dal regista Graham Vick. Attesissima la gran dama del
belcanto Mariella Devia nelle vesti della protagonista che si alternerà con Cinzia
Forte, mentre al personaggio di Enrico VIII presterà la voce Luiz-Ottavio Faria
e a quello di Lord Riccardo Celso Albelo, a Trieste applaudito in "Don
Pasquale", "Pescatori" e "Stuarda". Un astro di prima
grandezza del belcanto connoterà anche la prima delle due opere verdiane,
"La battaglia di Legnano" e "Rigoletto" previste per
febbraio e marzo. Si tratta di Dimitra Theodossiou, soprano greco ammirata in
questi giorni a Parma nel "Requiem" ed in Sicilia in
"Norma", qui rivelatasi più di dieci anni fa nel "Corsaro".
Nella "Battaglia" la Theodossiou (alternata da Sara Galli) sarà
affiancata da Enrico Iori, da Leonardo Lopez Linares e Giorgio Caoduro. Molta
attenzione è stata prestata al successivo "Rigoletto", diretto da
Corrado Rovaris e con Michele Mirabella in cabina di regia. Il primo cast è in
linea con la difficoltà dei tre temibili ruoli, affidati a Luca Salsi,
debuttante nel ruolo, Julia Novikova e Francesco Meli. Tutte da scoprire le
alternanze, con David Lecconi, Paola Cigna e Armando Kllogjeri. Sul podio della
successiva "Bohème" salirà Donato Renzetti, qui atteso all'imminente
concerto sinfonico. Il nuovo allestimento sarà firmato da Pier Paolo Bisleri,
vi canteranno Rossana Potenza, Jean François Borras, Gezim Myshketa e la
beniamina per antonomasia Daniela Mazzucato. Due concittadini di peso quali il
tenore Massimo Giordano e Paolo Rumetz connoteranno il mascagnano "Amico
Fritz", mentre, convocando Antonino Siragusa, Roberto Di Candia, Paolo
Bordogna e Marco Vinco, si è riusciti ad equilibrare il cast del "Barbiere
di Siviglia": tutto dire, vista la Rosina di Daniela Barcellona. Il
musical di Pirandello "Proprio così" in prima assoluta e due
spettacoli di balletto completano il cartellone 2012, più luci che ombre
nonostante i tempi di magra.
2 0 1 2
CONTEMPORARY MUSICIANS VOL.72
2012
LA REPUBBLICA
2012.03.15
GREGORIO MOPPI
Anna Bolena Donizetti dimenticato, la rivincita
Firenze non ha mai avuto un debole per Gaetano Donizetti.
Nella prima metà dell' Ottocento, quando il compositore era in vita, gli si
preferiva Rossini. Mentre nel Novecento, dacché nel ' 28 è nata l' orchestra
del Maggio, su una settantina di titoli partoriti dal bergamasco, il Comunale
ne ha proposti poco più di dieci. Lucia di Lammermoor, un prezzemolino: fino
all' ultima produzione di Graham Vick (1996) ripresa fino a tre anni fa, i
fiorentini l' avevano vista già nove volte. Una almeno memorabile, gennaio 1953.
In scena Maria Callas, Ettore Bastianini e Di Stefano alternato a Lauri Volpi.
Peraltro proprio con Lucia, il 17 maggio 1862, si era inaugurato il Comunale
che allora però aveva un altro nome (Politeama Vittorio Emanuele II) e un altro
aspetto (open air da 6 mila posti). Sul podio delle opere donizettiane più
rappresentate salgono poi Elisir d' amore e Don Pasquale. Ma insomma, qual è
quel teatro nel mondo che non programma con regolarità Lucia, Elisir, Don
Pasquale? È repertorio. Tutti sono buoni a farli. Comunque, vero che il
Donizetti transitato dal Maggio è stato poco, però qualche segno l' ha
lasciato. Poiché vi è ancora chi rammenta come preziose esperienze d' ascolto
il Don Sebastiano diretto da Carlo Maria Giulini nel 1955 (Mascherini, Gianni
Poggi, Giulio Neri, Fedora Barbieri nel cast), la Favorita di Bruno Bartoletti
del 1965 (con le voci di Bruscantini, Cossotto, Kraus), la Maria Stuarda del '
67 con la regia di Giorgio De Lullo in cui si graffiavano le leonesse Leyla
Gencer e Shirley Verrett, o la Figlia del reggimento di Gavazzeni del 1986,
tenore ancora Alfredo Kraus. Lo stesso che si era trovato accanto a Gencer e
Katia Ricciarelli nella Lucrezia Borgia del 1979. Invece per Anna Bolena
(primo, vero successo internazionale di Donizetti datato 1830) quello di
stasera è un debutto in corso Italia. Ma non in città, dove l' opera ha
esordito il 18 marzo 1832 alla Pergola. Poi, poco a poco, è uscita dovunque
dalle sale. Ritornandoci solo dal 1957. Lo spettacolo odierno del Comunale
firmato Vick, coproduzione con Veronae Trieste, può contare sulla bacchetta di
Roberto Abbado e su Mariella Devia, Sonia Ganassi, Roberto Scandiuzzi nelle tre
parti principali. Voci migliori non si potrebbero pretendere oggigiorno.
