LA PROVA DI UN'OPERA SERIA
Francesco Gnecco (1769 - 1810)
Melodrama in two acts in Italian
Musiche di Domenico Cimarosa, Antonio Vivaldi, Francesco Paisiello, Jean Philippe Rameau
Libretto: Francesco Gnecco
Premièr at Teatro alla Scala, Milan - 1805
Musiche di Domenico Cimarosa, Antonio Vivaldi, Francesco Paisiello, Jean Philippe Rameau
Libretto: Francesco Gnecco
Premièr at Teatro alla Scala, Milan - 1805
12, 15† February 1983
Teatro La Fenice, Venezia
LEYLA GENCER'S LAST STAGE PERFORMANCES
Conductor: John Fisher
Stage director: Pier Luigi Pizzi
Scene and costumes: Carlo Diappi
Corilla prima donna LEYLA GENCER soprano
[Role Debut]
Federico primo tenor LUIGI ALVA tenor
Violante seconda donna PATRIZIA DORDI soprano
Campanone composer FRANCESCO SIGNOR baritone
Don Griletto poet, librettist GIANCARLO
LICCARDI bass
Fastidio impresario n/a tenor
Fischietto copista MARIO BOLOGNESI tenor
Pipetto contadino n/a tenor
Checchina Pipetto’s wife n/a soprano
† Recording date
Photos © ARICI-SMITH, Venezia

IL PICCOLO
RADIOCORRIERE.TV
1983 February 02 - 08

CORRIERE DELLA SERA
COMPLETE RECORDING
1983.02.15
FROM CD BOOKLET
LA PROVA DI UN'OPERA SERIA
GIUSEPPE TINTORI
1 – A Venezia: satira senza una storia
Venezia, 8 luglio 1803: nel Nobile Teatro Grimani, in San Giovanni Grisostomo, si rappresenta una farsa in un atto, parole dell'Abate Giulio Artusi, musica del Maestro genovese Francesco Gnecco: La prima prova dell'Opera Gli Orazi e Curiazi (¹). Personaggi: Fastidio Mazzocca Impresario; Metilde Magretti primo Soprano dell'Opera seria gli «Orazi e Curiazi»; Corilla Tracagnotti prima Donna seria; Petruccio Stendardo primo Tenore serio; Criticone Tarmati Maestro al Cembalo; Fischietto Stecchi Copista.
È il gioco del teatro in teatro: nella naturalezza d'una finta prova arriva poco a poco la compagnia d'opera (Introduzione), coi nomi parodiati secondo una tradizione satirica, i ritard, capricci, pretese di sempre. Fra indugi, commenti e continue interruzioni si comincia a provare: ed è la satira dell'opera seria del momento (quella di Cimarosa, Andreozzi, Zingarelli, Nasolini, Anfossi, Mayr...) poiché Gli Orazi e i Curiazi di Domenico Cimarosa (libretto di Antonio Sografi) ebbero la loro prima rappresentazione appunto a Venezia, alla Fenice, il 26 dicembre 1796, con Giuseppina Grassini e Girolamo Crescentini, e da allora vi s'erano ripetuti con successo nel 1798, 1800, 1802 e nel carnevale di quello stesso 1803. La farsa era quindi una specie di cabaret del tempo, controcanto d'attualità agli spettacoli della Fenice, e a un'opera che proseguiva la sua fortuna sui grandi teatri affidata al binomio ancora settecentesco di prima donna e «primo musico» (la qualifica indicava i castrati) quali il Crescentini o il Velluti. Si prova la Sinfonia, naturalmente rifatta dal Maestro (aria Maestro), si svicola e finalmente comincia il tenore (recitativo ed aria), ma se la prende perché il Coro non c'è, e non vuol più provare (duetto Impresario-tenore). L'arrivo della posta trasforma la prova in un sestetto di chiacchiericcio goldoniano, dove ognuno legge le proprie lettere, e relative confidenze o maldicenze sui teatri. Li chiamano in sartoria, e l'impresario resta solo a meditare (aria Impresario) conti e angustie. Tornano protestando sui costumi: la prima donna sdegnata battibecca con l'impresario (duetto), finalmente si convince a provare la sua scena ed aria drammatica (naturalmente rifatta da un compiacente maestro G... si sussurra), ma la notizia che i primi ballerini sono ammalati e non s'andrà in scena manda prova e impresario a rotoli (Finale).
È un divertimento scorrevole e attuale su un tema antico, poiché la satira dell'opera ricorre nel teatro, musicale di tutto il Settecento, dall'Intermezzo napoletano con la sua funzione teatrale e sociale, alternativa e polemica nei confronti dell'opera seria, all'Opera buffa che sempre più smitizza, esagerandole, situazioni letterarie e musicali del melodramma. Proprio in quegli anni di fine secolo i titoli infittiti registrano il gradimento del pubblico per queste prese in giro sull'opera (quasi ormai una conquistata consapevolezza di aspetti e meccanismi), e condensano tipologie e situazioni d'una lunga tradizione letteraria e musicale che cerca suggerimenti nuovi anche fuori d'Italia (Mayr da una commedia francese di Audinot, La Musicomanie, del 1779...), e che ancora il primo Rossini e il primo Donizetti raccoglieranno:
Venezia 1769 L'Impresa d'opera, di B. Cavalieri, musica di Pietro Guglielmi;
Vienna 1786 Der Schauspieldirektor di G. Stephanie jr., musica di Wolfgang Amadeus Mozart;
Vienna 1786 Prima la musica poi le parole, di G.B. Casti, musica di Antonio Salieri;
Napoli 1796 L'Impresario in angustie, di G.M. Diodati, musica di Domenico Cimarosa;
Napoli 1797-8 Le Cantatrici villane, di G.M. Diodati, musica di Valentino Fioravanti, poi come Le virtuose ridicole, libretto di G.M. Foppa, Venezia 1802;
Venezia 1798 Che originali! ovvero la Musicomania, di G. Rossi, Musica di Simone Mayr;
Venezia 1801 I virtuosi di teatro, di G. Rossi, musica di Simone Mayr;
Roma 1804 Le cantatrici in viaggio di G. Giraud, musica di Orazio Bucelli.
La farsa del Gnecco piace, anche per la naturalezza rapida di dialoghi, entrate, interruzioni che evita i luoghi comuni del «genere». Il Maestro trentaquattrenne, genovese, autore già d'opere rappresentate alla Scala (1793) e alla Fenice (1803), mostra la duttilità d'un «allievo,» di Cimarosa, che ha ascoltato Mozart, e sta guardando avanti: avverte la corsa, se non ancora la dissoluzione delle formule settecentesche; ironizza vivacemente tipi senza ancora dar spazio alla psicologia; scherza sul virtuosismo vocale settecentesco (lui che fu maestro di Paganini) e si presterà alla celebrazione del nuovo virtuosismo dei cantanti del primo Ottocento, proprio con quest'opera che riassume lo spirito della vecchia opera buffa fuori dagli schemi, e l'inventa lì sul momento, senza una storia, sulla fisicità degli artisti che vi si presentano, aperta al gioco dell'improvvisazione e dell'aria di bravura da sostituire all'occasione.
2 – Alla Scala: melodramma con coro
La farsa ha successo e due anni dopo, (Milano 15 agosto 1805) l'autore la presenta alla Scala, con esito «buonissimo» (²). L'ha trasformata, naturalmente, in “melodramma giocoso, in due atti»: La Prova di un'opera seria, con libretto proprio e «musica nuova». Vicende e struttura risultano ingranditi per il grande teatro: agli incontri e scontri dei personaggi in teatro s'aggiunge la baruffa amorosa tra tenore e prima Donna; la scena nuda in palcoscenico, così moderna ai nostri occhi, s'affianca (scene nuove di Pasquale Canna) a una «Sala in casa della prima Donna» e a un'«Amena Campagna», pretesto per una gita dei teatranti con Cori villerecci e scena di tempesta. C'è il Coro che prova l'Ettore in Trebisonda (anche il titolo è parodiato) e sfarfalleggia nella scena campestre con pura funzione ornamentale. In mezzo a tutto ciò i personaggi, coi nomi un po' mutati e l'aggiunta del'Poeta (diventano sette i cantanti richiesti, di cui due eseguono anche la parte dei Contadini nel finale I) prolungano ripicche e capricci in una strutura alterata, entro cui riconosciamo - con diversa sistemazione e ritocchi alcuni pezzi della base veneziana. Ecco i nomi definitivi dei nostri personaggi: Corilla Tortorini, prima Donna per l'opera seria; Federico Mordente, primo Tenore; Violante Pescarelli, seconda Donna; Campanone, Maestro e Compositore della Musica; Don Grilletto Pasticci, Poeta, e Autore del Dramma Serio; Fastidio Frivella, Impresario; Fischietto, Suggeritore, Copista, e Capo de' Coristi; Pipetto e Cecchina, Contadini. La compagnia è ormai, itinerante come la struttura. Il Suggeritore prova in teatro col Coro a tutta orchestra, mentre il Poeta declama versi «sdruccioli» appena composti (Introduzione Allegro - Andante - Allegro) (³) 1 ed è la parodia dello stile tragico e l'uso umoristico dello strumentale. Ma a mezzogiorno c'è prova a casa della prima Donna che appare intonando un duetto col tenore (Andante Sostenuto, Allegro Moderato: Ah! tu sol, tiranno amore) di sospiri e gelosie: arrivan tutti e finalmente si presenta il Maestro (Cavatina, Allegro) e si comincia solennemente a provare (Settimino Maestoso sostenuto, Andante Largo, Allegro: Vincer tu speri invano) finché per uno di quei puntigli che si chiamavano le «convenienze», quasi s'azzuffano e abbandonano la prova. Resta Violante a cantare una sua aria. Rientrano gli «innamorati» e il tenore canta un'aria d'affetti (Larghetto, Allegro: Cara fiamma del cor mio). Corilla resta pensosa al cembalo a legger musica, torna il Maestro e battibeccano sulle pretese (duetto Allegro, Andante con moto: - Ardireste? - No, no: non ardirei;) si minacciano, seducono, escono infuriati. Il Poeta, solo, canta la sua filosofia accomodante (Aria Allegro: La signora prima Donna/vuol nell'aria il pertichino;); torna con la prima Donna conciliante: ecco come vorrebbe l'aria del prim'atto, e ne dà un saggio accompagnata dal tenore col violino (aria) (⁴). Campagna, temporale e bisticci chiudono l'atto (Finale Allegro, Largo, Allegro, Allegro con brio).
