IL TROVATORE
Premièr at Teatro Apollo, Rome – 19 January 1853
RADIOCORRIERE.TV
Una buona compagnia di can. to della quale fa parte il celebre tenore Del Monaco interpreterà per la Televisione Tronatore: un avvenimento, dopo i grandi e pieni successi che quest'opera di Verdi ha avuto in centoquat. tro anni.
Il Trovatore. rappresentato per la prima volta il 19 genna io 1853, Roma, precedette di due mesi scarsi La Traviata; e col Rigoletto appartiene alla trilogia dei romanzi lirici di Verdi. Comprende meno ele menti autobiografici della Traviata, ma è ancora più soggettivo e personale, più furiosamente originale. Opera di una novità tellurica, d'una selvag gia verginità di idee e di sentimenti.
Soffri più delle altre di quel la che fu l'eclissi dell'arte di Verdi; ed ora che l'arte di Verdi ha riconquistato o va ricon quistando i ceti colti e gli intellettuali, è ammirata più delle altre, con maggiore entusiasmo e con una specie di sgomento, Col Tronstore. Verdi ripeté il colpo dell'Ernani; e ne ingrandi l'effetto. L'Ernani era stato come l'ampliamento del manifesto romantico di Victor Hugo: il Trovatore, nel cui fuoco bruciò subito il dramma di Garcia Gutierrez da cui Salvatore Cammarano aveva tratto. il libretto, fu oltre al resto il proclama del puro romanticismo musicale italiano.
Sarebbe superfluo raccontare di nuovo la storia di questo melodramma. Il fratello del conte di Lana scomparve da bambino: lo dicono arso vivo Verdi non era mai stato e non fu più libero come in quest'opera nella quale egli si scatenò manifestando la più segreta e gelosa parte del suo genio da una strega per vendicare la propria madre, la quale era stata mandata al rogo dal conte vecchio. Non è vero. La strega. Azucena, buttò sul fuoco. per errore, il proprio figliuolo: e poi si tenne l'altro bambino. Manrico, il Trovatore, è appun to fratello del conte di Luna; ma ignora la sua origine e del conte è rivale. poiché ambedue amano Leonora. Leonora ama Manrico.
I soldati del conte arrestano Azucena. Manrico si arma per liberarla. Cade anch'egli prigioniero del conte. Li aspetta il rogo: il Trovatore è proprio l'opera delle pire.
Leonors, dopo aver bevuto un veleno, si offre al conte a patto che egli rimetta in libertà Manrico. Siamo alla catastrofe: mentre Leonora si spe gne e le fiamme avvolgono il Trovatore. Azucena grida al conte che l'uomo ucciso dal fuoco era suo fratello.
Il conte di Luna è scortato da familiari e da armigeri: il Trovatore ha i suoi partigiani: Azucena vive tra gli zingari. Le religiose di un convento pregano invano per far tornare un po' di pace in un mondo cosi orgoglioso e feroce dove il canto stesso è spesso sfide, minaccia, soddisfazione della vendetta.
Verdi non era mai stato e non fu più libero come nel Trovatore, Nel Trovatore egli si scatenò, manifestando la più segreta e più gelosa parte del suo genio. Senza rispetto umano, senza ritegno, con impeto irresistibile. Non si curò di uscire dalle vecchie convenzioni del teatro d'opera: le devastà. Le mise a ferro e fuoco. Rischio perfino di compromettere l'avvenire della sua arte.
Sia detto come tra parentesi: ma non si capisce ancora bene perché, mentre nelle opere dei tanti compositori stranieri che venivano opposti a Verdi. l'elemento intensamente e sinceramente paesano, aborigeno, era considerato un grande pregio. nel Trovatore doveva essere per forza un difetto e un vizio. Forse perché per apprezzarlo anche e soprattutto nel Trovatore si sarebbe dovuto riconoscere che proprio Verdi, balzando fuori dalla tradizione aristocratica del melodramma italiane, era stato il primo a scrivere melodrammi irreduci bilmente nazionali ma di valore universale? E perché non avrebbe mai permesso a nes sun rielaboratore di mettere le sue sottili mani bianche su par titure come quelle del Trovatore?
