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PROGRAMME BOOKLET TEATRO ALLA FENICE DI VENEZIA
Tra Ottocento e Medioevo Chailly guarda al moderno nel trionfo del canto limpido
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Gianandrea Gavazzeni, rispettoso anarchico sedentario
Il teatro, la Scala, deserto, le poltrone vuote, i buchi scuri dei palchi, aveva un fascino malinconico e misterioso quella mattina di vent’anni fa mentre sul palcoscenico l’orchestra diretta da Riccardo Muti sonava la Marcia funebre dalla terza Sinfonia di Beethoven, l’Eroica, in onore del maestro Gianandrea Gavazzeni. Era morto due giorni prima, il 5 febbraio 1996, e la sua bara, posata nel foyer, sembrava davvero il simbolo non soltanto della fine di un uomo che aveva profondamente amato quel luogo ma anche della fine di un secolo, il tragico Novecento in cui aveva vissuto lasciando il suo segno di grande artista, non conformista, rispettoso degli altri fino allo spasimo.
Anche Toscanini, tanti decenni prima, nel 1957, aveva avuto in morte gli stessi onori. Era stato Victor De Sabata, allora, a dirigere la Marcia funebre. E nel 2014 toccherà a Daniel Barenboim il triste dovere in morte di Claudio Abbado: quella sera di gennaio le porte del teatro erano state spalancate e una folla muta e commossa aveva ascoltato nella piazza il requiem della sua città al maestro indimenticato.
Non poteva che apparire anomalo e persino sovversivo alla società codina del tempo un famoso direttore d’orchestra che si definiva così: «Un anarchico sedentario che non va a gettar bombe, ma che non ha bisogno di leggi, tanto è rispettoso degli altri»; «Uno che detesta gli inquisitori e i linciaggi»; «Uno che sta sempre dalla parte dei perdenti»; «Un uomo di passioni, perché anche lo scetticismo è una passione, lo schermo della delusione»; «Un uomo con l’ossessione dello spirito di libertà e di indipendenza».
Gavazzeni era nato a Bergamo nel 1909. La sua fu una generazione fervida nella storia d’Italia, Bobbio, Leone Ginzburg, Arnaldo Momigliano, Pavese, Vittorini, Dionisotti, Garin. I suoi amici di sempre furono Fedele D’Amico, Massimo Mila, Goffredo Petrassi. La musica, la letteratura e anche la politica furono le sue passioni. Figlio di un deputato del Partito popolare, vicino a De Gasperi, antifascista, ricordava il «discorso dei bivacchi» di Mussolini — aveva 13 anni, studiava al Conservatorio romano di Santa Cecilia — ricordava anche il discorso del 3 gennaio 1925 che aboliva le libertà politiche e instaurava la dittatura. Suo padre, avvocato, aveva dovuto lasciare Bergamo e lavorava in un modesto studio a Milano all’angolo di piazza Fontana. Quegli anni gli pesarono sul cuore per tutta la vita.
Era un musicista colto — non è sempre così — al di là delle opere e dei concerti che aveva diretto. Lettore onnivoro, la sua biblioteca nella grande casa di via di Porta Dipinta, a Bergamo, faceva venire in mente la meravigliosa biblioteca del monastero di Strahov, a Praga. Amava la letteratura, si considerava un figlio di «Solaria», la rivista fiorentina di Carlo Carocci e poi di «Letteratura», di Alessandro Bonsanti. Aveva scritto libri di memoria e di mordente presenza nella «sua» musica, Le campane di Bergamo, Non eseguire Beethoven, La bacchetta magica e, nel 1992, da Einaudi, Il sipario rosso, il diario di un quarto di secolo, dal 1950 al 1976, sul modello di André Gide, una miniera di fatti, di personaggi, i suoi mondi, i teatri — la Scala, Salisburgo, Bayreuth — i camerini, le trattorie, i grandi alberghi di ogni continente, le fanatiche del melodramma, melomani pazze, i tenori e i baritoni di cui non aveva una grande opinione, «strumenti vocali», i soprano di cui, invece, era un ammiratore morbido e indulgente.
Il maestro era scintillante, spiritoso, narratore orale di storie e storielle quando parlava con gli amici e sorrideva con quei maliziosi occhi azzurrini e verdi. Ma nei suoi scritti era sempre attento a non fare pettegolezzi, lui che ne avrebbe potuto riempire enciclopedie. Si considerava un teorico della reticenza e della dissimulazione onesta, oltre che dell’incoerenza.
Direttore d’orchestra nei maggiori teatri del mondo, i grandi maestri, De Sabata, Gui, Karajan, Kleiber, lo consideravano uno di loro. Toscanini era un idolo, l’aveva visto tante volte dirigere e incontrato spesso all’Isolino di San Giovanni sul Lago Maggiore, luogo incantato. Gavazzeni aveva diretto le grandi cantanti, la Simionato, Renata Scotto, Mirella Freni, Leyla Gencer. E la Callas, con quella «voce interna soltanto sua»: l’aveva diretta nell’ Anna Bolena di Donizetti, con Visconti, e nel Ballo in maschera di Verdi, un memorabile 7 dicembre 1957 alla Scala dove aprì una decina di stagioni.
È l’Ottocento il suo secolo. Il grande Verdi, ma anche il giovane Verdi, Puccini della Manon Lescaut e della Tosca, il primo Verismo. Era l’uomo meno retorico della terra, Gavazzeni, odiava «l’estetica delle vette», l’ascetica musicale, la musica vista come strumento di elevazione morale, la religione della musica. Negli ultimi anni si era intristito, amaro. Temeva per le sorti del mondo. La manzoniana Storia della colonna infame era diventata il suo libro prediletto.
DINO CIANI
Dino è sempre presente nella mia giornata. C'è la sua fotografia, sorridente, l'aria un po' assorta, sul mio pianoforte. Ma c'è soprattutto un riferimento continuo del pensiero, una nostalgia di comportamenti: cose non dette perché nessuno più le può capire, entusiasmi non spronati che cedono all'inerzia. Vorrei dare più spazio e tempo a questo ricordo, che mi si chiede ora, di lui, ma come accade troppo spesso il momento pratico di impegni contrasta col desiderio di tempo e concentrazione. Forse anche giustifica l'incapacità di definire sentimenti troppo profondi.
Mi limito perciò a fermare alcuni flash del nostro incontro.