Ci si ritrova a teatro: nuovi preambolí e prova (Scena e Terzetto con Cori: Tempo di Marcia, Allegro, Largo). Salgono in sartoria e Poeta e, Maestro confessano le difficoltà del mestiere (duetto Allegro: Per comporre un dramma serio). Tornano protestando gli abiti di lana, ma arriva la posta (Settimino delle lettere, Allegro Moderato, Più Allegro: Corilla dilettissima); riprendono a provare (Rondò Corilla) (⁵) ma ecco finalmente le parti della Sinfonia, e il Maestro la prova (Aria Largo: Larà - Piano, pianissimo.) in orchestra, complimentato; poi termina lietamente (Finale, Allegro non tanto: In occasione et cettera) leggendo agli artisti compiaciuti il cartellone. Chiaramente l'ampliamento delle strutture è legato alle possibilità offerte dal grande teatro (grande orchestra, scenari, coro) più che a motivazioni drammaturgiche, ancora al nucleo della compagnia «comica» e al divertimento di modulare in grottesco lo stile tragico. Anche nella forma in due atti l'opera ha gran successo di pubblico; ce ne informa il recensore della prima milanese: «La prova d'un'opera seria, ecco il melodramma giocoso, che fu posto sulle scene del Regio Teatro alla Scala nella sera del giorno 15 corrente sopra di un libretto certamente il meno cattivo tra i libri di opera buffa. Il sig. Francesco Gnecco compose una musica facile, ingenua, espressiva, egregiamente variata, vera, armoniosa, in una parola, bellissima. La natura stessa dell'argomento gli ha somministrato la materia d'intrecciare opportunamente col giocoso l'eroico ed il sublime, dal che ne nasce quel difficile contrasto, che tiene sempre viva ed interessata l'attenzione dello spettatore. È bensì vero che gli intendenti ed i filarmonici sono d'ayviso che questa musica sia troppo vuota e facile. Noi però alla loro censura non altra risposta daremo, fuorché quel certissimo principio del sig. d'Alembert, che in qualsivoglia genere di belle arti sono sempre cattive quelle opere, le quali non dieno piacere che ai dotti ed ai proffessori. Il più sicuro elogio per qualunque artista si è l'approvazione non già de' pochi, che voglion farla da giudici, ma d'un intero e colto pubblico, il quale decide colla voce dell'intimo sentimento. Al buon esito dell'opera hanno però contribuito non poco i valenti attori, che la rappresentano. La signora Augusta Smaltz, che per la prima volta comparve sulle scene d'Italia, ha riscossa la pubblica ammirazione per la pieghevolezza, forza e maestria della melodiosa e bellissima sua voce. Il sig. Andrea Verni ha sostenuto la parte di primo buffo conquella sempre comica, ma sempre decente azione, che è tutta propria di lui solo. Il primo tenore sig. Giuseppe Ambrogetti ha superato la pubblica aspettazione ed ha giustamente riscossi i pubblici applausi. Anche il sig. Angelo Ranfagna, altro de' primi buffi, meritossi le comuni acclamazioni avendo egregiamente sostenuta la sua parte» (⁶). Vitalità e divertimento portano questa partitura a sopravvivere felicemente a Milano (Scala nel 1828 con 14 repliche; Canobbiana nel '34 con esito «buonissimo», e nel '37) tra Rossini e le prime opere di Donizetti, e continua il suo successo (Scala nel 1846 con 23 repliche) quando già il pubblico milanese ha applaudito la nuova drammaturgia verdiana di Nabucco, Lombardi, Due Foscari, Ernani.
Dal primo successo alla Scala La Prova d'un'opera seria rimbalza immediatamente sui teatri d'Italia (Ferrara, Torino, Napoli, Bologna, Firenze, Lucca, Brescia, Lodi...) e d'Europa (Lisbona, Parigi, Madrid, Londra...) con f requenza di riprese fino agli anni 1850 e sporadíche apparizioni fino al 1860. Da allora scompare; nel 1846 (a Legnago) Giuseppe Mazza rimusicò lo stesso libretto del Gnecco, con breve vita.
Tre fenomeni risaltano nel corso della sua fortuna.
3 – Parata di divi famosi fino a metà secolo
Se ne impadroniscono i grandi cantanti del primo Ottocento, sopra tutto la generazione che possiede l'agilità virtuosa del belcanto e già la nuova immedesímazione espressiva del romanticismo. L'opera nasce nel momento in cui alla voce del castrato sta subentrando il soprano en travesti: la prima interprete Augusta Smaltz (Scala 1805) è la stessa che comincia a ereditate le parti che erano del primo musico: nel 1806 alla Scala interpreta Curiazio appunto negli Orazi e Curiazi di Cimarosa, e Abenbamet nell'Abenbamet e Zoraide di Nicolini. Più avanza il secolo, e più troviamo, fra gli interpreti nomi delle più famose primedonne: da Marie Anne Bondini Barilli (Parigi 1808) a Lorenza Correa (Parigi 1810), Teresa Belloc (Napoli 1811), Marietta Marchesini (Firenze 1818), Fanny Corri-Paltoni (Scala 1828), alle grandi romantiche Henriette Méric Lalande (Parigi 1831), Giuditta Pasta (Parigi 1831, Londra 1831...), Maria Malibran (Parigi 1831), Giulia Grisi (Parigi 1834), Elena Angri (Scala 1846), alla sofisticata Pauline Viardot Garcia (Londra 1848...); di grandi buffi: Andrea Verni (Scala 1805), Carlo Angrisani (Ferrara 1806), Luigi Barilli (Parigi 1806...), Gennaro Luzio (Napoli 1807?), Luigi Lablache (Scala 1828, Parigi dal 1831 Londra...), Vincenzo Galli (Canobbiana 1837), Agostino Rovere (Scala 1846), Antonio Tamburini (Londra 1848), Giorgio Ronconi (Londra 1854), Giuseppe Ciampi (Londra 1860...); mitici tenori come Domenico Donzelli (Parigi 1831), Luigi Rubini (Parigi 1831, 1832), Alberico Curioni (Londra 1831), Nicolai Ivanov (Parigi 1834...).
Più sono grandi e più ci si divertono. Possiedono le regole stilistiche del gioco e la consapevolezza di giocare, con dominio di superiorità, la vecchia commedia: così si scatenano, con lo stacco stilistico che rende più ironica la caricatura dei teatranti e l'occhio brillante di chi, sulla scena, sfida i propri partner in una gara di virtuosismo mimico, gestuale, canoro. Travolgono il pubblico nel divertimento, hanno successo ed ecco che i grandi artisti adottano quest'opera come richiamo per le loro «serate a beneficio» (⁷) anche perché la struttura congegnata a finta prova si presta all'inserimento di arie predilette. Può essere abbreviata a misura d'un atto, ed essere eseguita alla fine d'un'opera seria a dar la misura d'una sfrenata versatilità dell'interprete, come quando Giuditta Pasta a Parigi eseguì La Sonnambula (al Théâtre Italien) e nella stessa serata canta, subito dopo, La Prova d'un'opera seria, con Rubini, Lablache, Graziani: era il 24 ottobre 1831, prima esecuzione della Sonnambula a Parigi e «soirée de bénéfice» della Pasta. Compare in quella sera con abbinamenti di due o più atti d'opere diverse, per un certo tempo frequenti nelle stagioni dei teatri, o nelle recite private.
