2 0 1 5
PROGRAMME BOOKLET TEATRO ALLA FENICE DI VENEZIA
Tra Ottocento e Medioevo Chailly guarda al moderno nel trionfo del canto limpido
2 0 1 6
Gianandrea Gavazzeni, rispettoso anarchico sedentario
Il teatro, la Scala, deserto, le poltrone vuote, i buchi scuri dei palchi, aveva un fascino malinconico e misterioso quella mattina di vent’anni fa mentre sul palcoscenico l’orchestra diretta da Riccardo Muti sonava la Marcia funebre dalla terza Sinfonia di Beethoven, l’Eroica, in onore del maestro Gianandrea Gavazzeni. Era morto due giorni prima, il 5 febbraio 1996, e la sua bara, posata nel foyer, sembrava davvero il simbolo non soltanto della fine di un uomo che aveva profondamente amato quel luogo ma anche della fine di un secolo, il tragico Novecento in cui aveva vissuto lasciando il suo segno di grande artista, non conformista, rispettoso degli altri fino allo spasimo.
Anche Toscanini, tanti decenni prima, nel 1957, aveva avuto in morte gli stessi onori. Era stato Victor De Sabata, allora, a dirigere la Marcia funebre. E nel 2014 toccherà a Daniel Barenboim il triste dovere in morte di Claudio Abbado: quella sera di gennaio le porte del teatro erano state spalancate e una folla muta e commossa aveva ascoltato nella piazza il requiem della sua città al maestro indimenticato.
Non poteva che apparire anomalo e persino sovversivo alla società codina del tempo un famoso direttore d’orchestra che si definiva così: «Un anarchico sedentario che non va a gettar bombe, ma che non ha bisogno di leggi, tanto è rispettoso degli altri»; «Uno che detesta gli inquisitori e i linciaggi»; «Uno che sta sempre dalla parte dei perdenti»; «Un uomo di passioni, perché anche lo scetticismo è una passione, lo schermo della delusione»; «Un uomo con l’ossessione dello spirito di libertà e di indipendenza».
Gavazzeni era nato a Bergamo nel 1909. La sua fu una generazione fervida nella storia d’Italia, Bobbio, Leone Ginzburg, Arnaldo Momigliano, Pavese, Vittorini, Dionisotti, Garin. I suoi amici di sempre furono Fedele D’Amico, Massimo Mila, Goffredo Petrassi. La musica, la letteratura e anche la politica furono le sue passioni. Figlio di un deputato del Partito popolare, vicino a De Gasperi, antifascista, ricordava il «discorso dei bivacchi» di Mussolini — aveva 13 anni, studiava al Conservatorio romano di Santa Cecilia — ricordava anche il discorso del 3 gennaio 1925 che aboliva le libertà politiche e instaurava la dittatura. Suo padre, avvocato, aveva dovuto lasciare Bergamo e lavorava in un modesto studio a Milano all’angolo di piazza Fontana. Quegli anni gli pesarono sul cuore per tutta la vita.
Era un musicista colto — non è sempre così — al di là delle opere e dei concerti che aveva diretto. Lettore onnivoro, la sua biblioteca nella grande casa di via di Porta Dipinta, a Bergamo, faceva venire in mente la meravigliosa biblioteca del monastero di Strahov, a Praga. Amava la letteratura, si considerava un figlio di «Solaria», la rivista fiorentina di Carlo Carocci e poi di «Letteratura», di Alessandro Bonsanti. Aveva scritto libri di memoria e di mordente presenza nella «sua» musica, Le campane di Bergamo, Non eseguire Beethoven, La bacchetta magica e, nel 1992, da Einaudi, Il sipario rosso, il diario di un quarto di secolo, dal 1950 al 1976, sul modello di André Gide, una miniera di fatti, di personaggi, i suoi mondi, i teatri — la Scala, Salisburgo, Bayreuth — i camerini, le trattorie, i grandi alberghi di ogni continente, le fanatiche del melodramma, melomani pazze, i tenori e i baritoni di cui non aveva una grande opinione, «strumenti vocali», i soprano di cui, invece, era un ammiratore morbido e indulgente.
Il maestro era scintillante, spiritoso, narratore orale di storie e storielle quando parlava con gli amici e sorrideva con quei maliziosi occhi azzurrini e verdi. Ma nei suoi scritti era sempre attento a non fare pettegolezzi, lui che ne avrebbe potuto riempire enciclopedie. Si considerava un teorico della reticenza e della dissimulazione onesta, oltre che dell’incoerenza.