L'ho conosciuto dopo una prima di Alceste a Genova, nel '68. Era venuto alla mia recita con De Lullo, regista dello spettacolo, e Romolo Valli, di cui era amico. Dopo la recita eravamo andati a casa di amici con tutta la Compagnia dei Giovani, e lì abbiamo suonato e cantato fino all'alba, lui al pianoforte, con l'entusiasmo che aveva per tutta la musica: operistica, sinfonica, liederistica, contemporanea. Le sue interpretazioni erano profondamente sensibili appunto perché sostenute da una vasta e grande cultura umanistica. Pianista esigentissimo per la propria tecnica, trovava il tempo di essere informato di tutto: pittura, letteratura, politica. Gli interessavano i viaggi, i luoghi, la gente. Tutto questo si percepiva, urgeva sul suo modo di suonare, pur così purificato dal tocco e a volte così incantato... sembrava dovesse vivere tutto assieme, che gli mancasse il tempo. Ed ha vissuto come bruciando le tappe, per morire a poco più di trent'anni.
Da quella sera era diventato un fratello d'elezione, l'amico profondo all'interno di un'intesa musicale. Abbiamo letto tanta musica assieme: la nostra gioia era metterci lui al pianoforte e io a cantare. Di lì la confidenza, le telefonate, lunghissime o fulminee, alle ore più impensate, con scoperte continue. Quando si stancava della sua casa sul lago, a Ranco, nella nebbia, veniva a Milano a trovarmi.
Correva su per le scale, buttava il cappotto per terra e si metteva a suonare: voleva sentire subito quello che aveva studiato. Poi la bottiglia di champagne sempre pronta in frigorifero. Le conversazioni: lui seduto sul divano o sdraiato sul tappeto, col «<fou rire» irresistibile per le cose buffe che lo facevano ridere come un matto, faccia per terra. Affettuoso, protettivo, poteva diventare improvvisamente tagliente, beffardo quando si scatenava distruggendo persone e giudizi. Intuitivo, leggeva le mie preoccupazioni al primo sguardo; mi spronava a scuotermi, e profetizzava vicende future.
Ci assomigliavamo anche nelle nostre depressioni, di cui tutti noi artisti soffriamo. Ricordo un periodo difficile; dominati ciascuno da proprio assillo, e perciò solidali, eravamo andati una sera in casa di Maurizio Pollini, angosciato lui pure per qualcosa a una mano. Una casa alta, grigia ancora senza mobili poiché la stavano arredando. Ci assestammo sulla moquette, mentre Marilisa preparava una bistecca, apriva un vasetto di caviale. Abbiamo mangiato in cucina senza dire una parola: io funerea, Dino «lontano», Maurizio che articolava continuamente il suo dito, proiettando l'ombra sul muro bianco. Un incubo. Nessuno era in disposizione di far musica. Allora ci mettemmo ad ascoltare dischi: Toscanini, Fischer-Dieskau, e discutendo e partecipando si fecero le quattro di mattina. Qualche volta l'affinità involontaria ci procurava anche coincidenze curiose.
Era un rapporto entusiasmante: lui seguiva me, ed io lui. Faceva viaggi per essere alle mie prime. Capitava all'improvviso, come a Venezia per la Messa di Donizetti alla Fenice: calò all'ultimo momento dalla montagna, deciso a tornare subito. Si fermò dopo il concerto con me e Luchino Visconti, Nora Ricci e pochi amici, in una serata dove eravamo tutti trasfigurati dall'emozione. E rimase il giorno dopo, per rivedere Torcello e la laguna in stato di grazia.
Mi ammirava molto, si divertiva ai miei estri musicali ed era estremamente fazioso come spettatore: ridendo diceva «Anche quando sarai vecchia, con un filo di voce, sarai sempre la più brava».
Anch'io in quel periodo ero attratta in una vita musicale intensissima, non solo operistica. Facevo la spola con Torino quando in un ciclo Beethoven ne eseguì tutte le sonate. E ogni volta si finiva a tavola, dove gli piaceva chiacchierare a lungo con tutti gli amici.
Seguivo la preparazione, le prove dei concerti; ricordo lui e Claudio Abbado nel salone di Ranco suonare su due pianoforti il Concerto di Prokofiev che avrebbero poi eseguito alla Scala. I Concerti di Mozart, al Nuovo, con Gavazzeni; il ritorno da una prova coi due talmente infervorati nel discorso musicale che in via Manzoni entrarono nel negozio di pianoforti Furcht e suonarono a due tutto il concerto, mentre io giravo le pagine.
Ci lasciammo tentare dall'esperienza pionieristica del Teatro Quartiere, partecipando a un ciclo di serate organizzate da Lorenzo Arruga sotto il Tendone di Gratosoglio. Dino suonò Chopin, ed ebbe il coraggio di spiegare, coi suoi occhi chiari, che si trattava di musica non popolare, per ragioni di studio severo ed accostamento. Fu applauditissimo. Io portavo una serie di «regine» del melodramma, e il Coro della Scala doveva introdurre il riferimento al «popolo». Il Coro non venne, e cantai sola per tutta la serata.
Anche i concerti da camera che da qualche tempo ho in repertorio li devo a Dino, al nostro leggere musica insieme. Il primo concerto era programmato con lui, dovevamo cominciare a studiarlo proprio quando è successa la disgrazia. La prima volta che lo eseguii, a Bisanzio, nella Basilica di Sant'Irene, glielo dedicai. E fu un ritrovamento irripetibile. Lì, dentro la chiesa, in quella luce dorata, col volo lieve dei colombi dalle finestre altissime della cupola, sentivo il suo spirito, quasi una protezione, mentre la mia voce dava anima e colore ai «suoi» autori: Liszt, Chopin, Schumann, Bellini, Donizetti. Aveva una forza umana straordinaria di riunire tutti gli amici, a Ranco nella villa ospitalissima, e poi a Roma. E volontà di unirsi ad essi, portando calore, animazione dovunque un'occasione li facesse convergere. Ci siamo accorti, dopo la sua morte, quanto egli fosse elemento legante tra artisti di varie età, personaggi affiatatissimi, ma che ora il ritmo dei destini tende sempre più a disperdere.