I famosi ritmi di danza sono rimasti cosi quelli che volle lui; e si dica la stessa cosa degli accompagnamenti scoperti e clamorosi, dei contrasti vocali di gusto popolaresco e, aggiangiamo pure, plebeo; delle cabalette, di certe cadenze troppo facilmente fiorite, di certe sgargianti aperture corali. I Trovatore. per fortuna, non è stato mai riverniciato.
I personaggi sbucano come dalla foresta e vi aggrediscono: certo, vi fermano. Non solo Manrico, con le sue armi ei suoi canti, il conte di Luna. suo rivale sul campo e nella musica, la fatale Azucena, gli zingari, gli armati, gli aguzzini: ma anche quella Leonora che è non tanto una candida vittima quanto una fiera amazzone. Tutti questi personaggi hanno qualche cosa di eroicamente brigantesco che ricorda appunto l'Ernani ed anticipa la Carmen di vent'anni buoni. Sono usciti dalle antiche selve italiche; non hanno né un pas so né gesti né voce civilizzati: quando suonano, chiamano la gente a raccolta; quando cantano, fanno fremere ed esultare.
Il canto di Leonora, nono stante pezzi scritti apposta per i singoli virtuosi, s'intreecin cosi spesso e così genero samente col canto di Manrico e col canto del conte di Luna, che sarebbe dannoso o comun que un peccato considerarlo a parte. Accompagnata dal liuto, la voce del Trovatore viene subito ad esprimere la medesima apprensione e il medesi mo slancio estatico. Più che a contraddire. la voce del conte baritone s'innalza a ribadire e a intensificare i motivi del dramma.
Le maggiori frasi del Trovatore trascendono i personaggi, sono come scale di luce in un cielo tempestoso. Chi non le ricorda? Chi non le ha sempre dentro di sé? Tacea la notte placids Come d'aurato sogno. D'amor su l'ali rosee Sei tu dal ciel disceso?. Ab si, ben mio. Il balen del suo sorriso. Riposa o madre... Ai nostri monti ritorneremo » e tante altre. L'intero Trovatore è solcato da lampi, come il cielo di una notte d'agosto.
Il contrasto principale è quel lo dell'amore pieno di speranza della morte pronta ad inghiottire tutto e tutti. Alle giovanili forze seree si contrappongono forze sotterranee, cavernose. I vulcani eruttano continuamente fumo, fuoco e lava sotto uno splendido cielo. Azunon ha cena, personaggio nulla da invidiare alle figure dei miti cupi di Wagner, riassume nel suo animo tormentato la misteriosa violenza interna di una terra, l'Italia, di cui gli stranieri hanno sempre compreso ed ammirato solo l'amena superficie. Azucena è tragicamente femmina. Figlia amorosa e devota, ha voluto vendicare la madre. Madre, ha sacrificato alla sua furia, senza saperlo, il figliolette. Donna, ha adottato il bambino che odiava ed ha imparato ad amarlo nonostante tutto. La sua vita è un rogo. Quella pira è il suo incubo.
La prima volta che la vediamo, la vediamo seduta vicino al fuoco, La prima volta che canta, le escono di bocca come lingue di fuoco: Stride la vampa Il dramma è legato con crudeli ritorte a questa rozza canzone che si divincola invano, geme, urla, delira: non implora e non prega, mormora scongiuri, ignora la speranza, la carità, la fede: e pure ha una strug gente nostalgia della pace originaria, anela come Verdi alla pace soavemente ristabilita del cristianesime. Avete mai pensato a che cosa potesse signi ficare per Verdi la parola Trovatore.