Direttore d’orchestra nei maggiori teatri del mondo, i grandi maestri, De Sabata, Gui, Karajan, Kleiber, lo consideravano uno di loro. Toscanini era un idolo, l’aveva visto tante volte dirigere e incontrato spesso all’Isolino di San Giovanni sul Lago Maggiore, luogo incantato. Gavazzeni aveva diretto le grandi cantanti, la Simionato, Renata Scotto, Mirella Freni, Leyla Gencer. E la Callas, con quella «voce interna soltanto sua»: l’aveva diretta nell’ Anna Bolena di Donizetti, con Visconti, e nel Ballo in maschera di Verdi, un memorabile 7 dicembre 1957 alla Scala dove aprì una decina di stagioni.
È l’Ottocento il suo secolo. Il grande Verdi, ma anche il giovane Verdi, Puccini della Manon Lescaut e della Tosca, il primo Verismo. Era l’uomo meno retorico della terra, Gavazzeni, odiava «l’estetica delle vette», l’ascetica musicale, la musica vista come strumento di elevazione morale, la religione della musica. Negli ultimi anni si era intristito, amaro. Temeva per le sorti del mondo. La manzoniana Storia della colonna infame era diventata il suo libro prediletto.
DINO CIANI
Dino è sempre presente nella mia giornata. C'è la sua fotografia, sorridente, l'aria un po' assorta, sul mio pianoforte. Ma c'è soprattutto un riferimento continuo del pensiero, una nostalgia di comportamenti: cose non dette perché nessuno più le può capire, entusiasmi non spronati che cedono all'inerzia. Vorrei dare più spazio e tempo a questo ricordo, che mi si chiede ora, di lui, ma come accade troppo spesso il momento pratico di impegni contrasta col desiderio di tempo e concentrazione. Forse anche giustifica l'incapacità di definire sentimenti troppo profondi.Mi limito perciò a fermare alcuni flash del nostro incontro.
L'ho conosciuto dopo una prima di Alceste a Genova, nel '68. Era venuto alla mia recita con De Lullo, regista dello spettacolo, e Romolo Valli, di cui era amico. Dopo la recita eravamo andati a casa di amici con tutta la Compagnia dei Giovani, e lì abbiamo suonato e cantato fino all'alba, lui al pianoforte, con l'entusiasmo che aveva per tutta la musica: operistica, sinfonica, liederistica, contemporanea. Le sue interpretazioni erano profondamente sensibili appunto perché sostenute da una vasta e grande cultura umanistica. Pianista esigentissimo per la propria tecnica, trovava il tempo di essere informato di tutto: pittura, letteratura, politica. Gli interessavano i viaggi, i luoghi, la gente. Tutto questo si percepiva, urgeva sul suo modo di suonare, pur così purificato dal tocco e a volte così incantato... sembrava dovesse vivere tutto assieme, che gli mancasse il tempo. Ed ha vissuto come bruciando le tappe, per morire a poco più di trent'anni.
Leyla Gencer

Gae Aulenti e Luca Ronconi nel 1985 (© C. D. Bernardi, foto da «Oltre il
foyer») |
2 0 1 9
In quegli anni anche alla...
* Ex sovrintendente della Scala
La passione Francesco Saverio Borrelli alla Scala. Il funerale sarà alle 14,45 di domani nella chiesa di Santa Croce in via Sidoli
In quegli anni anche alla Scala era lui la star
Nel foyer della Scala, negli austeri 7 dicembre degli anni di Tangentopoli, i flash erano soprattutto per lui, vera star della serata: il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli. Non sono sicuro che questa " manifestazione d'interesse" gli fosse particolarmente gradita. Infatti, non era lì per presenzialismo, ma per un vero e proprio amore per la musica. Buon pianista, appassionato d'opera, non si perdeva uno spettacolo. Veniva accompagnato dalla moglie Maria Laura, e occupava sempre gli stessi posti nella fila O, un po' defilati verso la parete destra. Non di rado chiedeva molto discretamente di poter assistere a qualche prova del Maestro Muti ed io, quale sovrintendente, acconsentivo di buon grado perché per noi non contava tanto la figura, il ruolo pubblico, quanto il musicofilo. La sua fu sempre una presenza in punta di piedi, molto rispettosa del lavoro che si svolgeva in teatro.
IL MESSAGGERO
NEI PALCHI DELLA SCALA "STORIE MILANESI"
![]() |
GRAPHIC PROJECT: Emilio Fioravanti
VIDEOS: Francesca Molteni
PROJECT FOR Fondazione Teatro alla Scala at Museo Teatrale alla Scala, Milan, 2019
VIDEO PRODUCTION: Muse Factory of Projects
Director: Francesca Molteni
Production: Muse Factory of Projects
Text by: Mattia Palma
Cinematographer: Alvise Tedesco
Editing: Anna Pastorelli
Executive producer: Claudia Adragna
Year: 2019
New York JFK Airport, TWA Terminal, 11.04.1973 |
Family of talent
Leyla Gencer was born on Oct. 10, 1928, to Turkish-Polish parents in Polonezköy, a Polish village in Istanbul. Her father İbrahim Bey, who took Çeyrekgil as a surname after the Surname Act in 1934, was originally coming from the Hasanzade family, a notable Muslim family from Safranbolu, Karabük province in the western Black Sea region. Her mother Alexandra Angela Minakovska, who descended from a Polish family, converted to Islam and took Atiye as her new name after marrying Gencer’s father. Gencer in an interview once referred to her origins as “Muslim and oriental.”
