LA REPUBBLICA
Grande successo per Muti e per sua protagonista
Chiedeva un nuovo ascolto, Riccardo Muti. Il pubblico
scaligero s' è adeguato di buon grado, visto che la proposta di Alceste aveva
come unità di misura l' eccellenza. Soltanto uno sparuto gruppetto di
"vedovelli" e di loggionisti (o claque?) di un livello che si pensava
felicemente estinto, non ha resistito a tentazioni nostalgiche e non
potendosela prendere con Gluck, s' è scagliato contro alcuni cantanti con
incivile e ingiustificato accanimento. L' attesissima prima di Alceste è così
rimasta un trionfo soltanto annunciato; il resto degli spettatori è rimasto
talmente sorpreso da non aver nemmeno la forza di reagire alle provocazioni.
Cronaca nera a parte, la serata gluckiana alla Scala, giovedì, s' è imposta per
una sbalorditiva tenuta esecutiva e teatrale. Come i responsabili dello
spettacolo avevano anticipato, Alceste, nella primigenia versione viennese del
1767 (quella secondo il libretto italiano di De Calzabigi), è stata finalmente
svelata nella splendente totalità. Nessun taglio, nemmeno nei numeri limitati
all' orchestra e destinati alle (spartane) danze. Eppure mai una musica
dimostrativa e granitica è parsa così naturale e fluida. Muti crede a Alceste,
quasi sorvolando su tutto ciò che di provocatorio questa preziosa partitura si
porta incancellabilmente dietro. Scontata la fedeltà assoluta alla lettera e
condivisa l' impostazione "riformata" d' autore, il direttore ha
interpretato Alceste utilizzando come straordinario denominatore comune la
concisione linguistica. Per quasi tre ore di musica, l' orchestra scaligera,
pur tenuta entro sfumature dinamiche elettrice e cangianti, non ha mai
oltrepassato la soglia del forte dando una prova di concentrazione esecutiva
superlativa, da mettere sullo stesso piano di quella del coro preparato da
Giulio Bertola. Muti sembrava voler dimostrare una volta per tutte come le
novità gluckiane, al di là delle osservate premesse teoriche, fossero compresse
soprattutto nell' originalissima scrittura strumentale, unica a autorizzare il
drenaggio radicale realizzato sul piano della vocalità barocca e della
dispersione teatrale "meravigliosa" legata a quel modo di concepire
l' opera musicale. Una dimostrazione schiacciante. Un punto di partenza
ineludibile, d' ora in poi, per ripensare criticamente e esecutivamente il
significato filosofico e spettacolare di questo autore, a duecento anni dalla
morte ancora soffocato dalle adozioni estetiche di vario segno. Il Gluck di
Orfeo ed Euridice e di Alceste è musica; è strepitoso dominio dei mezzi
orchestrali, armonici, timbrici e sentimentali dell' epoca. Inutile cercare
lontano: la partitura, ricondotta alla squisita analisi stilistica e
espressiva, offre tutte le giustificazioni. Basta lavorarla in profondità come
ha fatto Muti, portando l' orchestra a una temperatura emozionante per docilità
di fraseggi e facoltà di colorare anche i passaggi meno sagaci di recitativo
accompagnato con intenzioni vertiginose. C' è un passo del primo atto, durante
l' ultimo duetto tra Evandro e Alceste, che ha fornito la chiave di
comprensione dell' intera lettura gluckiana di Muti. Già compresa nella
decisione fatale ma ancora confusa Alceste interviene con parole smarrite due
volte: per due volte il recitativo s' innanza con una semplicissima
sottolineatura degli archi mentre la didascalia librettistica annota "come
fuori di sè" e "con maestà e risolutezza": per due attimi che
parevano incontenibili l' orchestra di Muti ha creato in un' arcana tensione la
definizione musicale e umana più lampante della protagonista. Certo, non sono
poi mancate le altre grandi occasioni, in particolare nelle monumentali
"scene" con coro dell' atto seguente: ma l' eroina di Euripide con
pochissime misure era indelebilmente tratteggiata. Tutto è avvenuto al calor
bianco d' una traduzione direttoriale che travalicava il puro dato sonoro,
portando l' attenzione degli spettatori a uno stato di partecipazione quasi
ipnotica, a tratti faticosa da sopportare, come nella superba scena conclusiva
del secondo atto. E qui entrava in gioco l' ammirevole statura interpretativa
di Rosalind Plowright, un' Alceste misurata, quasi impassibile di fronte all'
inevitabile scelta dettata alla missione coniugale, ma calata nel canto con
accenti di commozione autentica e impeccabile definizione vocale. Chi all'
inizio non poteva togliersi dalla memoria i precedenti scaligeri (Maria Callas
nel 1954 e Leyla Gencer nel 1972), è stato costretto a piegarsi alla toccante
definizione della Plowright, che ha saputo trarre vantaggio dalla condotta
interpretativa tendenzialmente distaccata, offrendosi tenerissima e quasi
indifesa di fronte al rituale impietoso delle parti più geniali della tragedia.
Tragedia di configurazione individuale: gli altri personaggi agiscono comunque
da comprimari; da testimoni, come il coro. Anche se Gluck non risparmia
difficoltà vocali e aperture musicali sublimi, tutte ben risolte. William
Matteuzzi (Evandro) e Giuseppe Morino (Admeto) hanno gareggiato tenorilmente
scavando con una dizione eccellente e prestanza adeguata. Di spicco l' Ismene
di Anne Sofie von Otter; Alberto Noli e Ernesto Gavazzi hanno figurato
benissimo, con Aldo Bramante, Giancarlo Boldrini e i due bambini Giuseppe
Imperato e Giuseppe Cogliani. Alla restituzione memorabile di questo Alceste ha
contribuito esemplarmente il lavoro scenico di Pier Luigi Pizzi. Lineare,
neoclassica nell' architettura e nella lattiginosa definizione luminosa, la
scena unica ma flessibile ha rivelato spaziature misteriose e allusive. La
costruzione circolare, labirintica nel movimento delle pareti, trasfigurava la
pura definizione ambientale per fotografare gli smemorati sentimentali della
protagonista con una nettezza d' immagine e di suggestione complementare alla
fluidità inappagata dell' articolazione musicale. Posizioni, gestualità e
movimenti di massa calibratissimi accrescevano la sensazione d' un racconto
teatrale colmo di pathos e soffuso di poesia.
THE STAR LEDGER
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The most disturbing and surprising fact in the music business today is: Very important, famous singers never work in the recording industry. Two of the most striking examples are: Astrid Varnay and Leyla Gencer.
It’s even more astonishing that the record labels turned their backs on Gencer. Yes, Callas overshadowed Gencer, that’s true. But Gencer’s repertoire was much vaster than Callas’ and she sang more roles. Gencer sang Mozart operas and modern pieces; a repertoire that Callas always avoided. And Gencer was so popular that she had more pirate recordings than any artist in the world. Because she sang operas that nobody else sang and she also had a striking voice. She can only be compared to Callas with her uniqueness and her interpretative skills which are sensitive and intense.
As they should have done with Varnay, the main goal of the record labels is to record the operas with the best performer, not to record again and again with singers who shouldn’t even set their foot on the studio!
How could this collaboration and thievery be explained? Some record label owners claim that the mentioned artists are very hard to work with, they never spare time and clear their schedules for recording etc. It might as well be true. But however, I think that the quality of the music, artists and the voices don’t have much efficiency in the recording industry but it’s the publicists, agencies and impresarios who decide and impose which recordings and who we shall listen to.
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