LIBERATION
2012.05.02
ERIC DAHAN
Anna Netrebko trône à Gaveau
Lyrique. La soprano autrichienne d’origine russe, habituée des grands rôles, poursuit son ascension ce soir à Paris.
Septembre 2011 à Manhattan. La photo d’Anna Netrebko est sur tous les abribus pour la rituelle campagne promotionnelle du Metropolitan Opera dont elle ouvre la saison en Anna Bolena, dans l’opéra du même nom de Donizetti. Un rôle écrasant, autrefois défendu par Leyla Gencer et Beverly Sills, dont elle est l’une des rares chanteuses du moment à posséder à la fois les aigus et les graves, se payant même le luxe d’un contre-ré à décorner un bœuf. La première fois qu'on l'a entendue, c'était au Mariinsky de Saint-Pétersbourg dans les Fiançailles au couvent de Prokofiev, puis en fille-fleur dans Parsifal. Beauté du timbre, physique de rêve, sa carrière internationale semblait assurée, comme l'a confirmé des années plus tard sa Traviata à Salzbourg. Signée en 2002 par Deutsche Grammophon, Anna Netrebko a été bombardée nouvelle diva du lyrique avec des méthodes habituellement réservées aux stars pop. Mais elle nous a toujours posé problème par son intonation fluctuante et son émission couverte. Sa Susanna, dans les Noces de Figaro à Salzbourg en 2006, était éprouvante. Son Antonia, braillée faux dans les Contes d'Hoffmann en 2009 au Met, était irrecevable. Triomphe du marketing ? On ne retournait pas moins l'écouter il y a un mois en Manon, au Met. Si son contrôle du vibrato reste problématique, le timbre a gagné en chaleur et en couleurs, et les notes hasardeuses sont coulées dans un legato qui les «résout» de façon spectaculaire. «Miracle». D'où ce rendez-vous donné dans un bar panoramique de l'Upper West Side où elle arrive très star, brushing et lunettes noires. Elle commande une coupe de champagne, dévore olives et chips et refuse de raconter l'enfance de son art : «Tout est sur Internet.» Rappelons donc que la soprano lyrique est née le 18 septembre 1971, à Krasnodar en Russie, sur les rives de la mer Noire, qu'elle a fait ses études au conservatoire de Saint-Pétersbourg et s'est fait engager comme femme de ménage au Mariinsky, où Valery Gergiev l'a découverte puis lancée. «Depuis toute petite, j'ai toujours voulu monter sur scène, chanter, jouer la comédie, je ne sais pas d'où ça m'est venu»,concède-t-elle. Dès 1995, elle chante à l'Opéra de San Francisco. En 2002, elle fait ses débuts au Met dans Guerre et Paix de Prokofiev. Dix ans plus tard, c'est la nouvelle «reine» du plus grand théâtre lyrique de la planète. Sa spécialité : bel canto. Sa recette ? «J'ai beaucoup écouté les disques de Mirella Freni, de Callas et Tebaldi, et pris des leçons avec Renata Scotto, qui m'a appris le style bel cantiste.» On évoque Massenet et cette Manon dont elle n'est pas folle. «Don Quichotte, c'est beau, mais Thaïs, bof, je ne pense pas qu'on puisse passer de courtisane à nonne. Je suis artiste, ne crois pas en Dieu. Anna Bolena, c'était plus difficile, mais quelle musique géniale.» Cet été à Salzbourg, elle sera à nouveau Mimi dans la Bohême : «J'aime bien le rôle. La musique de Puccini est la meilleure, il suffit de chanter de la façon la plus simple et directe, et le miracle se produit.» Dans un an, elle tentera sa première comtesse des Noces de Figaro à Baden-Baden : «Pour moi, c'est une femme pleine d'esprit, je n'aime pas qu'on l'interprète comme un personnage triste au cœur brisé. Mon idéal, c'est Kiri Te Kanawa.» N’étant ni soprano dramatique ni colorature légère, Netrebko n’est pas taillée pour l’opéra russe, mais a néanmoins enregistré un disque de mélodies avec orchestre sous la baguette de Gergiev, qu’elle a ensuite donné en récital, accompagnée au piano par Daniel Barenboim. «Sexuelle». C'est ce