Ricordo un fine dicembre, a Venezia. C'era alla Fenice, una conferenza di Riccardo Bacchelli con lettura emozionante di sue poesie, e Dino era sceso dalla montagna per stare con gli amici fidi, dalle conversazioni illuminanti: Gavazzeni, Alberto Mondadori, i Bacchelli appunto. Una sera, a mezzanotte, non contenti di un pranzo al Ristorante del Giglio, con conversazione interminabile, eravamo an- dati tutti, sotto la pioggia, in casa di Wally Toscanini a sentire dischi del Maestro. Analisi, confronti, discussioni espertissime, e a un certo punto, ascoltando la famosa Traviata, ci scoprimmo tutti commossi. Non si stancava di entusiasmi. Se una cosa lo interessava diventava inflessibile. Un pomeriggio, la vigilia di partire per l'America, aveva ripassato tutto l'Attila in una lezione a casa mia; anche Nina Vinchi ch'era venuta a trovarmi s'era fermata alla «prova». Improvvisamente Dino mi mandò a prendere con lo spartito. Ero esausta, ma non ho resistito al richiamo. Ranco, dopo una cena favolosa, cantammo di nuovo tutta l'opera. Ed ora mi rammarico perché proprio per colpa mia non è rimasta una traccia di quella serata, del suo fervore operistico. Purtroppo avevo intimato al comune amico che mi prelevò: «Se tu porti l'apparecchio per registrare, io non vengo». Tante serate con Abbado, Pollini, Dino. E tanti nastri che non ci sono.
Una sera, a Venezia, la tragica notizia. Corsi subito a Roma, disper ta. Con la sua morte si è spento qualcosa dentro di me, quella zona di interesse, di luce, di entusiasmo che trovavo carica nel suo sorridente entusiasmo vitale.
Leyla Gencer
Gae Aulenti e Luca Ronconi nel 1985 (© C. D. Bernardi, foto da «Oltre il
foyer») |
«Oltre il foyer», a cura di Giorgio Vitali e Carlo Rizzi (Amici della Scala-Grafiche Step Editrice, pp. 223, euro 35)
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In quegli anni anche alla...
* Ex sovrintendente della Scala
La passione Francesco Saverio Borrelli alla Scala. Il funerale sarà alle 14,45 di domani nella chiesa di Santa Croce in via Sidoli
In quegli anni anche alla Scala era lui la star
Nel foyer della Scala, negli austeri 7 dicembre degli anni di Tangentopoli, i flash erano soprattutto per lui, vera star della serata: il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli. Non sono sicuro che questa " manifestazione d'interesse" gli fosse particolarmente gradita. Infatti, non era lì per presenzialismo, ma per un vero e proprio amore per la musica. Buon pianista, appassionato d'opera, non si perdeva uno spettacolo. Veniva accompagnato dalla moglie Maria Laura, e occupava sempre gli stessi posti nella fila O, un po' defilati verso la parete destra. Non di rado chiedeva molto discretamente di poter assistere a qualche prova del Maestro Muti ed io, quale sovrintendente, acconsentivo di buon grado perché per noi non contava tanto la figura, il ruolo pubblico, quanto il musicofilo. La sua fu sempre una presenza in punta di piedi, molto rispettosa del lavoro che si svolgeva in teatro.
Che, d'altra parte, la sua fosse passione autentica ho avuto modo di constatarlo più volte in alcune belle serate trascorse in casa del presidente di corte d'Appello Renato Caccamo, imprescindibile frequentatore di ogni manifestazione musicale scaligera e non. Quelle e riunioni conviviali avevano sempre un'indiscussa regina: Leyla Gencer, grande artista dei tempi d'oro della lirica e fedele amica della Scala. In quegli incontri la primadonna e Borelli parlavano solo di musica, delle diverse interpretazioni dei più famosi artisti del canto e della tastiera. Lui ascoltava soprattutto, e i suoi interventi erano sempre molto cauti. Nei suoi anni di direzione artistica scaligera, a volte, si aggiungeva Roman Vlad, cognato di Borrelli. E le ore scorrevano veloci tra ricordi e notazioni critiche. Un mondo che ormai è irrimediabilmente consegnato alla storia. Una curiosità: in quelle frequentazioni non si parlò mai di " attualità", del terremoto che aveva sconvolto Milano e l'Italia. L'argomento non veniva toccato, non per discrezione o per mancanza di interesse rispetto a quello che stava succedendo, ma perché la materia di conversazione era sempre e solo artistica.
Borrelli era certamente un grande ammiratore di Riccardo Muti: ne apprezzava il rigore, la fedeltà alla pagina scritta, la capacità di ottenere dagli esecutori, orchestra e coro in primis, i risultati migliori. Si coglieva perfettamente che gli apprezzamenti che rivolgeva al maestro quando andava a trovarlo in camerino alla fine dello spettacolo erano sinceri, e che in quella Scala culturalmente severa degli anni Novanta si riconosceva del tutto.
Quando la Scala si trasferì agli Arcimboldi durante i lavori di ristrutturazione, Borelli non abbandonò il teatro e, anzi, fu protagonista di un episodio che poteva anche avere tragiche conseguenze. In una delle prime repliche del Ballo Excelsior, spettacolo che seguì la Traviata scelta nel gennaio 2002 per inaugurare il nuovo spazio alla Bicocca, dalla parete improvvisamente si staccò un pannello di vetro di notevoli dimensioni che l'architetto Vittorio Gregotti aveva voluto installare ai due lati della sala per ragioni di carattere acustico. La posizione consueta di Borelli sulle poltrone laterali lo espose al rischio della caduta a poca distanza. Nessuno spavento, anzi, la sua reazione fu tra lo scherzoso e il divertito.
Conclusa la mia esperienza scaligera, non cessai comunque di incontrarlo, in particolare ai concerti del Conservatorio, dove era diventato presidente, incarico che aveva abbracciato con grande entusiasmo pur non nascondendosi le difficoltà burocratico/gestionali che quel ruolo comportava. Ma su tutto in Borelli prevaleva la passione per la musica. Tanto è vero che, a costo di sembrare irriverente, penso che il suo desiderio più profondo fosse quello di essere un musicista di professione.
La passione Francesco Saverio Borrelli alla Scala. Il funerale sarà alle 14,45 di domani nella chiesa di Santa Croce in via Sidoli
IL MESSAGGERO
NEI PALCHI DELLA SCALA "STORIE MILANESI"
GRAPHIC PROJECT: Emilio Fioravanti
VIDEOS: Francesca Molteni
PROJECT FOR Fondazione Teatro alla Scala at Museo Teatrale alla Scala, Milan, 2019
VIDEO PRODUCTION: Muse Factory of Projects
Director: Francesca Molteni
Production: Muse Factory of Projects
Text by: Mattia Palma
Cinematographer: Alvise Tedesco
Editing: Anna Pastorelli
Executive producer: Claudia Adragna
Year: 2019
New York JFK Airport, TWA Terminal, 11.04.1973 |
Turkey has raised many modern artists, who have been known to international audiences. Thanks to the transnational nature of modernity, Turks have had the opportunity to participate in art communities abroad. However, in the classical arts, the number of Turks joining the international community is much lower. Leyla Gencer, the dramatic soprano of Italian operas, was one of the few Turkish-born artists working and gaining a reputation abroad.