The Çeyrekgils were an upper-middle class family thanks to the father’s various businesses such as fishing, farming, transportation, theater house management and water management. Unfortunately, Gencer lost her father very young.
Liceo Italiano and beyond
Gencer enrolled at the Liceo Italiano di Istanbul (Italian High School in Istanbul), a private school receiving financial support and teachers from Italy. The school has raised many notable musicians such as Jaklin Çarkçı, a mezzo-soprano, Zeynep Casalini, a popular singer, and Kudsi Erguner, an international Mawlawi musician.
According to Stefan Zucker, who interviewed Gencer and wrote a short biographical essay on her, the artist was pulled out of the Liceo Italiano because she fell in love with an older man, a 34-year-old architect. Yet, Leyla married İbrahim Gencer, a rich banker in 1946, who eventually predeceased her.
Gencer worked for the State Opera and Ballet until she moved to Italy in 1953. For her opera debut, she played Santuzza in Mascagni’s "Cavalleria Rusticana" opera, which she performed in Naples. Her success in singing the classical Italian opera songs and her lyrical voice helped her to become a public representative for Turkey. She performed before several foreign leaders, including two U.S. presidents, namely Dwight Eisenhower and Harry Truman; Shah Reza Pahlavi and Princess Soraya of Iran and Tito of Yugoslavia.
Turkish soprano Leyla Gencer performed at the famous La Scala opera house in Italy for the first time in 1957.
Living and singing in Italy
Gencer sang Santuzza in "Cavalleria Rusticana" in Naples, which opened the Italian door to her for the rest of her life. She made her La Scala opera house debut in 1957, as Madame Lidoine in the world premiere of Francis Poulenc’s "Dialogues of Carmelites." Gencer’s U.S. debut was at the San Francisco Opera House in 1956, in the title role in Ricordo Zandonai’s "Francesca da Rimini."
Gencer found early success in verismo roles including Madame Butterfly, Tosca and Francesca da Rimini. After La Scala, she sang the title role in "La Traviata" at the Vienna Statsoper, under Herbert von Karajan.
Gencer sang a wide-ranging repertoire throughout her career. She performed in operas from numerous composers including Monteverdi, Gluck, Mozart, Verdi, Ponchielli, Puccini and others. She sang every soprano role at Verdi operas. She became famous, however, especially for bel canto performances in less-known operas by Donizetti, Bellini and Pacini.
It’s unfortunate that Gencer couldn’t make a contract with a major record company, which prevented her performances from being heard by the masses. So, she couldn’t seize fame as great as Maria Callas' or Renata Tebaldi's. Besides, the Anglo-Saxon ears always criticized her performances as being “erratic.” On the other hand, bootleg recordings carried her voice throughout the globe, which earned her the nickname “La Diva Pirata” (the Pirate Queen).
Gencer’s career was mostly in Italy as she was a familiar part of the Italian opera community. She sang for over 30 years mainly on Italian stages. She retired from the opera stage in 1985; however, she continued singing until 1992. She worked as the artistic director of La Scala for years. She also was the chairman of the board of trustees for the Istanbul Culture and Arts Foundation. She received the first Donizetti Prize awarded by the city of Bergamo, Italy, in 1987. In 1995, a voice competition was established in her name in Istanbul.
Leyla Gencer died of heart failure at her house in Milan on May 10, 2008. Her body was cremated after a crowded funeral at La Scala on May 12, and her ashes were thrown over the Bosphorus on May 16 in line with her will.