programme qu'elle propose salle Gaveau, à l'invitation de la série «les Grandes Voix», avec, au piano, l'épouse de Barenboim, Elena Bashkirova. Elle reviendra en novembre salle Pleyel chanter Iolanta de Tchaïkovski en version de concert. Entre-temps, elle ouvrira à nouveau, en septembre, la saison du Met avec l'Elixir d'amour et fera également l'ouverture 2013 avec Eugène Onéguine. Alors, contente d'être la nouvelle reine du Met ? «N'écrivez pas ça, s'il vous plaît, il y a d'excellents chanteurs toute la saison et on va encore plus me détester, surtout les femmes. Les pires critiques parues sur Manon étaient signées de femmes. Elles disaient que j'étais trop sexuelle, pas assez vulnérable.»
Che cosa è una voce verdiana? Che caratteristiche deve
possedere? Che cosa la distingue da un voce non verdiana?
Intorno a questa croce dolorosa si dannano l'anima e la
mente, da almeno un secolo e mezzo, schiere di critici, studiosi, cantanti,
melomani. E nessuno è mai riuscito a dare una risposta piena, univoca e
convincente. L'unico a non essersele nemmeno mai poste, queste domande, è stato
proprio Giuseppe Verdi, che tra l'altro andava su tutte le furie quando qualcuno
riduceva il suo cognome ad un aggettivo... Nei confronti dei suoi interpreti,
reali e ideali, il Mago - come lo chiamava Giuseppina Strapponi - aveva idee
piuttosto originali e assai varie. Della protagonista del Macbeth, ad esempio,
scrive : "Voglio una Lady brutta e cattiva (...) una voce aspra,
soffocante, acuta (...) vorrei che la voce di Lady Macbeth fosse qualcosa di
diabolico". E quando ascolta Gemma Bellincioni a Roma, nel 1882, la trova
l'interprete ideale di Violetta non perché possieda doti vocali straordinarie,
ma perché recita in modo "realistico". E ancora di Felice Varasi, il
primo interprete del ruolo di Macbeth, Verdi dirà: "È un cantante propenso
alla stonatura, ma questo non importa, perché quasi tutta la parte sarà declamata
e in questo egli è molto bravo". Prima di concludere, però, che le voci
verdiane non esistono, che sono solo una astrazione priva di significato, vale
la pena forse rovistare nel groviglio delle idee teatrali che Verdi rivela con
monacale parsimonia. C'è in effetti una dote della quale una voce verdiana non
può fare mai a meno ed è la capacità di tradurre nelle forme del canto la
cosiddetta "parola scenica", ossia quella parola che "scolpisce
e rende netta la situazione ". Da questo punto di vista le voci del passato,
remoto e prossimo, capaci di coniugare in una sintesi superiore il valore
drammatico e il valore musicale dell'espressione vocale si contano su poche
dita: Enrico Caruso, Mario Del Monaco, Giuseppe Di Stefano, Franco Corelli,
Carlo Bergonzi, Placido Domingo tra i tenori, Ettore Bastianini, Gian Giacomo
Guelfi, Piero Cappuccilli, Leo Nucci, tra i baritoni, Renata Tebaldi,
Antonietta Stella, Jessye Norman, Leyla Gencer, Maria Callas tra i soprani, Ebe
Stignani, Fiorenza Cossotto, Giulietta Simionato tra i mezzosoprani. Non è una
lista di merito, ovviamente, ma solo una luce accesa su quelle voci che più
consapevolmente hanno saputo fondere, nelle opere di Verdi, il canto, la parola
e il gesto. E oggi? Ci si deve per forza accodare al lamento passatista che
recita, con mortifera monotonia: "Ah, non ci sono più le voci di una
volta..."? Naturalmente no: scorrendo i nomi degli interpreti delle sette
opere di Verdi messe in scena quest'anno dal Teatro alla Scala ci si accorge
che a non esistere più sono gli specialisti, i cantanti che si dedicano
prevalentemente ad un repertorio, ad un autore, ad un epoca piuttosto che a
un'altra. Ma la parola scenica non morirà mai: semplicemente perché è la cosa
più vicina alla vita che si possa incontrare sulle tavole di un palcoscenico.