Family of talent
Leyla Gencer was born on Oct. 10, 1928, to Turkish-Polish parents in Polonezköy, a Polish village in Istanbul. Her father İbrahim Bey, who took Çeyrekgil as a surname after the Surname Act in 1934, was originally coming from the Hasanzade family, a notable Muslim family from Safranbolu, Karabük province in the western Black Sea region. Her mother Alexandra Angela Minakovska, who descended from a Polish family, converted to Islam and took Atiye as her new name after marrying Gencer’s father. Gencer in an interview once referred to her origins as “Muslim and oriental.”
Among Leyla Gencer’s relatives, was Cemil İpekçi, the fashion designer. İpekçi’s mother Sahire was from the Çeyrekgil family in Safranbolu as is Gencer’s father. İlham Gencer, the musician, was the uncle of Gencer’s husband.
The Çeyrekgils were an upper-middle class family thanks to the father’s various businesses such as fishing, farming, transportation, theater house management and water management. Unfortunately, Gencer lost her father very young.
Liceo Italiano and beyond
Gencer enrolled at the Liceo Italiano di Istanbul (Italian High School in Istanbul), a private school receiving financial support and teachers from Italy. The school has raised many notable musicians such as Jaklin Çarkçı, a mezzo-soprano, Zeynep Casalini, a popular singer, and Kudsi Erguner, an international Mawlawi musician.
Gencer initially started her voice training at Istanbul State Conservatory, where she studied with the famous maestro Muhittin Sadak and the composer Cemal Reşit Rey. After a while, she had the opportunity to study with the famous Italian dramatic soprano Giannina Arangi-Lombardi, who helped to give her a base to grasp the essence of Italian opera traditions. She later studied with Italian baritone Apollo Granforte.
According to Stefan Zucker, who interviewed Gencer and wrote a short biographical essay on her, the artist was pulled out of the Liceo Italiano because she fell in love with an older man, a 34-year-old architect. Yet, Leyla married İbrahim Gencer, a rich banker in 1946, who eventually predeceased her.
Gencer worked for the State Opera and Ballet until she moved to Italy in 1953. For her opera debut, she played Santuzza in Mascagni’s "Cavalleria Rusticana" opera, which she performed in Naples. Her success in singing the classical Italian opera songs and her lyrical voice helped her to become a public representative for Turkey. She performed before several foreign leaders, including two U.S. presidents, namely Dwight Eisenhower and Harry Truman; Shah Reza Pahlavi and Princess Soraya of Iran and Tito of Yugoslavia.
Turkish soprano Leyla Gencer performed at the famous La Scala opera house in Italy for the first time in 1957.
Living and singing in Italy
Gencer sang Santuzza in "Cavalleria Rusticana" in Naples, which opened the Italian door to her for the rest of her life. She made her La Scala opera house debut in 1957, as Madame Lidoine in the world premiere of Francis Poulenc’s "Dialogues of Carmelites." Gencer’s U.S. debut was at the San Francisco Opera House in 1956, in the title role in Ricordo Zandonai’s "Francesca da Rimini."
Gencer found early success in verismo roles including Madame Butterfly, Tosca and Francesca da Rimini. After La Scala, she sang the title role in "La Traviata" at the Vienna Statsoper, under Herbert von Karajan.
Gencer sang a wide-ranging repertoire throughout her career. She performed in operas from numerous composers including Monteverdi, Gluck, Mozart, Verdi, Ponchielli, Puccini and others. She sang every soprano role at Verdi operas. She became famous, however, especially for bel canto performances in less-known operas by Donizetti, Bellini and Pacini.
It’s unfortunate that Gencer couldn’t make a contract with a major record company, which prevented her performances from being heard by the masses. So, she couldn’t seize fame as great as Maria Callas' or Renata Tebaldi's. Besides, the Anglo-Saxon ears always criticized her performances as being “erratic.” On the other hand, bootleg recordings carried her voice throughout the globe, which earned her the nickname “La Diva Pirata” (the Pirate Queen).
Gencer’s career was mostly in Italy as she was a familiar part of the Italian opera community. She sang for over 30 years mainly on Italian stages. She retired from the opera stage in 1985; however, she continued singing until 1992. She worked as the artistic director of La Scala for years. She also was the chairman of the board of trustees for the Istanbul Culture and Arts Foundation. She received the first Donizetti Prize awarded by the city of Bergamo, Italy, in 1987. In 1995, a voice competition was established in her name in Istanbul.
Leyla Gencer died of heart failure at her house in Milan on May 10, 2008. Her body was cremated after a crowded funeral at La Scala on May 12, and her ashes were thrown over the Bosphorus on May 16 in line with her will.