PROGRAMME BOOKLET TEATRO SAN CARLO, NAPOLI
La storia della vocalità in Occidente è fortemente condizionata dalla storia dell’opera in musica, il tipo di spettacolo più complesso ed affascinante che sia stato concepito. Nonostante l’importanza delle voci che agiscono da protagoniste in questa storia, gli studi sulla vocalità sono stati per molto tempo trascurati dalla musicologia, la disciplina accademica che da quasi due secoli studia tutti gli aspetti della musica, fino almeno alla comparsa di una personalità come Philip Gossett, colui che ha condensato nel libro Dive e maestri la sua vita di studioso impegnato sul campo dell’opera italiana dell’Ottocento in continuo e fruttuoso scambio con gli interpreti: e tuttavia in quel libro la parola Belcanto non compare esplicitamente se non nel glossario finale. Se si chiede che cosa sia il “Belcanto” a un “melomane”, ossia ad un appassionato viscerale di opera e canto fiero di restare un “dilettante” competente ma autodidatta, risponderà con estrema sicurezza che si tratta di una tecnica di canto virtuosistico che caratterizzò un preciso periodo storico, i primi decenni del secolo XIX ed alcuni autori chiave dell’opera italiana, Rossini, Bellini e Donizetti e i loro meno noti contemporanei. Il nostro melomane - il termine è elogiativo e gratificante per chi ne è fregiato - aggiungerà probabilmente delle note tecniche: in quel determinato repertorio i cantanti divennero celebri per l’esecuzione altamente virtuosistica di scale e passaggi rapidi ed omogenei, dalle note gravi alle più acute, con una impressionante agilità nell’ornamentazione con abbellimenti, fioriture e fraseggio (per riassumere questo insieme di risorse tecniche ed espressive è stato coniato il termine di “coloratura”), che rendono le arie così eseguite un terreno impervio su cui costruire una solida tecnica. Se però si consulta un “musicofilo” - altro termine gradito a chi ne è investito in quanto designa persone estremamente colte ed attratte da compositori e repertori in passato poco popolari e da riscoprire, come per esempio la musica barocca o la cameristica si avrà una risposta sorprendente: le stesse caratteristiche del “Belcanto” di primo Ottocento si ritrovano in tutti i compositori e capolavori oggetto di riscoperta moderna del Settecento e addirittura del Seicento. Si potrebbe dunque concludere che - fino all’affermazione di un nuovo modo di cantare legato ad una diversa visione del dramma musicale, imposto dalla metà dell’Ottocento in poi soprattutto attraverso le opere di Verdi e di Wagner - tutta la storia dell’opera in musica europea coincida con l’età del Belcanto (qualche studioso, per distinguerla dal ristretto periodo più amato dai melomani, ha chiamato questa lunga epoca preparatoria “Early Belcanto”). Ed in effetti se volessimo trovare un capostipite di questo stile di canto ornato potremmo identificarlo addirittura in Giulio Caccini, uno dei creatori del melodramma a Firenze nei primi anni del Seicento, che fu il primo a redigere una sorta di manuale tecnico per interpretare le arie del suo tempo (Le nuove musiche) con abbellimenti estremamente virtuosistici che dovevano sottolineare il significato di ogni singola parola. Potremmo perfino andare più indietro nel tempo e nello spazio fino alla Napoli rinascimentale per trovare un analogo sforzo di descrivere in un trattatello in forma di lettera lo stile di canto elegante e reso difficile dalle complesse serie di ornamentazioni che vi erano applicate, già utilizzato alla corte del principe di Salerno Ferrante Sanseverino e pubblicato nel 1562 da Camillo Maffei. Quello che risulta dall’esame dei trattati e delle testimonianze di chi ascoltava con meraviglia e stupore le acrobazie vocali dei cantanti - soprattutto ma non esclusivamente italiani - già nel corso del Seicento e poi per tutto il Settecento, era la loro straordinaria capacità di “incantare” il pubblico (una tipica metafora barocca che univa il canto alla magia dell’illusione teatrale) presentando un vasto campionario di ornamentazioni e tecniche espressive improvvisate che colpivano gli “affetti” degli ascoltatori, ossia ne causavano l’ammirazione commossa. I “segreti” di questa prodigiosa tecnica esecutiva venivano in genere trasmessi da maestro ad allievo, ma a Napoli si crearono le prime scuole pubbliche di musica, i Conservatori, dove gli studenti di canto soprattutto evirati ricevevano una meticolosa preparazione non solo vocale che consentiva loro di dominare la scena europea, pur continuando la pratica di scuole private di eccellenza aperte da grandi maestri (per esempio Porpora a Napoli). Il giovane Wolfgang Mozart, che aveva conosciuto bene la tecnica degli italiani (e di “napoletani”) grazie anche ai suoi precoci viaggi in Italia, nell’ultimo quarto del Settecento divenne una sorta di imbuto o collettore in cui si riassumevano, con incredibile capacità mimetica, tutte le possibilità offerte dalla lunga tradizione operistica italiana di quel secolo. Se da una parte erano esasperate le caratteristiche virtuosistiche che avevano reso i cantanti i protagonisti assoluti dell’opera prima della riforma di Gluck, con Mozart si avvia parallelamente un processo di codificazione formale che sarebbe poi stato compiuto da Rossini pochi decenni più tardi: invece di lasciare agli interpreti la libertà di improvvisare gli abbellimenti della melodia che preferivano, i compositori cominciarono a scrivere per intero tutte le ornamentazioni più virtuosistiche già nella partitura, integrandole dunque nell’azione drammatica. I cantanti dovettero dunque affrontare quel nuovo repertorio con una mutata attenzione per cui i loro virtuosismi canori dovevano risultare come parte della narrazione scenica, un compito estremamente arduo ma che