4 – A Parigi: gioco di travestimenti
Diventa un'occasione delle grandi primedonne. Nell'elenco delle interpreti troviamo personaggi a prima vista insospettablli: a Parigi Henriette Méric Lalande (6 gennaio 1831) sgambetta al Théâtre Italien nel «nuovo duetto» (⁸) con Lablanche e scopre gambe che sembrano un doppio sette al caustico recensore del «Corsaire». Nella stessa stagione, a Parigi, dopo la Pasta, vi si misura anche la sublime e inquieta Malibran, la quale «recitava la caricatura a meraviglia e si divertiva a improvvisare in casa propria, a Parigi, pièces di varietà» (il che le procurò un polemico attacco nel «Gallignani's Messenger») e anche in scena «provava la gioia di uscire dal suo ruolo abituale di regina o d'eroina per interpretare parti caricaturali o buffe» (⁹) come Fidalma nel Matrimonio segreto, perfettamente truccata da vecchia; o travestimenti inconsueti come quando a Parigi sceglie Otello di Rossini per la propria serata a beneficio, ma quella volta nella parte del Moro, appositamente trasportata. Così, nel novembre 1831, «aggiunse un'opera al suo repertorio. Imparò, per cantarlo a beneficio di Lablache, la parte principale d'una vecchia opera buffa di Gnecco, La Prova d'un'opera seria» (¹⁰). E vi si getta con tanto fuoco che il duetto cantato con Lablache assume un ritmo scatenato, con lei che impazza e il grosso buffo ispirato che la spia con galanteria e giocherella con le sue famose cinque o sei note di falsetto inventando una voce quasi di soprano, irresistibile. E subito dopo, nelle arie, ricompone la sua magia di primadonna che può rivelare l'infinito.
Altro fenomeno è la singolare popolarità di quest'opera in Francia, a Parigi, dove la troviamo in repertorio al Théâtre Italien dal 1806 praticamente fino al 1837, con una frequenza che non registriamo in nessun teatro italiano. È l'incontro con una situazione teatrale francese che privilegia per tradizione che risale almeno al Théâtre des Foires e ai suoi rifacimenti del teatro serio in commediole maldicenti e spiritose - l'opera comica con parodia, e che in queste operine italiane fra ultimo Settecento e primo Ottocento, e nell'abilità dei loro interpreti, vede quasi la reincarnazione dei comici italiani in Francia. Ed è indicazione che musicisti, cantanti e impresari non si lasciano, sfuggire. Non è un caso, ma un gusto, che fa comparire a Parigi, al Théâtre Italien, l'opera del Gnecco (1806): accanto troviamo subito (1807) Le Cantatrici villane di Fioraventi (fortunatissime anche in Italia per tutto il primo Ottocento) e I Virtuosi ambulanti (1807) dello stesso, commissionata sul momento all'autore che si trovava a Parigi e immediatamente messa in scena. E nemmeno è un caso che interprete e sostenitore di tutti e tre sia il buffo Luigi Barilli, rimasto famoso come specialista di Campanone, Don Bucefalo e Bellarosa. A Parigi, come a Londra, i nostri grandi cantanti dell'Ottocento impersonano in queste vecchie (rispetto alla produttività in atto dei loro autori) operine non solo la parodia di se stessi, un contro-canto istrionico alla propria sublimazione tragica, ma l'idea d'uno stile di teatro comico italiano.
5 – Opera «aperta»: un destino
Una terza osservazione s'impone. Quest'opera nata già con una struttura flessibile, da 1 a 2 atti, sviluppata sull'idea dell'improvvisazione comica dei teatranti in prova, porta più di altre nella sua fortuna un destino di adattamenti. Alla sua radice sta il gusto del cano, vaccio o del pastiche, non come collage di musiche e stili diversi (poiché è tutta scritta, completa e coerente, dall'autore che anzi pare ne seguisse con cura le recite nella sua breve vita), ma come gioco di composizione e scomposizione. Attorno al nucleo fisso dei numeri principali (e infallibili al successo) si possono a piacere levare pezzi (se il Coro non c'è, si dispone o meno della seconda donna, di artisti più o meno capaci alle arie) o combinarli con la prima versione. Un altro procedimento, nella prassi esecutiva del tempo (¹¹), era inserire pezzi nuovamente scritti dal maestro o da altri, e di conseguenza la cavatina o il rondò prediletti dall'interprete. Il meccanismo della finta prova legalizza teatralmente l'arbitrio. Erano i tempi in cui la Malibran, che pure sappiamo così tragica nella catastrofe di Desdemona, poteva innestare nell'Otello di Rossini la cavatina di Donna Caritea (Napoli, Teatro del Fondo 1834); ma era tale la sua immedesimazione nella nuova drammaturgia romantica, che al pubblico arrivava quella rivelazione di novità straordinaria, e non l'eventuale abuso: «Madame Pasta era sublime, ma interpretava la parte da donna di vent'anni. La Malibran glie ne diede sedici. Era quasi una fanciulla (...) All'ultima scena, quando Otello avanza verlo Desdemona, col pugnale alzato, la Pasta affrontava il colpo, forte della propria virtù e coraggio; la Malibran fuggiva atterrita, correva alle finestre, porte, riempiva la stanza dei suoi balzi di giovane fagiano spaventato» (¹²).
Per recuperare il significato storico di quest'opera, o almeno il suo divertimento, è impensabile un metodo tradizionale di filologia critica testuale. Le versioni circolanti erano ben più delle due esaminate, una terza (in 1 atto: è l'esemplare di Parigi) nasce subito dalla combinazione fra le due, come un concentrato. E venivano alternate secondo le occasioni. Il discorso sulle strutture non è definitivo per quest'opera: riconoscibili in rapporto a un certo schema di opera buffa, piccola o ingrandita, ma componibili, purché il nucleo vitale dell'invenzione comica scatti sulla verve degli interpreti, e corra - come il preciso rapporto musicaleattora- le dei singoli pezzi - il ritmo della partitura. Perfino le parole diventano componibli: una «langue” corrente da opera comica passa dal ben ritmato libretto dell'Artusi (1803) ai due atti distesi dello stesso Gnecco (1805) con certo estro teatrale; viene serrata nei recitativi funzionali della sintetica versione in un atto (Parigi), o napoletanizzata per il tipico buffo napoletano.
Occorre piuttosto una filologia dell'esecuzione che faccia recuperare quanto si può i criteri che nella prassi esecutiva mutevole, disordinata, avventurosa, portavano però un inconfondibile carattere di divertimento e di successo specifico a quest'opera, riconoscibile nella sua esattezza di rapporti pur nella varietà delle interpretazioni e occasionali modificazioni. Ma in ogni caso, in un'opera che prevede la variabilità delle esecuzioni, più che mai la fedeltà si pone non nel cercare di bloccare una forma fissa, ma nel ritrovare le ragioni che la rendevano vitale e ambita dagli interpreti, costruendo su di loro, con scelte precise, la nuova edizione». E ricercando, ancor prima delle circostanze e delle possibilità, le motivazioni.
6 – 1983: il gioco continua
Anche una grande primadonna ha avuto fede nella vitalità di quest'opera e ne ha desiderato il revival. Leyla Gencer vi si è affacciata attratta da molte curiosità: gusto del comico e dell'ironia, desiderio di smitizzarsi, gioco del virtuosismo, omaggio alla Malibran nella città veneziana dove nel 1834 la grande cantante salvò un teatro (proprio quel San Giovanni Grisostomo ora Malibran) donando all'impresario Gallo l'incasso di due recite, omaggio a Versailles (l'opera, nata in coproduzione Venezia-Parigi, vi andrà a maggio) dove il moderno teatro in teatro nacque audacemente con L'Impromptu de Versailles di Molière. Soprattutto deve aver intuito, voluttuosamente, in quest'opera la grande occasione per la prima donna, come avevano visto le grandi dell'Ottocento. Vi trova la cornice modernamente scanzonata per motivare un virtuosismo belcantistico che esula dalla nostra attuale sensibilità drammaturgica; fa la commedia e vi «improvvisa» le «sue» arie, i momenti del miracolo che solitamente arrivano nell'acme dell'interpretazione di opere tragiche o patetiche. Inventa un gioco del teatro e della primadonna che può far entrare, a brivido, gli incantesimi di Alcina o Fedra fra i rimorsi, ci lascia attendere dalla voce di Corilla primadonna «buffa» le malinco- nie improvvise e remote, le sospensioni lunari, gli ardimenti e i furori appassionati che Leyla Gencer ci ha fatto conoscere. Il gioco può essere ogni volta diverso, settecentesco. come questa sera, affacciandosi al passato di quest'opera, o può «prevedere» l'Ottocento prediletto.