"IL TROVATORE,, di Verdi
L'oscuro dramma di Garcia Gutierrez - che Verdi trasfigurò in una vicenda profondamente umana, in cui i personaggi si muoveno in una atmosfera da tregenda, spinti da turibendi sentimenti ritorna questa sera alla TV nell'interpretazione di Marie Del Monaco, Lella Gencer Fedora Barbieri. Il vecchie melodramma che, nonostante le molte scorie e le manchevelesse, conserva intatta, a più di un secolo dalla nascita, la sua potenza d'urto nel cuore delle folle, fu rappresentata per la prima volta al Teatre Apollo di Roma il 19 gennaio 1853, presente l'autore. Nelle foto da sinistra: Mario Del Monaco (Manrice): Plinio Clabassi (Ferrando): Leila Gencer (Leonora); Ettore Bastianini (Il conte Luna)
“Il Trovatore„ di Verdi
con Fedora Barbieri, Mario Del Monaco e Leyla Gencer
Rispetto alla Traviata e al Rigoletto il Trovatore, che forma con le prime due opere la celebre trilogia popolare verdiana composta fra il 1851 e il 1853, si presenta drammaticamente meno unitaria. Nella Traviata e nel Rigoletto il personaggio protagonista sovrasta talmente l'azione, da ricondurre ogni motivo di questa, ogni suo aspetto, anche quelli apparentemente determinati da opportunità sceniche o decorative le scene di danza ad esempio), all'interesse centrale incarnatonella propria figura Pure nel Trovatore si erge potente mente il personaggio della zingara Azucena, combattuto fra la volontà di vendetta e l'amore materno, in compatibili fra di essi giacche la soddisfazione di un sentimento implica il sacrificio dell'altro; ma la figura di Azucena, nell'economia del dram ma, non si colloca in posizione cen trale. Ciò è dovuto naturalmente al libretto, che risente prima di tutto della farraginosità del dramma originario El Trobador del poeta spagnolo Garela Gutierrez, da cui Cammarano lo trasse, eppoi dal fatto di sgraziato che per l'improvvisa morte del Cammarano esso dovette essere terminato da un altro, il napoletano Leone Emanuele Bardare.
Se un tale libretto ostacolo l'unità drammatica dell'opera, esso d'altra parte, paradossalmente, stimolo l'im pulso al contrasto e al chiaroscuro espressivi, che costituiscono gli a spetti più personali dello stile verdiano.
Dopo il successo del Rigoletto, rappresentato alla Fenice di Venezia nel marzo del 1851, Verdi si era posto immediatamente al lavoro per le due nuove opere che aveva in mente: la Travista e il Trovatore. Al principio Verdi aveva portato innanzi il lavoro di composizione della Traviata e del Trovatore, contemporaneamen te, a Busseto, dove egli si era recato subito dopo l'andata in scena del Rigoletto, e dove era rimasto sino alla fine del 1851. Poi, tenuto conto della disponibilità dei cantanti che avrebbero interpretato le nuove ope re, aveva dato la precedenza al Trovatore, che venne rappresentato al teatro Apollo di Roma il 19 gen naio 1853, con un successo enorme.
In forza della musica l'opera si impose immediatamente, rinnovando il suo successo in tutti i principall teatri italiani e stranieri, al punto da conquistare una popolarità anche maggiore di quella del Rigoletto. La potenza della musica di Verdi tale infatti da risolvere nel proprio organismo perfetto e nella verità della propria espressione ogni in congruenza del libretto. Come scris se, al suo solito modo pittoresco, Bruno Barilli di Verdi e del Trovatore, ribolle, entro schemi rozzi, ma larghi e solidi, il suo tempera mento facinoroso e straordinario, sussulta la sua natura copiosa, scop piano i suoi canti capovolti, ripresi e innalzati clamorosamente. Chi abituato per una certa dimestichezza a fiecare le dita fra gli ingranaggi dei componimenti musicali, fa un salto indietro e rimane trasecolato al prorompere della sua foga folgo rante e irreparabile.. [Piers Sanit]
La parabola del Cicisbeo
terzo: ore 21.30