servì a formare generazioni di interpreti ben presto entrati nel mito. Per questo la maggior parte dei melomani considera come “l’età del Belcanto” esclusivamente la prima metà dell’Ottocento, epoca dominata da compositori che ebbero peraltro ruoli di primo piano a Napoli, come Bellini, Rossini e Donizetti (il primo avendo studiato ed esordito come operista al Conservatorio napoletano, gli ultimi due operando a lungo come direttori del Teatro di San Carlo). Ma bisogna ricordare che i contemporanei non usarono mai questa definizione, che cominciò ad essere usata nella seconda metà dell’Ottocento da chi, in piena voga della nuova vocalità legata alla drammaturgia di Verdi e Wagner, rimpiangeva un’epoca di grazia e leggerezze canore ormai passata per sempre. Uno dei primi a utilizzare il termine in senso nostalgico fu proprio Rossini che avrebbe dichiarato: «l’Italia ha perso il suo bel canto» secondo la testimonianza raccolta nel 1858 nella sua casa di Passy da Edmond Michotte. Anche le prime raccolte di arie italiane della generazione passata apparse con quella definizione sembravano offerte per contrastare il dilagare del nuovo “canto drammatico”, per esempio la raccolta Il Bel canto pubblicata col titolo in italiano a Berlino nel 1887 fino al volume La crisi del Bel canto “memoria” storica di un insegnante nostalgico, Vittorio Ricci, apparsa a Firenze nel 1915. Nel frattempo, anche per la straordinaria influenza del trattato di canto di Manuel García, cominciava a radicarsi l’idea che lo studio del repertorio del primo Ottocento (cui si aggiunsero gradualmente le opere di Mozart e pochi altri compositori settecenteschi) costituisse un bagaglio didattico fondamentale per la preparazione tecnica dei cantanti che poi avrebbero affrontato le ardue vocalità dell’opera verista e protonovecentesca. È forse utile a questo punto fare un passo indietro nel tempo: per capire meglio come erano utilizzate le voci al tempo di Mozart e poi dei grandi compositori del Belcanto del primo Ottocento, dobbiamo ricordare che per tutta l’età barocca si erano avute delle continue oscillazioni di gusto derivanti da vere e proprie mode vocali: rispetto alle quattro voci “naturali” della donna e dell’uomo, soprano-contralto-tenore-basso (dalla più acuta alla più grave), il tenore, che al tempo di Caccini era una delle voci preferite, era quasi scomparso in Italia dai ruoli protagonistici per riapparire sporadicamente solo dalla seconda metà del Settecento per influenza dell’opera francese. Al suo posto i ruoli degli eroi giovani o di natura non umana erano ricoperti dai castrati, voci non naturali di soprano e di contralto che suonavano come voci infantili rese potenti e agili da studi ed esercizi approfonditi che duravano anni e in casse toraciche poderose. Le voci femminili restarono tuttavia sempre attive in quegli stessi registri, soprattutto in contesti scenici che richiedevano la componente femminile, come le onnipresenti trame amorose. La voce naturale maschile più grave, il basso, dopo uno sviluppo virtuosistico notevole nel Seicento, fu limitata a sottolineare la gravità dei personaggi più nobili e anziani, anche se negli anni di Mozart aveva ripreso uno spazio notevole, come del resto ormai il tenore. L’Ottocento si apre con una graduale sostituzione delle voci dei castrati (ancora usate nelle prime opere serie da Rossini) con gli analoghi femminili, che però usavano spesso il travestimento (donne che impersonavano uomini, come si diceva “en-travesti”) in ossequio alla tradizione precedente. Furono molto più valorizzate inoltre le voci intermedie, individuate già secoli prima ma di uso occasionale: il mezzosoprano, a metà tra il soprano e il contralto, e il baritono, tra il tenore e il basso. Il compositore, oltre a queste variegate soluzioni timbriche, aveva a disposizione una smisurata tavolozza di possibilità diverse nel comporre un’aria, ossia la parte lirica del dramma in cui il cantante poteva esprimere i sentimenti più intimi e, ovviamente, la sua bravura: esistevano per esempio arie di sortita, di bravura, di sdegno o ira, di battaglia, e anche la loro forma si allargò a dismisura cominciando a prevedere, oltre al classico “da capo” (la ripetizione della prima parte di un’aria di solito bipartita, che consentiva di improvvisare ogni sorta di virtuosi abbellimenti), una più complessa struttura costituita da una introduzione (la scena, in recitativo) e varie evoluzioni interne (la cavatina, il cantabile, e nel finale la cabaletta), il tutto applicato sia a solisti che nei frequenti duetti. Forme particolari di scena, molto in voga dal Settecento e poi per tutto il Romanticismo furono, per esempio, la scena del Sonno, la scena di Prigione, oppure la scena di Follia (l’esempio più celebre di quest’ultima è la Follia della Lucia di Lammermoor di Donizetti). Tantissimi cantanti divennero durante il periodo d’oro del Belcanto beniamini del pubblico creando le prime forme di divismo che poi caratterizzerà il mondo dell’opera novecentesca, nomi che ancora oggi evocano atmosfere sognanti e magiche per i melomani più colti: per citarne soltanto alcuni, basti ricordare Giuditta Pasta, Isabella Colbran, Maria Malibran, figlia insieme a Pauline Viardot di quel Manuel García celebrato per il già ricordato trattato di canto, e voci maschili acclamate, come i napoletani Giovanni David e Luigi Lablache, rispettivamente tenore e basso. Come già era successo fin dalle origini del melodramma italiano, dobbiamo pensare che anche per questi e tanti altri virtuosi i grandi compositori del primo Ottocento scrivevano arie appositamente concepite per la loro specifica vocalità, un rapporto simbiotico tra pensiero e azione che giustifica la mitizzazione di un’epoca aurea che sembrava sparita per sempre.