Il teatro allo specchio, e la possibilità di rifrangervi prospettive all'infinito, ha attratto Pier LuigiPizzi: l'orchestra sciama sul palco fra prova d'orchestra felliniana e ricostruzione d'epoca; i «comici» inseguono la loro prova fra divertimento e naturalezza di sé. Lo tenta soprattutto reinventare il gioco della primadonna che attira prepotentemente a sé il proprio personaggio: un canovaccio di appunti fissati nella memoria in ormai sedici anni di lavoro, in teatro e di amicizia con Leyla-Alceste, Stuarda, Lady Macbeth..., si trasformano in ideale regia. Cerca le “manie» e imperiosità, i «lamenti» e le docilità ispirate di Leyla Gencer in prova, copione avvincente che tutti i teatri conoscono (e la Fenice in particolare, in una collaborazione che continua dal dicembre '57: I Due Foscari con Serafin) e nel provocarli si trova in antagonismo stimolante, creativo con la carica e mobilità inventiva del «modello». Chiama la sua vocazione di «tragédienne», la tendenza al grandioso, patetico, sublime, e anche l'inarrestabile talento comico. La scelta delle arie nasce così in comune accordo: si rifà alla drammaturgia ottocentesca che offre l'invenzione alla prima donna, ma mira a ricomporre un'unità estetica mettendo lo spettatore in una dimensione e prospettiva storica, visiva e musicale. Così sullo sfondo della parodia s'affaccia l'opera settecentesca, ei suoi aspetti completamente diversi: scaglie dal Bajazet di Vivaldi (un'aria dedicata al Farinello: Sposa son disprezzata, Oriente dal respiro veneziano); dalla Molinara di Paisiello (Nel cor più non mi sento che anche la Malibran amava eseguire); la grande declamazione tragica di Fedra (Quelle plainte en ces lieux m'appelle? da Hippolyte et Aricie di Rameau) con l'omaggio a Jean Philippe Rameau nei trecento anni dalla nascita... Diventa così anche il gioco delle trasformazioni che la Fenice sta svijuppando, e che l'occasione del Carnevale di Venezia non si lascia sfuggire.
Individuata l'opera e il suo richiamo s'imponeva una scelta per l'attuale edizione. I termini operativi di tempo non permettevano quella ricognizione di tutto il materiale di partiture reperibile nelle biblioteche d'Europa, che una edizione critica richiederebbe. Entrati con duttilità nella ricostru zione d'una prassi esecutiva, si sono utilizzate due partiture:
a) Partitura manoscritta della Bibliothèque Nationale di Parigi (¹³). È la versione completa in un atto, utilizzata a Parigi (di quella in due atti, prevalentemente usata a Parigi secondo le notizie, non resta traccia nelle biblioteche parigine). Non corrisponde che parzialmente all'operina veneziana del 1803. Sulla traccia portante di quella (ne rimangono l'Introduzione, aria di prova tenore e sviluppi, aria Maestro che prova le Sinfonie poi ampliata, Sestetto delle lettere, Rnale) vengono innestati pezzi che derivano chiaramente dalla versione in due atti (duetto Corilla-Maestro, scena ed aria Maestro che prova la Sinfonia, duetto Maestro-Poeta) combinati con altri completamente diversi (recitativo e 1a aria Corilla, aria Poeta, aria Violante) in modo da sintetizzare abilmente la vicenda della prova più sviluppata nei due atti. Si direbbe che l'autore abbia rielaborato una terza partitura che tende alla scorrevolezza essenziale di quella veneziana, ma ha la nettezza dei pezzi più definiti, e l'articolazione più completa di quella in due atti (1805). Come nella farsa originale, si torna alla prova degli Orazi e Curiazi, e il meccanismo delle citazioni viene più ampiamente impiegato introducento realmente da Cimarosa l'avvio dell'aria di Corilla Quelle pupille tenere, l'aria del tenore Se alla patria ognor donai, fino all'intervento del Coro compreso, mentre l'aria Violante Di valor, di gloria accesi non trova riscontro nel libretto e partitura di Cimarosa, e pare costruita à la manière de con evidente sottolineatura di stile eroico e dei tipici «Arresti» dove l'esecutore poteva interpolare arbitrii, mezze cadenze o messe di voce. I recitativi, rimpastati nella partitura di Parigi tra la versione 1803 in 1 atto e 1805 in 2 atti, corrono sintetici, ma producono qualche incoerenza nell'incol laggio dei termini.
b) Partitura manoscritta della Biblioteca del Conservatorio di Napoli, in due atti. Corrisponde completamente al libretto in due atti del 1805, per la Scala. Vi mancano, segnalati nella successione dei Numeri, ma evidentemente smarriti, l'Aria di Violante e il Rondò finale di Corilla; vi è invece aggiunta una Cavatina di Corilla (prima del duetto col tenore), tipica situazione d'aria interpolata. L'edizione attuale, curata e rivista dal maestro Giacomo Zani, ha adottato come base la versione di Parigi, in 1 atto, ma vi ha inserito quattro pezzi della versione in due atti di Napoli: il duetto soprano-tenore Ah tu sol, tiranno amore; il finale del primo sestetto di prova (era Settimino) da Dica un poco mio padrone / perché questa distinzione?; l'aria tenore Cara fiamma del cor mio; il Finale lieto del cartellone preferito a quello dell'impresario che falliva. Il libretto è derivato direttamente dalla partitura di Parigi, con l'inserimento dei quattro pezzi aggiunti, e lievi ritocchi di collegamento resisi necessari. Brevissimi collegamenti (derivati dal libretto in 2 atti o introdotti da Pizzi) introducono le arie ad libitum.
La scelta della partitura di Parigi è parsa preferibile al revisore per valutazioni di qualità musicale. Nella versione in 2 atti l'organico più ampio appesantisce l'orchestrazione; vi si nota maggior cura nella scrittura levigata dei pezzi nuovi, ricerca di finezze orchestrali che portano a un manierismo più evidente. Il tipico linguaggio comico a frequenti ripetizioni viene come nobilitato e perde spontaneità. La partitura di Parigi, con organico più piccolo, rivela scrittura forse più sbrigativa e approssimata, ma più geniale. Anche i pezzi presenti in entrambe denotano notevole diversità: il duetto Corilla-Maestro risulta più serrato e spiritoso, il Sestetto delle lettere presenta l'utilizzo d'un violino solista che ci ricorda che Gnecco fu allievo del Costa e maestro di Paganini. Come scelta più aderente all'occasione, per la maggiore fluidità e modernità del meccanismo teatrale ridotto all'essenziale, e per l'organico strumentale più raccolto. Come omaggio per la destinazione dello spettacolo, commissionato appunto da Parigi e realizzato in coproduzione con Venezia.
Venezia, 8 luglio 1803: nel Nobile Teatro Grimani, in San Giovanni Grisostomo, si rappresenta una farsa in un atto, parole dell'Abate Giulio Artusi, musica del Maestro genovese Francesco Gnecco: La prima prova dell'Opera Gli Orazi e Curiazi (¹). Personaggi: Fastidio Mazzocca Impresario; Metilde Magretti primo Soprano dell'Opera seria gli «Orazi e Curiazi»; Corilla Tracagnotti prima Donna seria; Petruccio Stendardo primo Tenore serio; Criticone Tarmati Maestro al Cembalo; Fischietto Stecchi Copista.
È il gioco del teatro in teatro: nella naturalezza d'una finta prova arriva poco a poco la compagnia d'opera (Introduzione), coi nomi parodiati secondo una tradizione satirica, i ritard, capricci, pretese di sempre. Fra indugi, commenti e continue interruzioni si comincia a provare: ed è la satira dell'opera seria del momento (quella di Cimarosa, Andreozzi, Zingarelli, Nasolini, Anfossi, Mayr...) poiché Gli Orazi e i Curiazi di Domenico Cimarosa (libretto di Antonio Sografi) ebbero la loro prima rappresentazione appunto a Venezia, alla Fenice, il 26 dicembre 1796, con Giuseppina Grassini e Girolamo Crescentini, e da allora vi s'erano ripetuti con successo nel 1798, 1800, 1802 e nel carnevale di quello stesso 1803. La farsa era quindi una specie di cabaret del tempo, controcanto d'attualità agli spettacoli della Fenice, e a un'opera che proseguiva la sua fortuna sui grandi teatri affidata al binomio ancora settecentesco di prima donna e «primo musico» (la qualifica indicava i castrati) quali il Crescentini o il Velluti. Si prova la Sinfonia, naturalmente rifatta dal Maestro (aria Maestro), si svicola e finalmente comincia il tenore (recitativo ed aria), ma se la prende perché il Coro non c'è, e non vuol più provare (duetto Impresario-tenore). L'arrivo della posta trasforma la prova in un sestetto di chiacchiericcio goldoniano, dove ognuno legge le proprie lettere, e relative confidenze o maldicenze sui teatri. Li chiamano in sartoria, e l'impresario resta solo a meditare (aria Impresario) conti e angustie. Tornano protestando sui costumi: la prima donna sdegnata battibecca con l'impresario (duetto), finalmente si convince a provare la sua scena ed aria drammatica (naturalmente rifatta da un compiacente maestro G... si sussurra), ma la notizia che i primi ballerini sono ammalati e non s'andrà in scena manda prova e impresario a rotoli (Finale).