PROGRAMME BOOKLET TEATRO SAN CARLO, NAPOLI
La storia della vocalità in Occidente è fortemente condizionata dalla storia dell’opera in musica, il tipo di spettacolo più complesso ed affascinante che sia stato concepito. Nonostante l’importanza delle voci che agiscono da protagoniste in questa storia, gli studi sulla vocalità sono stati per molto tempo trascurati dalla musicologia, la disciplina accademica che da quasi due secoli studia tutti gli aspetti della musica, fino almeno alla comparsa di una personalità come Philip Gossett, colui che ha condensato nel libro Dive e maestri la sua vita di studioso impegnato sul campo dell’opera italiana dell’Ottocento in continuo e fruttuoso scambio con gli interpreti: e tuttavia in quel libro la parola Belcanto non compare esplicitamente se non nel glossario finale. Se si chiede che cosa sia il “Belcanto” a un “melomane”, ossia ad un appassionato viscerale di opera e canto fiero di restare un “dilettante” competente ma autodidatta, risponderà con estrema sicurezza che si tratta di una tecnica di canto virtuosistico che caratterizzò un preciso periodo storico, i primi decenni del secolo XIX ed alcuni autori chiave dell’opera italiana, Rossini, Bellini e Donizetti e i loro meno noti contemporanei. Il nostro melomane - il termine è elogiativo e gratificante per chi ne è fregiato - aggiungerà probabilmente delle note tecniche: in quel determinato repertorio i cantanti divennero celebri per l’esecuzione altamente virtuosistica di scale e passaggi rapidi ed omogenei, dalle note gravi alle più acute, con una impressionante agilità nell’ornamentazione con abbellimenti, fioriture e fraseggio (per riassumere questo insieme di risorse tecniche ed espressive è stato coniato il termine di “coloratura”), che rendono le arie così eseguite un terreno impervio su cui costruire una solida tecnica. Se però si consulta un “musicofilo” - altro termine gradito a chi ne è investito in quanto designa persone estremamente colte ed attratte da compositori e repertori in passato poco popolari e da riscoprire, come per esempio la musica barocca o la cameristica si avrà una risposta sorprendente: le stesse caratteristiche del “Belcanto” di primo Ottocento si ritrovano in tutti i compositori e capolavori oggetto di riscoperta moderna del Settecento e addirittura del Seicento. Si potrebbe dunque concludere che - fino all’affermazione di un nuovo modo di cantare legato ad una diversa visione del dramma musicale, imposto dalla metà dell’Ottocento in poi soprattutto attraverso le opere di Verdi e di Wagner - tutta la storia dell’opera in musica europea coincida con l’età del Belcanto (qualche studioso, per distinguerla dal ristretto periodo più amato dai melomani, ha chiamato questa lunga epoca preparatoria “Early Belcanto”). Ed in effetti se volessimo trovare un capostipite di questo stile di canto ornato potremmo identificarlo addirittura in Giulio Caccini, uno dei creatori del melodramma a Firenze nei primi anni del Seicento, che fu il primo a redigere una sorta di manuale tecnico per interpretare le arie del suo tempo (Le nuove musiche) con abbellimenti estremamente virtuosistici che dovevano sottolineare il significato di ogni singola parola. Potremmo perfino andare più indietro nel tempo e nello spazio fino alla Napoli rinascimentale per trovare un analogo sforzo di descrivere in un trattatello in forma di lettera lo stile di canto elegante e reso difficile dalle complesse serie di ornamentazioni che vi erano applicate, già utilizzato alla corte del principe di Salerno Ferrante Sanseverino e pubblicato nel 1562 da Camillo Maffei. Quello che risulta dall’esame dei trattati e delle testimonianze di chi ascoltava con meraviglia e stupore le acrobazie vocali dei cantanti - soprattutto ma non esclusivamente italiani - già nel corso del Seicento e poi per tutto il Settecento, era la loro straordinaria capacità di “incantare” il pubblico (una tipica metafora barocca che univa il canto alla magia dell’illusione teatrale) presentando un vasto campionario di ornamentazioni e tecniche espressive improvvisate che colpivano gli “affetti” degli ascoltatori, ossia ne causavano l’ammirazione commossa. I “segreti” di questa prodigiosa tecnica esecutiva venivano in genere trasmessi da maestro ad allievo, ma a Napoli si crearono le prime scuole pubbliche di musica, i Conservatori, dove gli studenti di canto soprattutto evirati ricevevano una meticolosa preparazione non solo vocale che consentiva loro di dominare la scena europea, pur continuando la pratica di scuole private di eccellenza aperte da grandi maestri (per esempio Porpora a Napoli). Il giovane Wolfgang Mozart, che aveva conosciuto bene la tecnica degli italiani (e di “napoletani”) grazie anche ai suoi precoci viaggi in Italia, nell’ultimo quarto del Settecento divenne una sorta di imbuto o collettore in cui si riassumevano, con incredibile capacità mimetica, tutte le possibilità offerte dalla lunga tradizione operistica italiana di quel secolo. Se da una parte erano esasperate le caratteristiche virtuosistiche che avevano reso i cantanti i protagonisti assoluti dell’opera prima della riforma di Gluck, con Mozart si avvia parallelamente un processo di codificazione formale che sarebbe poi stato compiuto da Rossini pochi decenni più tardi: invece di lasciare agli interpreti la libertà di improvvisare gli abbellimenti della melodia che preferivano, i compositori cominciarono a scrivere per intero tutte le ornamentazioni più virtuosistiche già nella partitura, integrandole dunque nell’azione drammatica. I cantanti dovettero dunque affrontare quel nuovo repertorio con una mutata attenzione per cui i loro virtuosismi canori dovevano risultare come parte della narrazione scenica, un compito estremamente arduo ma che servì a formare generazioni di interpreti ben presto entrati nel mito. Per questo la maggior parte dei melomani considera come “l’età del Belcanto” esclusivamente la prima metà dell’Ottocento, epoca dominata da compositori che ebbero peraltro ruoli di primo piano a Napoli, come Bellini, Rossini e Donizetti (il primo avendo studiato ed esordito come operista al Conservatorio napoletano, gli ultimi due operando a lungo come direttori del Teatro di San Carlo). Ma bisogna ricordare che i contemporanei non usarono mai questa definizione, che cominciò ad essere usata nella seconda metà dell’Ottocento da chi, in piena voga della nuova vocalità legata alla drammaturgia di Verdi e Wagner, rimpiangeva un’epoca di grazia e leggerezze canore ormai passata per sempre. Uno dei primi a utilizzare il termine in senso nostalgico fu proprio Rossini che avrebbe dichiarato: «l’Italia ha perso il suo bel canto» secondo la testimonianza raccolta nel 1858 nella sua casa di Passy da Edmond Michotte. Anche le prime raccolte di arie italiane della generazione passata apparse con quella definizione sembravano offerte per contrastare il dilagare del nuovo “canto drammatico”, per esempio la raccolta Il Bel canto pubblicata col titolo in italiano a Berlino nel 1887 fino al volume La crisi del Bel canto “memoria” storica di un insegnante nostalgico, Vittorio Ricci, apparsa a Firenze nel 1915. Nel frattempo, anche per la straordinaria influenza del trattato di canto di Manuel García, cominciava a radicarsi l’idea che lo studio del repertorio del primo