Nota bibliografica
Oltre alle voci di enciclopedia “Belcanto” (Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, a cura di Alberto Basso, Torino, Utet, 1983, Lessico, vol. I; The New Grove Dictionary of Music and Musicians, Londra, MacMillan, 2001, vol. 3, p. 161, leggibile online), forniamo di seguito, in ordine cronologico, i titoli più importanti per il dibattito critico e per la storia del termine: Manuel García [Padre], Trattato completo dell’arte del canto, a cura di “Emanuele García Figlio”, Milano, Ricordi, 1842; Vittorio Ricci, La crisi del Bel Canto, Firenze, Galletti & Cocci, 1915; Id. Il Bel Canto, florilegio di pensieri, consigli e precetti sul canto tratti dalle opere di scrittori antichi e moderni, Milano, Hoepli, 1923; Herman Klein, The Bel Canto, with particular reference to the singing of Mozart, Londra, Oxford University Press, 1923; Andrea Della Corte, Canto e bel canto, Torino, Paravia, 1934; Armand Machabey, Le Bel Canto, Parigi, Larousse, 1948 (prima ed. Parigi, 1928); Philip A. Duey, Bel Canto in its golden age, New York, King’s Crown Press, 1951; Rachele Maragliano Mori, I maestri del bel canto, Roma, De Santis, 1953; Olivier Merlin, Le Bel Canto, Parigi, René Julliard, 1961; Mathilde Marchesi, Bel Canto: A Theoretical and Practical Vocal Method, New York, Dover, 1970; Erna Brand-Seltei, Belcanto; eine Kulturgeschichte der Gesangskunst, Wilhelmshaven, Heinrichshofen, 1972; Rodolfo Celletti, Storia del Belcanto, Fiesole, Discanto, 1983; Charles Osborne, The Bel Canto Operas of Rossini, Donizetti and Bellini, Londra, Amadeus Press, 1994; James A. Stark, Bel Canto. A History of Vocal Pedagogy, Toronto, University of Toronto Press, 1999; Antonio Juvarra, I segreti del belcanto. Storia delle tecniche e dei metodi vocali dal ’700 ai nostri giorni, Milano, Curci, 2006; Philip Gossett, Divas and Scholars, University of Chicago Press, 2006 (trad. it.: Dive e maestri. L’opera italiana messa in scena, Milano, Il Saggiatore, 2009); David Cowart, The Aim Was Song: Ann Patchett’s Bel Canto, in The Tribe of Pyn: Literary Generations in the Postmodern Period, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2015, pp. 124-145. Naturalmente il contributo alla storia del Belcanto e della Belcanto Renaissance può essere seguito attraverso la sterminata bibliografia sui singoli compositori che abbiamo più volte ricordato, da Mozart al giovane Verdi, comprese le imprese editoriali delle fondazioni intitolate a Rossini, Donizetti e Bellini, ma anche attraverso biografie e studi su singoli cantanti: un caso per tutti, il capolavoro di Sergio Ragni, Isabella Colbran Rossini, Varese, Zecchini, 2012, 2 voll.