È un divertimento scorrevole e attuale su un tema antico, poiché la satira dell'opera ricorre nel teatro, musicale di tutto il Settecento, dall'Intermezzo napoletano con la sua funzione teatrale e sociale, alternativa e polemica nei confronti dell'opera seria, all'Opera buffa che sempre più smitizza, esagerandole, situazioni letterarie e musicali del melodramma. Proprio in quegli anni di fine secolo i titoli infittiti registrano il gradimento del pubblico per queste prese in giro sull'opera (quasi ormai una conquistata consapevolezza di aspetti e meccanismi), e condensano tipologie e situazioni d'una lunga tradizione letteraria e musicale che cerca suggerimenti nuovi anche fuori d'Italia (Mayr da una commedia francese di Audinot, La Musicomanie, del 1779...), e che ancora il primo Rossini e il primo Donizetti raccoglieranno:
Venezia 1769 L'Impresa d'opera, di B. Cavalieri, musica di Pietro Guglielmi;
Vienna 1786 Der Schauspieldirektor di G. Stephanie jr., musica di Wolfgang Amadeus Mozart;
Vienna 1786 Prima la musica poi le parole, di G.B. Casti, musica di Antonio Salieri;
Napoli 1796 L'Impresario in angustie, di G.M. Diodati, musica di Domenico Cimarosa;
Napoli 1797-8 Le Cantatrici villane, di G.M. Diodati, musica di Valentino Fioravanti, poi come Le virtuose ridicole, libretto di G.M. Foppa, Venezia 1802;
Venezia 1798 Che originali! ovvero la Musicomania, di G. Rossi, Musica di Simone Mayr;
Venezia 1801 I virtuosi di teatro, di G. Rossi, musica di Simone Mayr;
Roma 1804 Le cantatrici in viaggio di G. Giraud, musica di Orazio Bucelli.
La farsa del Gnecco piace, anche per la naturalezza rapida di dialoghi, entrate, interruzioni che evita i luoghi comuni del «genere». Il Maestro trentaquattrenne, genovese, autore già d'opere rappresentate alla Scala (1793) e alla Fenice (1803), mostra la duttilità d'un «allievo,» di Cimarosa, che ha ascoltato Mozart, e sta guardando avanti: avverte la corsa, se non ancora la dissoluzione delle formule settecentesche; ironizza vivacemente tipi senza ancora dar spazio alla psicologia; scherza sul virtuosismo vocale settecentesco (lui che fu maestro di Paganini) e si presterà alla celebrazione del nuovo virtuosismo dei cantanti del primo Ottocento, proprio con quest'opera che riassume lo spirito della vecchia opera buffa fuori dagli schemi, e l'inventa lì sul momento, senza una storia, sulla fisicità degli artisti che vi si presentano, aperta al gioco dell'improvvisazione e dell'aria di bravura da sostituire all'occasione.
2 – Alla Scala: melodramma con coro
La farsa ha successo e due anni dopo, (Milano 15 agosto 1805) l'autore la presenta alla Scala, con esito «buonissimo» (²). L'ha trasformata, naturalmente, in “melodramma giocoso, in due atti»: La Prova di un'opera seria, con libretto proprio e «musica nuova». Vicende e struttura risultano ingranditi per il grande teatro: agli incontri e scontri dei personaggi in teatro s'aggiunge la baruffa amorosa tra tenore e prima Donna; la scena nuda in palcoscenico, così moderna ai nostri occhi, s'affianca (scene nuove di Pasquale Canna) a una «Sala in casa della prima Donna» e a un'«Amena Campagna», pretesto per una gita dei teatranti con Cori villerecci e scena di tempesta. C'è il Coro che prova l'Ettore in Trebisonda (anche il titolo è parodiato) e sfarfalleggia nella scena campestre con pura funzione ornamentale. In mezzo a tutto ciò i personaggi, coi nomi un po' mutati e l'aggiunta del'Poeta (diventano sette i cantanti richiesti, di cui due eseguono anche la parte dei Contadini nel finale I) prolungano ripicche e capricci in una strutura alterata, entro cui riconosciamo - con diversa sistemazione e ritocchi alcuni pezzi della base veneziana. Ecco i nomi definitivi dei nostri personaggi: Corilla Tortorini, prima Donna per l'opera seria; Federico Mordente, primo Tenore; Violante Pescarelli, seconda Donna; Campanone, Maestro e Compositore della Musica; Don Grilletto Pasticci, Poeta, e Autore del Dramma Serio; Fastidio Frivella, Impresario; Fischietto, Suggeritore, Copista, e Capo de' Coristi; Pipetto e Cecchina, Contadini. La compagnia è ormai, itinerante come la struttura. Il Suggeritore prova in teatro col Coro a tutta orchestra, mentre il Poeta declama versi «sdruccioli» appena composti (Introduzione Allegro - Andante - Allegro) (³) 1 ed è la parodia dello stile tragico e l'uso umoristico dello strumentale. Ma a mezzogiorno c'è prova a casa della prima Donna che appare intonando un duetto col tenore (Andante Sostenuto, Allegro Moderato: Ah! tu sol, tiranno amore) di sospiri e gelosie: arrivan tutti e finalmente si presenta il Maestro (Cavatina, Allegro) e si comincia solennemente a provare (Settimino Maestoso sostenuto, Andante Largo, Allegro: Vincer tu speri invano) finché per uno di quei puntigli che si chiamavano le «convenienze», quasi s'azzuffano e abbandonano la prova. Resta Violante a cantare una sua aria. Rientrano gli «innamorati» e il tenore canta un'aria d'affetti (Larghetto, Allegro: Cara fiamma del cor mio). Corilla resta pensosa al cembalo a legger musica, torna il Maestro e battibeccano sulle pretese (duetto Allegro, Andante con moto: - Ardireste? - No, no: non ardirei;) si minacciano, seducono, escono infuriati. Il Poeta, solo, canta la sua filosofia accomodante (Aria Allegro: La signora prima Donna/vuol nell'aria il pertichino;); torna con la prima Donna conciliante: ecco come vorrebbe l'aria del prim'atto, e ne dà un saggio accompagnata dal tenore col violino (aria) (⁴). Campagna, temporale e bisticci chiudono l'atto (Finale Allegro, Largo, Allegro, Allegro con brio).
Dal primo successo alla Scala La Prova d'un'opera seria rimbalza immediatamente sui teatri d'Italia (Ferrara, Torino, Napoli, Bologna, Firenze, Lucca, Brescia, Lodi...) e d'Europa (Lisbona, Parigi, Madrid, Londra...) con f requenza di riprese fino agli anni 1850 e sporadíche apparizioni fino al 1860. Da allora scompare; nel 1846 (a Legnago) Giuseppe Mazza rimusicò lo stesso libretto del Gnecco, con breve vita.
Tre fenomeni risaltano nel corso della sua fortuna.
3 – Parata di divi famosi fino a metà secolo
Se ne impadroniscono i grandi cantanti del primo Ottocento, sopra tutto la generazione che possiede l'agilità virtuosa del belcanto e già la nuova immedesímazione espressiva del romanticismo. L'opera nasce nel momento in cui alla voce del castrato sta subentrando il soprano en travesti: la prima interprete Augusta Smaltz (Scala 1805) è la stessa che comincia a ereditate le parti che erano del primo musico: nel 1806 alla Scala interpreta Curiazio appunto negli Orazi e Curiazi di Cimarosa, e Abenbamet nell'Abenbamet e Zoraide di Nicolini. Più avanza il secolo, e più troviamo, fra gli interpreti nomi delle più famose primedonne: da Marie Anne Bondini Barilli (Parigi 1808) a Lorenza Correa (Parigi 1810), Teresa Belloc (Napoli 1811), Marietta Marchesini (Firenze 1818), Fanny Corri-Paltoni (Scala 1828), alle grandi romantiche Henriette Méric Lalande (Parigi 1831), Giuditta Pasta (Parigi 1831, Londra 1831...), Maria Malibran (Parigi 1831), Giulia Grisi (Parigi 1834), Elena Angri (Scala 1846), alla sofisticata Pauline Viardot Garcia (Londra 1848...); di grandi buffi: Andrea Verni (Scala 1805), Carlo Angrisani (Ferrara 1806), Luigi Barilli (Parigi 1806...), Gennaro Luzio (Napoli 1807?), Luigi Lablache (Scala 1828, Parigi dal 1831 Londra...), Vincenzo Galli (Canobbiana 1837), Agostino Rovere (Scala 1846), Antonio Tamburini (Londra 1848), Giorgio Ronconi (Londra 1854), Giuseppe Ciampi (Londra 1860...); mitici tenori come Domenico Donzelli (Parigi 1831), Luigi Rubini (Parigi 1831, 1832), Alberico Curioni (Londra 1831), Nicolai Ivanov (Parigi 1834...).