Ottocento (cui si aggiunsero gradualmente le opere di Mozart e pochi altri compositori settecenteschi) costituisse un bagaglio didattico fondamentale per la preparazione tecnica dei cantanti che poi avrebbero affrontato le ardue vocalità dell’opera verista e protonovecentesca. È forse utile a questo punto fare un passo indietro nel tempo: per capire meglio come erano utilizzate le voci al tempo di Mozart e poi dei grandi compositori del Belcanto del primo Ottocento, dobbiamo ricordare che per tutta l’età barocca si erano avute delle continue oscillazioni di gusto derivanti da vere e proprie mode vocali: rispetto alle quattro voci “naturali” della donna e dell’uomo, soprano-contralto-tenore-basso (dalla più acuta alla più grave), il tenore, che al tempo di Caccini era una delle voci preferite, era quasi scomparso in Italia dai ruoli protagonistici per riapparire sporadicamente solo dalla seconda metà del Settecento per influenza dell’opera francese. Al suo posto i ruoli degli eroi giovani o di natura non umana erano ricoperti dai castrati, voci non naturali di soprano e di contralto che suonavano come voci infantili rese potenti e agili da studi ed esercizi approfonditi che duravano anni e in casse toraciche poderose. Le voci femminili restarono tuttavia sempre attive in quegli stessi registri, soprattutto in contesti scenici che richiedevano la componente femminile, come le onnipresenti trame amorose. La voce naturale maschile più grave, il basso, dopo uno sviluppo virtuosistico notevole nel Seicento, fu limitata a sottolineare la gravità dei personaggi più nobili e anziani, anche se negli anni di Mozart aveva ripreso uno spazio notevole, come del resto ormai il tenore. L’Ottocento si apre con una graduale sostituzione delle voci dei castrati (ancora usate nelle prime opere serie da Rossini) con gli analoghi femminili, che però usavano spesso il travestimento (donne che impersonavano uomini, come si diceva “en-travesti”) in ossequio alla tradizione precedente. Furono molto più valorizzate inoltre le voci intermedie, individuate già secoli prima ma di uso occasionale: il mezzosoprano, a metà tra il soprano e il contralto, e il baritono, tra il tenore e il basso. Il compositore, oltre a queste variegate soluzioni timbriche, aveva a disposizione una smisurata tavolozza di possibilità diverse nel comporre un’aria, ossia la parte lirica del dramma in cui il cantante poteva esprimere i sentimenti più intimi e, ovviamente, la sua bravura: esistevano per esempio arie di sortita, di bravura, di sdegno o ira, di battaglia, e anche la loro forma si allargò a dismisura cominciando a prevedere, oltre al classico “da capo” (la ripetizione della prima parte di un’aria di solito bipartita, che consentiva di improvvisare ogni sorta di virtuosi abbellimenti), una più complessa struttura costituita da una introduzione (la scena, in recitativo) e varie evoluzioni interne (la cavatina, il cantabile, e nel finale la cabaletta), il tutto applicato sia a solisti che nei frequenti duetti. Forme particolari di scena, molto in voga dal Settecento e poi per tutto il Romanticismo furono, per esempio, la scena del Sonno, la scena di Prigione, oppure la scena di Follia (l’esempio più celebre di quest’ultima è la Follia della Lucia di Lammermoor di Donizetti). Tantissimi cantanti divennero durante il periodo d’oro del Belcanto beniamini del pubblico creando le prime forme di divismo che poi caratterizzerà il mondo dell’opera novecentesca, nomi che ancora oggi evocano atmosfere sognanti e magiche per i melomani più colti: per citarne soltanto alcuni, basti ricordare Giuditta Pasta, Isabella Colbran, Maria Malibran, figlia insieme a Pauline Viardot di quel Manuel García celebrato per il già ricordato trattato di canto, e voci maschili acclamate, come i napoletani Giovanni David e Luigi Lablache, rispettivamente tenore e basso. Come già era successo fin dalle origini del melodramma italiano, dobbiamo pensare che anche per questi e tanti altri virtuosi i grandi compositori del primo Ottocento scrivevano arie appositamente concepite per la loro specifica vocalità, un rapporto simbiotico tra pensiero e azione che giustifica la mitizzazione di un’epoca aurea che sembrava sparita per sempre.
Invece intorno alla metà del Novecento successe qualcosa di inaspettato: nacque la cosiddetta “Belcanto Renaissance”, ossia cominciarono ad essere proposte sempre più coraggiosamente versioni “ripulite” delle opere del primo Ottocento che erano rimaste in repertorio ma a prezzo di una modernizzazione impietosa. Tra i pionieri che cominciarono a proporre con straordinario intuito interpretazioni più fedeli alla scrittura originale, allora giudicata quasi ineseguibile, si distinse presto Maria Callas (con Armida di Rossini a Firenze nel 1952), e poi Teresa Berganza che anticipò con un’incisione del 1964 quella riscoperta del Barbiere di Siviglia consacrata poi dall’edizione critica di Zedda interpretata da Abbado nel 1971 e divenuta il riferimento del Belcanto nel genere comico. Per il Rossini serio fu invece l’allestimento di Assedio di Corinto alla Scala nel 1969 a far scoprire i talenti belcantistici di Marilyn Horne che si unì ai nomi di Joan Sutherland, Beverly Sills, Leyla Gencer, Montserrat Caballé e tanti altri eccezionali interpreti, tra cui cominciarono a comparire anche adeguati tenori e bassi, indispensabili per la riproposizione “filologica” delle opere del passato. Dopo la “Rossini Renaissance” (stabilizzata con la creazione del Rossini Opera Festival e della Fondazione Rossini a Pesaro) si sviluppò a catena anche una “Donizetti Renaissance” che tuttora vede nel Festival Donizetti di Bergamo il suo polo di irradiazione principale, ed anche una riscoperta di Vincenzo Bellini con la Fondazione dedicata al musicista nella nativa Catania. Caratteristica di queste riscoperte dei massimi autori del Belcanto italiano della prima metà dell’Ottocento è l’aver associato, accanto alle riesecuzioni storiche di opere rimaste in repertorio e poi sempre più spesso di titoli sconosciuti o dimenticati, la creazione di centri di ricerca e studio incaricati di preparare edizioni critiche attendibili. Il futuro del Belcanto, infatti, è affidato sempre di più al dialogo tra interpreti in possesso di una preparazione tecnica d’eccellenza, direttori musicali sensibili e colti, e musicologi in grado di condividere i risultati della ricerca specialistica internazionale su un repertorio ormai considerato uno scrigno colmo di gioielli ancora in parte da riscoprire e far brillare. Concludiamo con una curiosità: nel 2018 è stato prodotto il film Bel Canto del regista Paul Weitz, tratto dall’omonimo romanzo pubblicato nel 2001 da Ann Patchett, best-seller negli Stati Uniti. La trama però non ha molto a che fare con la nostra storia: una cantante lirica americana (Julianne Moore) invitata ad esibirsi per un ricco melomane giapponese in un paese sudamericano governato da un dittatore, è catturata da un gruppo di guerriglieri antigovernativi e in questa trama - a parte la magnifica voce autentica della cantante Renée Fleming, peraltro amica della scrittrice del romanzo - non resta ovviamente molto spazio per un canto fiorito, ricco di grazie e abbellimenti, che possa giustificare il titolo, almeno secondo quanto abbiamo raccontato in queste pagine.