Il Seicento era stato un secolo di leggi ferree, contro le quali non c'era altro rimedio che la violenza. Ed è per questo che il teatro spagnolo di quel secolo è tanto pieno di rapine a mano armata, sequestri di persona, rapimenti. Don Giovanni, el burlador de Sevilla, ammazza volentieri i commendatori che lo disturbano nelle sue imprese galanti, mentre gli innamorati di Calderon e di Lope soccombono sotto il peso della ragion di stato o fanno i conti con la rigidezza dell'onor coniugale. Nei tetri palazzi si annidano ombre alla Rembrandt; nei cortili è un continuo bivacco di soldati mercenari, che fanno e disfanno bagagli, smontano e rimontano armi. Ma venne il Settecento, a far luce e a trasformare quelle caserme in villini civettuoli, erigendo nei parchi fontane d'acqua cedrata, fra amorini di marmo e aiuòle fiorite. E pose fine alla guerra crudele, combattuta sinceramente ma con esito funesto dalle anime sensibili contro la società insensibile, inaugurando una serie di felici compromessi che resero a tutti meno aspra la vita. Il preziosismo teorico dei padri divenne la galanteria pratica. dei figli, cioè norma comune, registrata in un codice. Il minuetto ordinò le file di una nuova società, che muoveva i suoi passi leggeri e s'inchinava con grazia, eleggendo l'ipocrisia a maestro di cerimonie. Fu a questo punto che comparve il cicisbeo. I domestici lo annunziarono e i mariti gli corsero incontro, sorridenti e grati: era il personaggio innocuo, elegante, servizievole, che l'Illumini smo metteva a disposizione della famiglia, per smussare le punte della vita quotidiana. Il cicisbeo sollevava il marito da una quantità di piccole, fastidiose incombenze; impediva alla moglie di annoiarsi; faceva da parafulmine alle sue crisi di nervi, ai suoi isterismi. Soprattutto, era il cuscinetto destinato ad attutire l'urto fra due caratteri contrastanti, e, quello ancora più grave, tra questi due. caratteri e il resto del mondo. Era un mediatore morale e sentimentale, ma non un vero personaggio, perché una dama faceva consistere il merito principale nell'amare teneramente il cicisbeo senza goderne e nel darsi al marito con avversione. Stendhal, scendendo a Milano, osserva la nuova moda con un certo stupore, e Lady Mary Montague parla di strani animali, la cui specie. non credevo esistesse sulla terra, se io stessa veduti non li avessi co' miei propri occhi.. Mi hanno assicurato, aggiunge, che il Senato stesso della città di Genova incoraggiò questa professione per procacciare un'occupazione ai giovani che, prima, pour passer le temps, si scannavano a vicenda. (Sempre lo stesso buon concetto che hanno di noi gli inglesi). Sembrerebbe che questa signora, come Stendhal, non avesse mai notato, fuori d'Italia, l'esistenza di un cicisbeo. Dunque un prodotto nostrano? Ma i Valentini, gli alcovisti, gli uomini di camera, e tante altre figure che, dal Medioevo in poi, in Francia, Inghilterra e nella stessa Germania sembrano preludere al nostro eroe? Comunque, da un certo momento in poi, l'usanza attecchisce in tut ta Europa. E per tutto il Settecento, prospera rigogliosa, nonostante le satire, le pasquinate, le invettive dei moralisti per esempio il gesuita Do menico Maria Antinori, i quall non credono affatto che sia una moda innocente. Dama e cicisbeo danzano a mano a mano con familiarità più che da congiunti! Qui si contraggono simpatie di amori scambievoli che si chiaman platonici: che, in riguardo di molti, potrebbero definirsi plutonici, cioè amori d'Inferno!. Si sa, i moralisti non sono storicisti. Considerano gli effetti, senza guardare alle cause. Il che li induce a pensare che un costume debba durare in eterno, quando invece ha da fare soltanto il suo corso e assolvere, o bene o male, il suo compito. Che magari è quello, come nel caso del cicisbeo, di affrettare la fine di una società corrotta, già in stato di avanzata putrefazione. [Gastone Da Venezia]
"Il Trovatore"
Il capolavoro verdiano ritorna
questa sera alla radio (ore 21, programma nazionale) nella spe ciale edizione
registrata dalla RAI con l'Orchestra e il Coro di Milano, sotto la direzione di
Fernando Previtali, e con un cast» eccezionale di cantanti: Mario Del Monaco
(Manrico); Fedora Barbieri (Azucena); Leyla Gencer (Leonora); Ettore Bastianini
(il Conte di Lu na); Plinio Clabassi (Fernando); e Laura Londi nella parte di
Ines.