1928 – 2008
2021 Il mio pensiero per te • La vita e l’arte di Ettore Bastianini nelle Lettere a Manuela Bianchi Porro
CANTAGALLI FRANCHINI / LOPANE - Il mio pensiero per te • La vita e l’arte di Ettore Bastianini nelle Lettere a Manuela Bianchi Porro
LUISELLA FRANCHINI / VALERIO LOPANE - Il mio pensiero per te • La vita e l’arte di Ettore Bastianini nelle Lettere a Manuela Bianchi Porro
Viene per la prima volta pubblicata nella sua integralità la corrispondenza fra Ettore Bastianini e Manuela Bianchi Porro, da lei donata alla Biblioteca Musicale Gaetano Donizetti di Bergamo. Mutuando il titolo d’un film di Michelangelo Antonioni, quella che da tal carteggio sortisce è realmente La cronaca di un amore.«Mettimi come sigillo sul tuo cuore come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l'amore, tenace come il fuoco la passione, [...] le grandi acque non possono spegnere l'amore, né i grandi fiumi travolgerlo» (Cantico dei cantici 2, 8 ss.). Crediamo sia questo il significato, per Manuela Bianchi Porro, dell'aver conservato la sua corrispondenza con Ettore Bastianini, dell'averla posta a futura memoria in una biblioteca, di averne consentito ora una pubblicazione giustamente priva d'ogni omissis.
“Sento tanto questa lontananza che ci separa, ti penso sempre e penso che un giorno sarai a me vicina sempre. La irrequietezza di Bastianini sei solo tu riuscita (quasi) a domarla.” Ettore Bastianini.
"La sua voce generosa, prorompente, sgorgava con naturalezza e con la voce, senza bisogno del gesto, esprimeva tutto il senso del melodramma. Voce di baritono profondo che andava verso il basso, con ricchezze timbriche uniche, dava un piacere fisico all'ascolto. Nella sua linea di canto non c'era sbavatura o errore stilistico; aveva toni gravi, con dentro armonici così ricchi, che sembrava la tastiera d'un organo." Leyla Gencer
Copertina flessibile, 192 pagine
Disponibile online dasabato 27 alle 10 sulle piattaforme Spotify, Spreaker e Apple Podcast.
È Sergio Ragni il protagonista del quinto episodio di “Voci di MeMUS” la prima serie di Podcast del Teatro di San Carlo disponibile da domani sabato 26 febbraio a partire dalle ore 10.00 sulle piattaforme Spotify, Spreaker e Apple Podcast.
Quello di Ragni, studioso di Rossini e dell'opera dell'Ottocento, è il racconto sonoro del vissuto di uno spettatore, di un ascoltatore attento ed esigente che rievoca e ripropone percorsi musicali e artistici, reminiscenze del Teatro di San Carlo. Memorie sonore e memorie di personalità che hanno lasciato una traccia indelebile nella sua formazione.
Sergio Ragni, rievoca gli albori della sua passione, tutti risalenti alle sue prime esaltanti esperienze come giovanissimo spettatore al San Carlo. Il racconto è accompagnato da estratti di storiche registrazioni di spettacoli del San Carlo.
È possibile riconoscere la voce di Maria Callas e di Gino Bechi nel duetto “Donna chi sei’” dal Nabucco di Giuseppe Verdi diretto nel 1949 da Vittorio Gui, o quella di Virginia Zeani nella Scena della pazzia da Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti (registrazione del 1963) o ancora ascoltare Leyla Gencer interpretare “Non più affanni” in Caterina Cornaro di Donizetti in una registrazione del 1972.
“Voci di MeMUS” (https://www.spreaker.com/show/voci-di-memus-conversazioni-in-rete )è un ciclo di podcast che racconta il dietro le quinte del Lirico napoletano, l’evoluzione del costume e della società che da sempre ruota intorno al Teatro e agli artisti che hanno popolato le sue stagioni.
Un’apertura virtuale, un racconto “interattivo” fatto da collezionisti privati e personaggi che hanno vissuto il Teatro dall’interno, ma anche da rappresentanti di altri musei e di istituzioni.
Si alterneranno “al microfono” nei prossimi appuntamenti: Gabriele Capone, direttore della Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III, Candida Carrino, Direttore dell’Archivio di Stato di Napoli; Paolo Mascilli Migliorini architetto, direttore fino al 2020 del Palazzo Reale di Napoli; Eduardo Nappi, per molti anni responsabile dell’Archivio Storico del Banco di Napoli; Vincenzo Trione, Preside della Facoltà di Arti Università IULM di Milano e Presidente Scuola dei Beni e delle Attività Culturali; Paolo Giulierini, Direttore del MANN.
“Voci di MeMUS”, progetto di narrazione partecipativa a cura di Giovanna Tinaro e Dinko Fabris, è sostenuto dalla Regione Campania UOD 01 “Promozione e Valorizzazione dei Musei e delle Biblioteche”.
OPERA MAGAZINE
CLASSIC VOICE
OPERA MAGAZINE
OPERA MAGAZINE
LAVANTE EMV
IL SOLE
CORRIERE DELLA SERA
Pirate Queen Ira Siff is one of the thousands of fans who cherish the recorded performances of Leyla Gencer. Leyla Gencer's legacy ...