Nota bibliografica
Oltre alle voci di enciclopedia “Belcanto” (Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, a cura di Alberto Basso, Torino, Utet, 1983, Lessico, vol. I; The New Grove Dictionary of Music and Musicians, Londra, MacMillan, 2001, vol. 3, p. 161, leggibile online), forniamo di seguito, in ordine cronologico, i titoli più importanti per il dibattito critico e per la storia del termine: Manuel García [Padre], Trattato completo dell’arte del canto, a cura di “Emanuele García Figlio”, Milano, Ricordi, 1842; Vittorio Ricci, La crisi del Bel Canto, Firenze, Galletti & Cocci, 1915; Id. Il Bel Canto, florilegio di pensieri, consigli e precetti sul canto tratti dalle opere di scrittori antichi e moderni, Milano, Hoepli, 1923; Herman Klein, The Bel Canto, with particular reference to the singing of Mozart, Londra, Oxford University Press, 1923; Andrea Della Corte, Canto e bel canto, Torino, Paravia, 1934; Armand Machabey, Le Bel Canto, Parigi, Larousse, 1948 (prima ed. Parigi, 1928); Philip A. Duey, Bel Canto in its golden age, New York, King’s Crown Press, 1951; Rachele Maragliano Mori, I maestri del bel canto, Roma, De Santis, 1953; Olivier Merlin, Le Bel Canto, Parigi, René Julliard, 1961; Mathilde Marchesi, Bel Canto: A Theoretical and Practical Vocal Method, New York, Dover, 1970; Erna Brand-Seltei, Belcanto; eine Kulturgeschichte der Gesangskunst, Wilhelmshaven, Heinrichshofen, 1972; Rodolfo Celletti, Storia del Belcanto, Fiesole, Discanto, 1983; Charles Osborne, The Bel Canto Operas of Rossini, Donizetti and Bellini, Londra, Amadeus Press, 1994; James A. Stark, Bel Canto. A History of Vocal Pedagogy, Toronto, University of Toronto Press, 1999; Antonio Juvarra, I segreti del belcanto. Storia delle tecniche e dei metodi vocali dal ’700 ai nostri giorni, Milano, Curci, 2006; Philip Gossett, Divas and Scholars, University of Chicago Press, 2006 (trad. it.: Dive e maestri. L’opera italiana messa in scena, Milano, Il Saggiatore, 2009); David Cowart, The Aim Was Song: Ann Patchett’s Bel Canto, in The Tribe of Pyn: Literary Generations in the Postmodern Period, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2015, pp. 124-145. Naturalmente il contributo alla storia del Belcanto e della Belcanto Renaissance può essere seguito attraverso la sterminata bibliografia sui singoli compositori che abbiamo più volte ricordato, da Mozart al giovane Verdi, comprese le imprese editoriali delle fondazioni intitolate a Rossini, Donizetti e Bellini, ma anche attraverso biografie e studi su singoli cantanti: un caso per tutti, il capolavoro di Sergio Ragni, Isabella Colbran Rossini, Varese, Zecchini, 2012, 2 voll.
1928 – 2008
2021 Il mio pensiero per te • La vita e l’arte di Ettore Bastianini nelle Lettere a Manuela Bianchi Porro
CANTAGALLI FRANCHINI / LOPANE - Il mio pensiero per te • La vita e l’arte di Ettore Bastianini nelle Lettere a Manuela Bianchi Porro
LUISELLA FRANCHINI / VALERIO LOPANE - Il mio pensiero per te • La vita e l’arte di Ettore Bastianini nelle Lettere a Manuela Bianchi Porro
Viene per la prima volta pubblicata nella sua integralità la corrispondenza fra Ettore Bastianini e Manuela Bianchi Porro, da lei donata alla Biblioteca Musicale Gaetano Donizetti di Bergamo. Mutuando il titolo d’un film di Michelangelo Antonioni, quella che da tal carteggio sortisce è realmente La cronaca di un amore.«Mettimi come sigillo sul tuo cuore come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l'amore, tenace come il fuoco la passione, [...] le grandi acque non possono spegnere l'amore, né i grandi fiumi travolgerlo» (Cantico dei cantici 2, 8 ss.). Crediamo sia questo il significato, per Manuela Bianchi Porro, dell'aver conservato la sua corrispondenza con Ettore Bastianini, dell'averla posta a futura memoria in una biblioteca, di averne consentito ora una pubblicazione giustamente priva d'ogni omissis.
“Sento tanto questa lontananza che ci separa, ti penso sempre e penso che un giorno sarai a me vicina sempre. La irrequietezza di Bastianini sei solo tu riuscita (quasi) a domarla.” Ettore Bastianini.
"La sua voce generosa, prorompente, sgorgava con naturalezza e con la voce, senza bisogno del gesto, esprimeva tutto il senso del melodramma. Voce di baritono profondo che andava verso il basso, con ricchezze timbriche uniche, dava un piacere fisico all'ascolto. Nella sua linea di canto non c'era sbavatura o errore stilistico; aveva toni gravi, con dentro armonici così ricchi, che sembrava la tastiera d'un organo." Leyla Gencer
Copertina flessibile, 192 pagine
Disponibile online dasabato 27 alle 10 sulle piattaforme Spotify, Spreaker e Apple Podcast.
È Sergio Ragni il protagonista del quinto episodio di “Voci di MeMUS” la prima serie di Podcast del Teatro di San Carlo disponibile da domani sabato 26 febbraio a partire dalle ore 10.00 sulle piattaforme Spotify, Spreaker e Apple Podcast.
Quello di Ragni, studioso di Rossini e dell'opera dell'Ottocento, è il racconto sonoro del vissuto di uno spettatore, di un ascoltatore attento ed esigente che rievoca e ripropone percorsi musicali e artistici, reminiscenze del Teatro di San Carlo. Memorie sonore e memorie di personalità che hanno lasciato una traccia indelebile nella sua formazione.