Si commemora Giuseppe Verdi
prima dell'incidente che lo terrà lontano dalle scene per qualche tempo
Ricordiamo brevemente la vicenda: un paggio narra come alcuni anni prima una zingara facesse il malocchio a uno dei figli del conte di Luna, per cui fu bruciata viva. La zingara aveva una figlia che rapì il bimbo nella propria culla, col proposito di vendicarsi, e il giorno dopo, infatti, venne trovato lo scheletro di un bambino fra i resti di un rogo.
L'attuale conte di Luna, fratello del bimbo rapito e bruciato vivo, ama la giovane Eleonora, ma costei è innamorata idei Trovatore Manrico, che vive con la zingara, tua madre. Eleonora, credendo che Manrico foste morto in guerra, entra in un convento, ma il Trovatore la rapisce. Gli sbirri del conte di Luna arrestano la zingara, in aiuto della quale accorre il figlio Manrico, e anche costui viene arrestato. Eleonora chiede al conte la libertà di Manrico, promettendogli il suo amore, ma prima inferisce un veleno per non essere sua, e, quando entra nel carcere dov'è il Trovatore per comunicare a costui la liberazione, cade morta al suolo. Intanto il conte, fuori di sé, fa decapitare Manrico, mentre la zingara gli rivela che l'ucciso e il suo stesso fratello, poiché essa aveva gettato sul rogo, tanti anni prima, per tragico equivoco, il proprio figlio, adottando poi Manrico come tale.
OPERA NEWS
What
to Read and Hear > Opera News > The Met Opera Guild
...
may get a kick out of the post-synched black-and-white Italian video from the
1950s
under Fernando Previtali (Bel Canto, VHS; Leyla Gencer, Barbieri, Mario Del ...
Il
Trovatore > Opera News > The Met Opera Guild
...
investment plus a spectacular high C. Ettore Bastianini (di Luna) doesn't quite
match his astounding form in the 1957 RAI film opposite Leyla Gencer, but his
Video
> Opera News > The Met Opera Guild
...
Leyla Gencer, his Leonora, was not the spinto soprano dictated by tradition.
(Forget Milanov, forget Callas.) Never mind. She knew ...
COMPLETE RECORDING
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Recording Excerpts [1957.11.16]
C’é anche una ragione di storia e di struttura. La vicenda, da quando Pirandello l’ha fatta raccontare a Mommina in Questa sera si recita a soggetto, non ha più ragione d’esser considerata oscura né confusa: sono sorti e storie complesse di persone e di fatti che vengono a rivelarsi proprio mentre entrano violentemente a conflitto; e Verdi chiede di far sentire quanto vengano di lontano, proprio nel momento in cui si bruciano. La drammaturgia musicale dà credito alle “forme chiuse”, con i recitativi declamati, le arie distese, i concertati solenni, i cori di carattere e d’ambiente e di narrazione; ma i recitativi devono gravitare verso le arie, le arie devono essere dette come parole confessate, i concertati e i cori vissuti come momenti della gente che sta dentro all’azione e insieme sente il fatale convegno di chi canta e chi ascolta nel rito teatrale. L’orchestra, spoglia, essenziale, violenta, vuole la tinta integra verdiana, dove tutto si rifrange e nulla deve disfarsi, dove l’evidenza dev'essere immediata, ma pudica, e la bellezza essere data perchè necessaria al vero. E infine, difficoltà decisiva, questa partitura, datata 1853, è posta esattamente e come nessun’altra nel punto in cui il belcanto si rinsalda nella vocalità romantica, alta, eroica, ardimentosa, senza perdere la vaporosa, fantastica, sensuale leggerezza della grande tradizione del primo Ottocento.