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IL MIO VERDI
2013
LEONETTA BENTIVOGLIO
Il Mio Verdi
2013
LEONETTA BENTIVOGLIO & GIANANDREA NOSEDA
LA VANGUARDIA
2013.01.02
OPERA MAGAZINE
2013 May
CORRIERE DELLA SERA
2013.08.21
Il Diario di Operalia
«Un consiglio per i giovani cantanti?
Usate il cervello, non solo la voce» Carmen Giannattasio: «L'opera non è una cosa per vecchi,
in Italia non viene valorizzata» Incontriamo Carmen Giannattasio, una delle protagoniste
del Gala Operalia.
Carmen... qualche ricordo di Parigi, della sua edizione, quella del 2002,
vincitrice del primo premio della giuria e del premio del pubblico?
«Ricordi tantissimi, innumerevoli… il più vivo quello di Leyla Gencer, con cui
avevo studiato all’Accademia della Scala, ma dopo quell’esperienza non ci
eravamo lasciate bene…A Parigi la ritrovai in giuria, poco prima delle
audizioni per i quarti di finale ci incrociammo in bagno; avevo cambiato colore
di capelli, subito non mi riconobbe, mi ripresentai… e mi rispose … “Che Dio te
la mandi buona”. Da lì capii che non mi sarebbe stata favorevole. Dopo
Operalia, dopo aver ricevuto, del tutto inaspettati, i due premi più
importanti, mi riappacificai con lei, che ritornò ad essere un punto di
riferimento prezioso. Umanamente questo fu il successo per me più importante:
recuperare un rapporto a dir poco materno, che oggi mi manca molto».
Italiana in terra straniera…
«Fu un’emozione che ancora oggi mi lascia attonita: arrivammo in finale in due
italiane, a competere con due francesi, una di loro parigina… vincere il premio
della giuria (che all’epoca non era diviso per categorie ma era unico) e poi
quello del pubblico significò moltissimo, straniera in una terra che vantava
colleghe e concorrenti bravissime».
In un anno di mondiali di calcio…. Quelli del Giappone-Corea del Sud…
«Sì… noi italiani, insieme al Maestro Domingo, eravamo tristi, l’Italia e la
Spagna erano state eliminate. Noi, che partecipavamo a una sorta di Olimpiadi
per giovani cantanti, avevamo con noi le nostre bandiere… così quando vinsi il
premio… mi sembrò quasi di vincere la medaglia d’oro ad una competizione
sportiva. La sensazione che permea tutti noi al momento della premiazione è
quella d’essere campioni in una competizione atletica».
Come mai, quasi sempre, su 40 cantanti selezionati a prendere parte ai quarti
di finale, su centinaia di domande che giungono da tutto il mondo, vi sono
sempre pochi italiani?
«Non è un problema di qualità, il Made in Italy è una garanzia nel mondo
dell’opera, sinonimo di una tradizione autorevole; se siamo in minoranza è per
un problema culturale: sempre meno giovani in Italia studiano canto lirico,
anche perché si tratta di un tipo di cultura che in Italia non viene
sufficientemente valorizzato. Spesso i giovani credono che l’opera sia un
genere obsoleto e per vecchi, non è così. Purtroppo non vi sono strutture
abbastanza organizzate per insegnare musica, e sufficienti borse di studio per
studenti meritevoli, non parlo solo dei cantanti, ma di pianisti, violinisti,
musicisti…»
E Operalia?
«Operalia per questo è una vera manna dal cielo! I premi in denaro permettono
ai giovani vincitori di far fronte alle spese contingenti e poi la giuria e
tutta l’organizzazione ti aprono porte che nell’immediato portano a scritture e
ruoli in moltissimi teatri…».
Cosa consiglierebbe ai giovani partecipanti di quest’anno?