Sergio Ragni, rievoca gli albori della sua passione, tutti risalenti alle sue prime esaltanti esperienze come giovanissimo spettatore al San Carlo. Il racconto è accompagnato da estratti di storiche registrazioni di spettacoli del San Carlo.
È possibile riconoscere la voce di Maria Callas e di Gino Bechi nel duetto “Donna chi sei’” dal Nabucco di Giuseppe Verdi diretto nel 1949 da Vittorio Gui, o quella di Virginia Zeani nella Scena della pazzia da Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti (registrazione del 1963) o ancora ascoltare Leyla Gencer interpretare “Non più affanni” in Caterina Cornaro di Donizetti in una registrazione del 1972.
“Voci di MeMUS” (https://www.spreaker.com/show/voci-di-memus-conversazioni-in-rete )è un ciclo di podcast che racconta il dietro le quinte del Lirico napoletano, l’evoluzione del costume e della società che da sempre ruota intorno al Teatro e agli artisti che hanno popolato le sue stagioni.
Un’apertura virtuale, un racconto “interattivo” fatto da collezionisti privati e personaggi che hanno vissuto il Teatro dall’interno, ma anche da rappresentanti di altri musei e di istituzioni.
Si alterneranno “al microfono” nei prossimi appuntamenti: Gabriele Capone, direttore della Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III, Candida Carrino, Direttore dell’Archivio di Stato di Napoli; Paolo Mascilli Migliorini architetto, direttore fino al 2020 del Palazzo Reale di Napoli; Eduardo Nappi, per molti anni responsabile dell’Archivio Storico del Banco di Napoli; Vincenzo Trione, Preside della Facoltà di Arti Università IULM di Milano e Presidente Scuola dei Beni e delle Attività Culturali; Paolo Giulierini, Direttore del MANN.
“Voci di MeMUS”, progetto di narrazione partecipativa a cura di Giovanna Tinaro e Dinko Fabris, è sostenuto dalla Regione Campania UOD 01 “Promozione e Valorizzazione dei Musei e delle Biblioteche”.
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Links from OPERA NEWS Archives related with Leyla Gencer
Pirate Queen Ira Siff is one of the thousands of fans who cherish the recorded performances of Leyla Gencer. Leyla Gencer's legacy ...
... Onstage, a good example would be the incomparable Leyla Gencer, who endured as an important, influential singer despite lack of enthusiasm from recording ...
... Hearing Zucker relate the claims of her colleagues who supposedly eschewed chest, the piercingly intelligent, no-nonsense Turkish diva Leyla Gencer looks at ...
... It is Puccini who remains a man of the people. F. Paul Driscoll. As we were finishing production on this issue, we learned of the death of soprano Leyla Gencer. ...
... She is retired Turkish diva Leyla Gencer, who runs La Scala's school (roughly analagous to the Met's Young Artist program) at Muti's invitation and comes to ...
... cameo appearances. This year's guests included Teresa Berganza, Leyla Gencer, Anna Moffo, Elaine Malbin and Jane Powell. Then there ...
... I was thought to have been unappreciative of the prima donna Leyla Gencer. People were yelling, "How could you say what you said ...
... As the fading queen, Maria Callas achieves a spontaneity and tragic grandeur unmatched by any other soprano. (Leyla Gencer comes closest with the piercing ...
... At the annual autumn gala, Virginia Zeani, Leyla Hencer, Inge Borkh, Jon Vickers, Giorgio Tozzi, Evelyn Lear, Teresa Stratas, Brenda Lewis, Thomas Steward and …
... Freni grew up in the presence of inspiring performers, especially sopranos. (Maria Callas, Renata Tebaldi, Magda Olivero, Leyla Gencer are just the top-of-the ...
... are offstage dramas and onstage triumphs; the political struggles of Galina Vishnevskaya and Maria Guleghina, the austere dignity of Leyla Gencer, the poignant
... She avoided other collisions by not taking the bait from singers such as Leyla Gencer (with whom she became good friends) and Fiorenza Cossotto (protective of ...
... Occasionally you run across a young singer who is obsessed with the history of opera and can tell you what year Leyla Gencer started her decline. ...
... This work has been a vehicle for great sopranos of the bel canto revival – Leyla Gencer, Montserrat Caballé, Joan Sutherland, Beverly Sills and, more recently ...
... Naples, 1955). The tenor made his US debut in 1957, as Alfredo to Leyla Gencer's Violetta at San Francisco Opera. In 1965, Raimondi ...
... And there I was with legends of the opera world - Giangiacomo Guelfi, Leyla Gencer. Even the little parts were [sung by artists] from La Scala. ...
... full-bodied interpretations of "Porgi amor" and "Dove sono"; there were moments when I was reminded of the heat that the great LEYLA GENCER brought to her ...
... Leyla Gencer, Marcella Pobbe, Virginia Zeani and the late Carla Gavazzi are just a few who enjoyed major careers on the Continent, and to this list we can add ...
... a prodigious technique, Olivero did not take part in the bel canto revival of the 1960s and '70s that attracted the other "pirate queen," Leyla Gencer, and a ...
... (As Leyla Gencer aptly said of the I-never-used-chest-school of singers, "They have short memories!") All source information for the tracks on this Myto set ...
... based repertory congenial to his core audience, often featuring important singers overlooked by the Metropolitan, like Magda Olivero, Leyla Gencer and (in an ...
... Some of her contemporaries, such as Maria Callas, Leyla Gencer, Virginia Zeani and Magda Olivero, had far more fiery incisiveness. ...
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... potential to become a major force in the dramatic coloratura repertoire, which was then regaining attention, thanks to the arrival of Callas and Leyla Gencer. ...
... until the second half of the twentieth century, when the role of Mary Stuart attracted the attentions of star singers such as Leyla Gencer, Montserrat Caballé ...
... it wasn't possible for me to sing it. They took [Leyla] Gencer instead. But when it was performed for radio, with Pizzetti conducting ..
... Obituaries Subscribers Only. Peerless diva Leyla Gencer dies at seventy-nine; soprano, Carla Gavazzi; critic Wilfrid Mellers; Opera Quarterly founder Irene Sloan ...
... Excerpts and interviews with Iris Adami Corradetti, Fedora Barbieri, Anita Cerquetti, Gina Cigna, Gigliola Frazzoni, Carla Gavazzi, Leyla Gencer, Magda Olivero ...
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... tragic operas, was a moving experience on May 28 at the Teatro di San Carlo, where it was first staged in 1837 and first revived (with Leyla Gencer in the ...