... Onstage, a good example would be the incomparable Leyla Gencer, who endured as an important, influential singer despite lack of enthusiasm from recording ...
... Hearing Zucker relate the claims of her colleagues who supposedly eschewed chest, the piercingly intelligent, no-nonsense Turkish diva Leyla Gencer looks at ...
... It is Puccini who remains a man of the people. F. Paul Driscoll. As we were finishing production on this issue, we learned of the death of soprano Leyla Gencer. ...
... She is retired Turkish diva Leyla Gencer, who runs La Scala's school (roughly analagous to the Met's Young Artist program) at Muti's invitation and comes to ...
... cameo appearances. This year's guests included Teresa Berganza, Leyla Gencer, Anna Moffo, Elaine Malbin and Jane Powell. Then there ...
... I was thought to have been unappreciative of the prima donna Leyla Gencer. People were yelling, "How could you say what you said ...
... As the fading queen, Maria Callas achieves a spontaneity and tragic grandeur unmatched by any other soprano. (Leyla Gencer comes closest with the piercing ...
... At the annual autumn gala, Virginia Zeani, Leyla Hencer, Inge Borkh, Jon Vickers, Giorgio Tozzi, Evelyn Lear, Teresa Stratas, Brenda Lewis, Thomas Steward and …
... Freni grew up in the presence of inspiring performers, especially sopranos. (Maria Callas, Renata Tebaldi, Magda Olivero, Leyla Gencer are just the top-of-the ...
... are offstage dramas and onstage triumphs; the political struggles of Galina Vishnevskaya and Maria Guleghina, the austere dignity of Leyla Gencer, the poignant
... She avoided other collisions by not taking the bait from singers such as Leyla Gencer (with whom she became good friends) and Fiorenza Cossotto (protective of ...
... Occasionally you run across a young singer who is obsessed with the history of opera and can tell you what year Leyla Gencer started her decline. ...
... This work has been a vehicle for great sopranos of the bel canto revival – Leyla Gencer, Montserrat Caballé, Joan Sutherland, Beverly Sills and, more recently ...
... Naples, 1955). The tenor made his US debut in 1957, as Alfredo to Leyla Gencer's Violetta at San Francisco Opera. In 1965, Raimondi ...
... And there I was with legends of the opera world - Giangiacomo Guelfi, Leyla Gencer. Even the little parts were [sung by artists] from La Scala. ...
... full-bodied interpretations of "Porgi amor" and "Dove sono"; there were moments when I was reminded of the heat that the great LEYLA GENCER brought to her ...
... Leyla Gencer, Marcella Pobbe, Virginia Zeani and the late Carla Gavazzi are just a few who enjoyed major careers on the Continent, and to this list we can add ...
... a prodigious technique, Olivero did not take part in the bel canto revival of the 1960s and '70s that attracted the other "pirate queen," Leyla Gencer, and a ...
... (As Leyla Gencer aptly said of the I-never-used-chest-school of singers, "They have short memories!") All source information for the tracks on this Myto set ...
... based repertory congenial to his core audience, often featuring important singers overlooked by the Metropolitan, like Magda Olivero, Leyla Gencer and (in an ...
... Some of her contemporaries, such as Maria Callas, Leyla Gencer, Virginia Zeani and Magda Olivero, had far more fiery incisiveness. ...
... But I still treasure the diva moments I've witnessed. For me, the number-one spot goes to the great Leyla Gencer. I met her in Istanbul ...
... Singers such as Maria Callas, Tito Gobbi, Leyla Gencer and Richard Tucker were headliners, while more recently young singers such as Elizabeth Futral, Barbara ...
... potential to become a major force in the dramatic coloratura repertoire, which was then regaining attention, thanks to the arrival of Callas and Leyla Gencer. ...
... until the second half of the twentieth century, when the role of Mary Stuart attracted the attentions of star singers such as Leyla Gencer, Montserrat Caballé ...
... it wasn't possible for me to sing it. They took [Leyla] Gencer instead. But when it was performed for radio, with Pizzetti conducting ..
... Obituaries Subscribers Only. Peerless diva Leyla Gencer dies at seventy-nine; soprano, Carla Gavazzi; critic Wilfrid Mellers; Opera Quarterly founder Irene Sloan ...
... Excerpts and interviews with Iris Adami Corradetti, Fedora Barbieri, Anita Cerquetti, Gina Cigna, Gigliola Frazzoni, Carla Gavazzi, Leyla Gencer, Magda Olivero ...
... LF: But were you aware of [Leyla] Gencer or anybody else who had sung it recently?
... tragic operas, was a moving experience on May 28 at the Teatro di San Carlo, where it was first staged in 1837 and first revived (with Leyla Gencer in the ...