Più sono grandi e più ci si divertono. Possiedono le regole stilistiche del gioco e la consapevolezza di giocare, con dominio di superiorità, la vecchia commedia: così si scatenano, con lo stacco stilistico che rende più ironica la caricatura dei teatranti e l'occhio brillante di chi, sulla scena, sfida i propri partner in una gara di virtuosismo mimico, gestuale, canoro. Travolgono il pubblico nel divertimento, hanno successo ed ecco che i grandi artisti adottano quest'opera come richiamo per le loro «serate a beneficio» (⁷) anche perché la struttura congegnata a finta prova si presta all'inserimento di arie predilette. Può essere abbreviata a misura d'un atto, ed essere eseguita alla fine d'un'opera seria a dar la misura d'una sfrenata versatilità dell'interprete, come quando Giuditta Pasta a Parigi eseguì La Sonnambula (al Théâtre Italien) e nella stessa serata canta, subito dopo, La Prova d'un'opera seria, con Rubini, Lablache, Graziani: era il 24 ottobre 1831, prima esecuzione della Sonnambula a Parigi e «soirée de bénéfice» della Pasta. Compare in quella sera con abbinamenti di due o più atti d'opere diverse, per un certo tempo frequenti nelle stagioni dei teatri, o nelle recite private.
4 – A Parigi: gioco di travestimenti
Diventa un'occasione delle grandi primedonne. Nell'elenco delle interpreti troviamo personaggi a prima vista insospettablli: a Parigi Henriette Méric Lalande (6 gennaio 1831) sgambetta al Théâtre Italien nel «nuovo duetto» (⁸) con Lablanche e scopre gambe che sembrano un doppio sette al caustico recensore del «Corsaire». Nella stessa stagione, a Parigi, dopo la Pasta, vi si misura anche la sublime e inquieta Malibran, la quale «recitava la caricatura a meraviglia e si divertiva a improvvisare in casa propria, a Parigi, pièces di varietà» (il che le procurò un polemico attacco nel «Gallignani's Messenger») e anche in scena «provava la gioia di uscire dal suo ruolo abituale di regina o d'eroina per interpretare parti caricaturali o buffe» (⁹) come Fidalma nel Matrimonio segreto, perfettamente truccata da vecchia; o travestimenti inconsueti come quando a Parigi sceglie Otello di Rossini per la propria serata a beneficio, ma quella volta nella parte del Moro, appositamente trasportata. Così, nel novembre 1831, «aggiunse un'opera al suo repertorio. Imparò, per cantarlo a beneficio di Lablache, la parte principale d'una vecchia opera buffa di Gnecco, La Prova d'un'opera seria» (¹⁰). E vi si getta con tanto fuoco che il duetto cantato con Lablache assume un ritmo scatenato, con lei che impazza e il grosso buffo ispirato che la spia con galanteria e giocherella con le sue famose cinque o sei note di falsetto inventando una voce quasi di soprano, irresistibile. E subito dopo, nelle arie, ricompone la sua magia di primadonna che può rivelare l'infinito.
5 – Opera «aperta»: un destino
Una terza osservazione s'impone. Quest'opera nata già con una struttura flessibile, da 1 a 2 atti, sviluppata sull'idea dell'improvvisazione comica dei teatranti in prova, porta più di altre nella sua fortuna un destino di adattamenti. Alla sua radice sta il gusto del cano, vaccio o del pastiche, non come collage di musiche e stili diversi (poiché è tutta scritta, completa e coerente, dall'autore che anzi pare ne seguisse con cura le recite nella sua breve vita), ma come gioco di composizione e scomposizione. Attorno al nucleo fisso dei numeri principali (e infallibili al successo) si possono a piacere levare pezzi (se il Coro non c'è, si dispone o meno della seconda donna, di artisti più o meno capaci alle arie) o combinarli con la prima versione. Un altro procedimento, nella prassi esecutiva del tempo (¹¹), era inserire pezzi nuovamente scritti dal maestro o da altri, e di conseguenza la cavatina o il rondò prediletti dall'interprete. Il meccanismo della finta prova legalizza teatralmente l'arbitrio. Erano i tempi in cui la Malibran, che pure sappiamo così tragica nella catastrofe di Desdemona, poteva innestare nell'Otello di Rossini la cavatina di Donna Caritea (Napoli, Teatro del Fondo 1834); ma era tale la sua immedesimazione nella nuova drammaturgia romantica, che al pubblico arrivava quella rivelazione di novità straordinaria, e non l'eventuale abuso: «Madame Pasta era sublime, ma interpretava la parte da donna di vent'anni. La Malibran glie ne diede sedici. Era quasi una fanciulla (...) All'ultima scena, quando Otello avanza verlo Desdemona, col pugnale alzato, la Pasta affrontava il colpo, forte della propria virtù e coraggio; la Malibran fuggiva atterrita, correva alle finestre, porte, riempiva la stanza dei suoi balzi di giovane fagiano spaventato» (¹²).
Occorre piuttosto una filologia dell'esecuzione che faccia recuperare quanto si può i criteri che nella prassi esecutiva mutevole, disordinata, avventurosa, portavano però un inconfondibile carattere di divertimento e di successo specifico a quest'opera, riconoscibile nella sua esattezza di rapporti pur nella varietà delle interpretazioni e occasionali modificazioni. Ma in ogni caso, in un'opera che prevede la variabilità delle esecuzioni, più che mai la fedeltà si pone non nel cercare di bloccare una forma fissa, ma nel ritrovare le ragioni che la rendevano vitale e ambita dagli interpreti, costruendo su di loro, con scelte precise, la nuova edizione». E ricercando, ancor prima delle circostanze e delle possibilità, le motivazioni.
6 – 1983: il gioco continua
Anche una grande primadonna ha avuto fede nella vitalità di quest'opera e ne ha desiderato il revival. Leyla Gencer vi si è affacciata attratta da molte curiosità: gusto del comico e dell'ironia, desiderio di smitizzarsi, gioco del virtuosismo, omaggio alla Malibran nella città veneziana dove nel 1834 la grande cantante salvò un teatro (proprio quel San Giovanni Grisostomo ora Malibran) donando all'impresario Gallo l'incasso di due recite, omaggio a Versailles (l'opera, nata in coproduzione Venezia-Parigi, vi andrà a maggio) dove il moderno teatro in teatro nacque audacemente con L'Impromptu de Versailles di Molière. Soprattutto deve aver intuito, voluttuosamente, in quest'opera la grande occasione per la prima donna, come avevano visto le grandi dell'Ottocento. Vi trova la cornice modernamente scanzonata per motivare un virtuosismo belcantistico che esula dalla nostra attuale sensibilità drammaturgica; fa la commedia e vi «improvvisa» le «sue» arie, i momenti del miracolo che solitamente arrivano nell'acme dell'interpretazione di opere tragiche o patetiche. Inventa un gioco del teatro e della primadonna che può far entrare, a brivido, gli incantesimi di Alcina o Fedra fra i rimorsi, ci lascia attendere dalla voce di Corilla primadonna «buffa» le malinco- nie improvvise e remote, le sospensioni lunari, gli ardimenti e i furori appassionati che Leyla Gencer ci ha fatto conoscere. Il gioco può essere ogni volta diverso, settecentesco. come questa sera, affacciandosi al passato di quest'opera, o può «prevedere» l'Ottocento prediletto.
Il teatro allo specchio, e la possibilità di rifrangervi prospettive all'infinito, ha attratto Pier LuigiPizzi: l'orchestra sciama sul palco fra prova d'orchestra felliniana e ricostruzione d'epoca; i «comici» inseguono la loro prova fra divertimento e naturalezza di sé. Lo tenta soprattutto reinventare il gioco della primadonna che attira prepotentemente a sé il proprio personaggio: un canovaccio di appunti fissati nella memoria in ormai sedici anni di lavoro, in teatro e di amicizia con Leyla-Alceste, Stuarda, Lady Macbeth..., si trasformano in ideale regia. Cerca le “manie» e imperiosità, i «lamenti» e le docilità ispirate di Leyla Gencer in prova, copione avvincente che tutti i teatri conoscono (e la Fenice in particolare, in una collaborazione che continua dal dicembre '57: I Due Foscari con Serafin) e nel provocarli si trova in antagonismo stimolante, creativo con la carica e mobilità inventiva del «modello». Chiama la sua vocazione di «tragédienne», la tendenza al grandioso, patetico, sublime, e anche l'inarrestabile talento comico. La scelta delle arie nasce così in comune accordo: si rifà alla drammaturgia ottocentesca che offre l'invenzione alla prima donna, ma mira a ricomporre un'unità estetica mettendo lo spettatore in una dimensione e prospettiva storica, visiva e musicale. Così sullo sfondo della parodia s'affaccia l'opera settecentesca, ei suoi aspetti completamente diversi: scaglie dal Bajazet di Vivaldi (un'aria dedicata al Farinello: Sposa son disprezzata, Oriente dal respiro veneziano); dalla Molinara di Paisiello (Nel cor più non mi sento che anche la Malibran amava eseguire); la grande declamazione tragica di Fedra (Quelle plainte en ces lieux m'appelle? da Hippolyte et Aricie di Rameau) con l'omaggio a Jean Philippe Rameau nei trecento anni dalla nascita... Diventa così anche il gioco delle trasformazioni che la Fenice sta svijuppando, e che l'occasione del Carnevale di Venezia non si lascia sfuggire.