«Concentrazione, concentrazione, concentrazione! Il cervello è la cosa più
importante in questo lavoro; la voce, una volta che c’è, va in automatico, ma
occorre pensare e concentrarsi, e poi occorre desiderare fortemente di arrivare
in finale e di vincere. Forse ho vinto proprio perché l’ho desiderato
intensamente. A questo proposito mi viene in mente una citazione di Paolo
Coehlo, dal Manuale del guerriero della luce: “Quando si desidera una cosa,
tutto l'universo cospira affinché chi lo desidera con tutto sé stesso possa
riuscire a realizzare i propri sogni».
INTERMEZZO
2013 December
La televisión italiana realizó en 1984 un magnífico relato de la vida verdiana, donde Renato Castellani contó con el actor inglés de notable parecido con el compositor, Ronald Pickut, y con la bailarina Carla Fracci capaz de ofrecer un encantador perfil de la Strepponi. En la banda sonora, entre los cantantes a disfrutar, la grandísima Leyla Gencer que fugazmente aparece también en pantalla. Fue un éxito de audiencia incluso en nuestro país.
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MIDI LIBRE
2014.07.22
MICHELE FIZAINE
Montpellier : le nouveau Donizetti de la soprano Maria-Pia Piscitelli
"Caterina Cornaro", opéra oublié, sera donné ce mardi à l'opéra Berlioz du Corum, dans le cadre du festival Radio France. La soprano Maria-Pia Piscitelli jouera l'héroïne.
Pendant plus de 150 ans, l’opéra Caterina Cornaro n’a pas été joué, redécouvert en 1972 par Leyla Gencer et Montserrat Caballé. Il est vrai que la première, à Naples, en 1844, avait été catastrophique, heureusement la reprise à Parme, l’année suivante, avait sauvé la mise.
La soprano Maria-Pia Piscitelli, qui a déjà chanté tous les grands titres de Donizetti, est particulièrement heureuse d’étrenner cette œuvre, et s’enthousiasme : "C’est très intéressant car il y a des expériences nouvelles, au niveau des formes et de l’harmonie. En étudiant le rôle, je me suis aperçue qu’il y avait quelque chose de pré-verdien dans la vocalité : du premier Verdi."
Caterina, personnage romantique
Le personnage de Caterina est romantique. Éprise de Gerardo, elle est mariée au roi de Chypre, Lusigano, pour des raisons politiques et repousse son amoureux... pour lui sauver la vie. L’interprète du rôle-titre se passionne pour l’évolution du caractère : "Il n’y a pas de dimension psychologique, comme dans les Tudor ou Lucrezia. C’est dramatique, pathétique, l’héroïne se sacrifie. Cela rappelle Roberto Devereux mais avec une situation bien différente. Elle devient reine, elle va commander."
La cabalette finale confirme cette énergie, et la version donnée ce mardi est celle de Parme. Détail piquant, l’interprète de l’époque, Marianna Barbieri-Nini, était ensuite demandée par Verdi pour chanter Lady Macbeth, et Maria-Pia Piscitelli va chanter le rôle dans la mise en scène du Montpelliérain Jean-Claude Auvray, à Tel-Aviv. Elle était déjà dans sa Force du destin à Barcelone.
Leyla Gencer, un guide
Ses succès récents ont été ses débuts à Vienne, où elle reprenait Norma, avec beaucoup d’émotion. Mais elle sera à nouveau Dona Elvira à La Fenice, cet automne. "Il faut toujours revenir à Mozart, assure-t-elle. C’est indispensable, pour la voix, pour étudier, pour se connaître. Il est essentiel d’avoir conscience de sa voix et de son évolution, de choisir ce qui convient. J’aime avoir un mois ou deux pour travailler. C’est difficile quand on débute, on accepte parfois les propositions, il faut bien vivre... Pour moi, non, je ne chante pas Lucia, ni Rigoletto !"
Dans sa carrière, la soprano s’est toujours souvenue de Leyla Gencer, qui a été un guide pour elle : "J’ai débuté à 17 ans. Elle m’a appris les exigences professionnelles, fait travailler les récitatifs. Et elle m’a confié, en présage, que je chanterai le même répertoire qu’elle."
"La technique et l'art, c'est toute la vie"
Tous les styles lui conviennent mais elle reste fidèle au bel canto : "C’est l’émission parfaite de la voix et cela se travaille comme un instrument." Elle explique ses principes à ses élèves du conservatoire de Monopoli, dans sa province natale de Bari, ravie de transmettre, outre les techniques vocales, sa grande expérience de la scène et une discipline rigoureuse : "La technique et l’art, c’est toute la vie !