Individuata l'opera e il suo richiamo s'imponeva una scelta per l'attuale edizione. I termini operativi di tempo non permettevano quella ricognizione di tutto il materiale di partiture reperibile nelle biblioteche d'Europa, che una edizione critica richiederebbe. Entrati con duttilità nella ricostru zione d'una prassi esecutiva, si sono utilizzate due partiture:
a) Partitura manoscritta della Bibliothèque Nationale di Parigi (¹³). È la versione completa in un atto, utilizzata a Parigi (di quella in due atti, prevalentemente usata a Parigi secondo le notizie, non resta traccia nelle biblioteche parigine). Non corrisponde che parzialmente all'operina veneziana del 1803. Sulla traccia portante di quella (ne rimangono l'Introduzione, aria di prova tenore e sviluppi, aria Maestro che prova le Sinfonie poi ampliata, Sestetto delle lettere, Rnale) vengono innestati pezzi che derivano chiaramente dalla versione in due atti (duetto Corilla-Maestro, scena ed aria Maestro che prova la Sinfonia, duetto Maestro-Poeta) combinati con altri completamente diversi (recitativo e 1a aria Corilla, aria Poeta, aria Violante) in modo da sintetizzare abilmente la vicenda della prova più sviluppata nei due atti. Si direbbe che l'autore abbia rielaborato una terza partitura che tende alla scorrevolezza essenziale di quella veneziana, ma ha la nettezza dei pezzi più definiti, e l'articolazione più completa di quella in due atti (1805). Come nella farsa originale, si torna alla prova degli Orazi e Curiazi, e il meccanismo delle citazioni viene più ampiamente impiegato introducento realmente da Cimarosa l'avvio dell'aria di Corilla Quelle pupille tenere, l'aria del tenore Se alla patria ognor donai, fino all'intervento del Coro compreso, mentre l'aria Violante Di valor, di gloria accesi non trova riscontro nel libretto e partitura di Cimarosa, e pare costruita à la manière de con evidente sottolineatura di stile eroico e dei tipici «Arresti» dove l'esecutore poteva interpolare arbitrii, mezze cadenze o messe di voce. I recitativi, rimpastati nella partitura di Parigi tra la versione 1803 in 1 atto e 1805 in 2 atti, corrono sintetici, ma producono qualche incoerenza nell'incol laggio dei termini.
La scelta della partitura di Parigi è parsa preferibile al revisore per valutazioni di qualità musicale. Nella versione in 2 atti l'organico più ampio appesantisce l'orchestrazione; vi si nota maggior cura nella scrittura levigata dei pezzi nuovi, ricerca di finezze orchestrali che portano a un manierismo più evidente. Il tipico linguaggio comico a frequenti ripetizioni viene come nobilitato e perde spontaneità. La partitura di Parigi, con organico più piccolo, rivela scrittura forse più sbrigativa e approssimata, ma più geniale. Anche i pezzi presenti in entrambe denotano notevole diversità: il duetto Corilla-Maestro risulta più serrato e spiritoso, il Sestetto delle lettere presenta l'utilizzo d'un violino solista che ci ricorda che Gnecco fu allievo del Costa e maestro di Paganini. Come scelta più aderente all'occasione, per la maggiore fluidità e modernità del meccanismo teatrale ridotto all'essenziale, e per l'organico strumentale più raccolto. Come omaggio per la destinazione dello spettacolo, commissionato appunto da Parigi e realizzato in coproduzione con Venezia.
7 – Perché «La Prova d'un'opera seria»
Scelte e intenzioni troveranno verifica nella vita dell'opera e dei suoi personaggi in palcoscenico, ma la lettura della partitura offre delle impressioni che possono essere utili come orientamento e invito all'ascolto. Resta dominante un'impressione di brillantezza, di vivacità: il discorso musicale corre naturale, autonomo, senza alzar la voce in grandi rivelazioni, vario, mutevole, abile nel suggerire attese, offrire occasioni. Al nostro ascolto evoca da lontano Mozart, Cimarosa in grande fortuna quando l'opera fu scritta, e fa sentire non lontano Rossini, che ancora non aveva cominciato a produrre. Quindi un segno di continuità lega ai «grandi» l'opera comica minore del Settecento, che quasi non conosciamo, e di cui Francesco Gnecco trattiene i caratteri. Ma c'è qualcosa di diverso, di aperto verso l'Ottocento in questo compositore. Già allora, nel suo tempo, quando apparve (1792 Auretta e Masullo) non fu considerato un ripetitore del Settecento, ma voce attenta al mutamento ch'era nell'aria. Del secolo che si chiude possiede grande sapienza artigianale, misura sicura, scrittura limpida, lo strumentale. Ma avvertiamo la superiorità disinvolta del compositore sui procedimenti e meccanismi, la conquista d'una dinamica scenica, teatrale, nella trama del tessuto musicale, anche se spesso il discorso che s'avvia con naturalezza avvincente e con carica inventiva, osservato sulla pagina come pura scrittura musicale, non decolla. La finezza e sensibilità del dialogo fra strumentale e voci possiede qualcosa ormai di più nostro, nel modo naturale, ironico o penetrante, in cui si passano la «conversazione». Sentiamo più nostra anche la vicinanza tra recitativo e pezzo d'assieme, per cui la parola scorre tra recitativo (secco, al cembalo) e aria senza sbalzi di continuità, tant'è vero che alcune volte parti di recitativo che già preludono al pezzo chiuso rientrano nella «scena» e vengono orchestrate. La parola scandita dall'opera buffa settecentesca è utilizzata nella sua gamma conversativa, giocata in veloce sillabato comico, arruffata e gonfiata nei finali dei pezzi d'assieme, ornata o sublimata per contrasto nelle citazioni vere o arieggianti dell'opera seria, decantata nelle parti «serie» degli «innamorati», sempre con una trasparenza significante, espressiva anche se ignora ancora la rivelazione romantica. Alcune tipologie e situazioni richiamate dalla tradizione settecentesca vengono richiamate in maniera emblematica, destinate a durare, diventano momenti di teatro. L'Introduzione ci immerge nel clima d'attesa d'una prova: la normalità conversativa, volutamente monotona, del Poeta stanco d'aspettare (È vicino il mezzo-giorno: annuncia; Son tre ore esordirà Don Pasquale, con stanchezza corposa nelle parole, a chiusura della parabola dell'opera buffa...) si apre all'arrivo dei personaggi. Le «notizie» di sempre annodano le voci sull'orchestra che corre impassibile, le entrate fanno vibrare una suggestione da Sei personaggi in cerca d'autore di Pirandello: l'ingresso degli attori, l'attesa d'evento misterioso.
L'aria di prova della primadonna è la reinvenzione d'un topos. La parodia dell'opera seria ricorre in tutto il Settecento a cominciare da La Dirindina (di Girolamo Gigli, Domenico Scarlatti, Roma 1715) che prova a recitar Didone. Meccanismo della citazione al grado perfetto, meccanismo dell'interruzione, spunto dell'improvvisazione, in questo caso guidata, intervengono a modellare la struttura abnorme ed estrosa di quest'aria. Viene citata direttamente, a partire dal recitativo E ad un tal patto solo..., l'aria forse più famosa del Cimarosa tragico: l'inizio dell'Allegro Maestoso di Curiazio: Quelle pupille tenere (scritto per il castrato Crescentini) che Stbendal riteneva il «plus bel air serio qui peutêtre existe». Parte esatta la citazione, contrappuntata dai “pertichini” di Maestro e Poeta, e subito si mette in moto il meccanismo di interruzioni e trasformazioni, che sfocia nel virtuosismo parodiato del canto vocalizzato di proteste.
La scena ed aria del Maestro che fa provare la nuova Sinfonia alle sezioni dell'orchestra è un'altra infallibile trovata nell'opera buffa del Settecento, dal Maestro di Cappella di Cimarosa all'Impresa d'opera di Guglielmi, alle Cantatrici villane di Fioravanti... La finta improvvisazione del buffo scherza con la agogica e dinamica orchestrale, stacca sezioni di strumenti, chiede effetti, contrasti, provoca il violino solista, gioca sul rapporto solo-tutti, partecipando nella ricerca di suoni delicati la gioia del compositore, e parodiandosi nell'insensatezza del discorso. Il sestetto delle lettere è forse la pagina più originale: all'arrivo della posta la prova va a rotoli, nasce un «concertato» di a parte confidenziali. Frasi d'attesa sospese legate con tenerezza, tipiche galoppate in sillabato, divertimento degli insuccessi altrui e piccole ansie, che arrivano da tutti i teatri lontani, s'accumulano, s'intrecciano in chiacchiericcio divertente e struggente, col violino solista che traccia un filo di intimità o arriccia la “catte.ria” dei teatranti. P- una pagina di concertazione goldoniana, consumatissima e tenera.
Forse il linguaggio di Francesco Gnecco non si stacca decisamente dal suo Settecento. Ma il suo sguardo è in avanti, sull'Ottocento che sta nascendo e che lungamente apprezzerà quest'opera. Ci pare di individuare il suo segreto nella libertà, nell'apertura a un virtuosismo, di ottica teatrale, non solo musicale, che mentre rifà il verso a quello settecentesco sembra prevedere le nuove forme d'inventività drammaturgica, raccoglie da una tradizione teatrale e musicale tutti gli spunti di improvvisazione, e offre spazio al nascente mito e potere ottocentesco della primadonna.
Notes
(²) P. CAMBIASI, La Scala 1778-1906, Milano 1906.
(³) Si riportano gli incipit soltanto dei pezzi contenuti nel libretto della
presente edizione.
(⁴) Nella partitura in due atti di Napoli, cfr. Nota 14, quest'aria di
Corilla, riportata dal libretto, manca, senza alcuna indicazione. Era lasciata
ad libitum?
(⁵) Nella partitura di Napoli questo recitativo e Rondò di Corilla Miseria,
io vado: addio... Non resiste in tal momento, riportati dal libretto, sono
indicati, ma mancano dal materiale.
(⁶) Da «Il Corriere Milanese», n. 66 del 19.8.1805.
(⁷) Nel contratto gli artisti chiedevano anche la serata a beneficio, il cui
incasso rimaneva a loro.
(⁸) Il duetto Corilla-Maestro, nella partitura di Parigi (cfr. Nota 14)
appare lievemente modificato rispetto alla versione in due atti. Dalla
partitura di Napoli apprendiamo che veniva talora sostituito dal duetto
composto dal Maestro Pietro Carlo Guglielmi, ivi incluso come alternativa. I
libretti di esecuzioni successive (Canobbiana 1837...) portano parole cambiate,
più vicine al duetto del Guglielmi.
(⁹) Madame Malibran par la Comtesse Morlin, Bruxelles 1838, vol. I, p.
72 ss.
(¹⁰) A. POUGIN, Histoire d'une cantatrice. Maria Malibran, Parigi, 1911, p.
94.
(¹¹) Come documentano le vicende dei materiali serviti a successive
esecuzioni; ne è esempio la partitura di Napoli, con la numerazione dei pezzi
più volte alterata e le annotazioni in margine.
(¹²) A. THURNER, Les Reines du chant, Parigi 1883, p. 130 citando da Lègouvé.
(¹³) Partitura manoscritta della
Bibliothèque Nationale di Parigi. Section Musique: D 4807, Comprende 11 Numeri,
completi dei relativi recitativi di collegamento. I nomi dei personaggi
presentano qualche diversità (sono stati unificati con la versione in 2 atti
per l'edizione 1983). Strumentale: Oboi, fagotti, corni, archi, clarini e
trombe. (1) Partitura manoscritta della Biblioteca del Conservatorio di Napoli,
in 2 atti. 2 volumi oblungi 27202. Vi è premessa una Sinfonia di Donizetti. La
partitura corrisponde completamente al libretto in 2 atti del 1805, per la
Scala. Vi mancano, segnalati ma smarriti: Aria Violante e Rondò finale Corifla.
Vi compare invece aggiunta un recit. e Cavatina in La di Corilla, collocata
prima del duetto soprano-tenore: S'ha sbagliato il maestro, / se vuol larmi il
capriccioso... Vi è inclusa anche la versione alternativa del duetto
Corilla-Maestro, scritta dal Maestro Pietro Carlo Guglielmi: Oh, guardate che
figura / da pretendermi in isposa.
Il materiale denuncia, attraverso le successive numerazioni dei pezzi
cancellate e sovrapposte, e con annotazioni, le scelte dei pezzi utilizzate per
varie rappresentazioni. Probabilmente servi a quella del San Carlo 1811. Una
numerazione essenziale, reca in nota la dicitura «così si è fatto nel Teatro
Nuovo»; la cronologia del Florimo non riporta tale esecuzione, ma nel 1807
L'apertura del nuovo teatro. Farsa anonima, attribuita al compositore Francesco
Gracco, potrebbe essere dicitura imprecisa, con nomi dei personaggi
napoletanizzati. La Cronologia degli spettacoli rappresentati a Napoli dal 1795
al 1851, del Capranica, manoscritta è lacunosa per questi primi anni.
Alla Biblioteca del Conservatorio di Napoli esiste anche una partitura
manoscritta in 1 atto.
La Biblioteca del Conservatorio di Firenze possiede due partiture
manoscritte in 2 atti, Strumentale della partitura in 2 atti (Napoli): Flauti,
Oboi, Fagotti, Clarinetti, Corni, Trombe, Trombone, Percussione, Archi.
Note biografiche
Genova 1768 - Milano 1810 (secondo alcuni Torino 1811)
Nasce «da onesta e civile famiglia, secondogenito di quattro fratelli. Sin dalla più tenera infanzia diede prove di buona disposizione alle belle lettere ed al verseggiare sotto la direzione dei Padri delle Scuole Pie. Mostrando altresì una straordinaria inclinazione pel violino, ebbe dal padre suo, Giambattista, il permesso di studiare i rudimenti di quel difficile strumento e primo suo maestro fu quel Melfiga che in quei tempi primeggiava nella nostra città fra i dilettanti violinisti. Poco dopo ebbe lezioni dal celebre Giacomo Costa, peritissimo primo violino di Genova ed esimio direttore d'orchestra che era nato in Genova nel 1762. Il Gnecco fu inviato a studiare il contrappunto da Lorenzo Mariani, di Lucca, che era maestro di cappella a Savona.» (dagli Elogi di Liguri Illustri di Don Luigi Grillo). Fu maestro di Paganini fanciullo per armonia e composizione, negli anni attorno al 1790 mentre il piccolo Nicolò s'avvia al violino con Giovanni Servetto ('92) e Giacomo Costa ('94), prima della sua partenza per Parma nel '95. Nel 1790 Gnecco sostituì Giovanni Carbonino in San Lorenzo a Genova. Nel 1792 compone la sua prima opera teatrale: Madama Auretta e Masullo ossia Il Contrattempo (Genova, Teatro Sant'Agostino) su libretto proprio, con successo. Seguì un'intensa attività di compositore d'opere, prevalentemente buffe e spesso su libretto proprio, nei maggiori teatri italiani, fino alla morte precoce.
Compose le opere: Madama Auretta e Masullo, ossia Il Contrattempo (Genova 1792); La contadina astuta (Firenze 1792); Il nuovo galateo (Sanpierdarena 1792); I filosofi burlati (Firenze 1793); L'indolente (G. Palomba 1793); Lo sposo di tre, marito di nessuna (Milano 1793); Le nozze dei Sanniti (Padova 1797); I due sordi (Genova 1798); La prima prova dell'opera «Gli Orazi e i Curiazi» (G. Artusi, Ve nezia 1803); Vonima e Mitridate (Venezia 1803); Le nozze di Lauretta (B. Mezzanotte, Roma 1804); Ar sace e Semiramide (G. Rossi, Venezia 1804); Il geloso corretto (Venezia 1804); Filandro e Carolina (Roma 1804); La prova di un'opera seria (Milano 1905); L'amore in musica (Bologna 1805); Gli ultimi due giorni di Carnevale (Milano 1806); I riti dei bramini (Livorno 1806); Argate (Napoli 1808); I falsi galantuomini (M. Brunetti, Milano 1809); Gli amanti filarmonici (Milano 1810).
Pubblicò: 2 Trii concertanti per pf., vl. e vlc. op. 2 (Vienna s.a.); 3 Quartetti concertanti op. 4 (Parigi s.a.). Restano manoscritte 1 Cantata, 3 Sinfonie, 1 Messa e numerose composizioni da camera.
Bibliografia: P. BERRI, Francesco Gnecco Maestro di Paganini, in «Genova», settembre 1967 (riporta Don L. Grillo citato).