C’é chi preferisce ascoltare il Trovatore in qualche stagioncina di provincia, approssimativo, rustico; si prega meglio nelle chiese di campagna. ‘Ma chi ama cercare non soltanto un ripasso mentale di quanto già si sa su quest’opera, ma anche un’avventura, un’attenzione alle rivelazioni e ai contributi interpretativi, deve muovere da una situazione concreta verso il Trovatore ideale, quello infinito, per così dire. In questo caso, la situazione concreta è l’esecuzione della RAI del 1957.
Ecco. Fernado Previtali la governa: saldo, attento, con la forza ed i limiti di chi ripassa la lezione tramandata. Piccoli adattamenti della tradizione; e il taglio consueto ma imperdonabile della cabaletta di Leonora “Tu vedrai che amore in terra”, pur disponendo dell’interprete che se la sarebbe divorata in un baleno. Mario Del Monaco è Manrico, Ettore Bastianini è il Conte di Luna, Fedora Barbieri Azucena; tre nomi dei più grandi. Ancora la rivoluzione del canto non era affermata; Maria Callas isolata vinceva riscoprendo Anna Bolena ed il segreto del soprano drammatico d’agilità, ma si era al tempo delle intuizioni, non delle scoperte diventate metodo critico. Così, i tre grandi cantanti si buttano sulle loro parti con forza, con impeto emozionante: eroi tutti d’un pezzo, credibili; pare che Manrico ed il Conte debbano sempre per davvero venire a duello; i due famosi contrasti, nel terzetto Fernando Previtali la governa: saldo, dell’atto primo e nella scena al convento sono: trascinanti; Azucena è vigorosa, incessante, generosa. E poi, tre grandi voci. Hanno la virtù della fiducia senza dubbi, senza chiaroscuri: chi mai avvertirà che i due sono fratelli, chi mai sentirà la presaga stanchezza nelle cantilene di lei? L’impatto eloquente prevale: come notava Roland Barthes scrivendo dell’arte vocale borghese, le intenzioni sono sempre sopraindicate, se si deve dire ‘‘orrore” bisogna che si drammatizzino anche le erre, in modo che proprio a nessuno sfugga che si tratta di orrori particolarmente terribili. Mario Del Monaco canta a gola spiegata, se ne avvertono i muscoli tesi, il gesto tenorile. Ettore Bastianini si aggiusta con le agilità, cerca di evitare le mezze tinte: fa affidamento alla bellezza impressionante del colore di voce, alla dignità malinconica e severa del personaggio, alla presenza umana. Fedora Barbieri si inventa continuamente una gioia di cantare e di stupire e di soffrire, da madre e zingara che ha temprato all’aria i polmoni di vagabonda.
Leyla Gencer pare arrivata in questo mondo da tutt'altra regione. Forse ha letto bene quello che ha scritto Gavazzeni sul Trovatore come Passione secondo Verdi; forse l’origine turca e la scuola della Arangi Lombardi l’hanno portata a cercare il brivido della parola edil respiro della musica prima e dopo il problema dell’emissione della voce; forse l’esempio della Callas le ha rivelato come la tragicità del melodramma si esprima non per enfasi ma per fedeltà allo spartito e allo stile del canto, fatto di scura sostanza drammatica e di sospese vertiginose aeree fioriture. Questo Trovatore è il documento d’un momento in cui in una compagnia di canto due modi ineramente diversi di concepire la tecnica e la partecipazione convivevano. Leyla attraversa lo spazio del Trovatore radiofonico come fosse in teatro; per lei la parola cantata deve spaziare fra le torri, i giardini, gli antri della prigione, e il cavo buio dove sta il pubblico, platea, palchi, loggione. Quando incontra parole un poco arcaiche, letterarie, vi indugia come ad un incontro polemicamente felice, quasi che la realtà fosse da ricercare nella poesia e non nella funzionalità delle cose: quando s’imbatte in un “mio”, in un “tua”, s'impossessa, si dona, la Leonora lunare prende carne e sangue. A volte ha sobbalzi al limite della. rottura: “‘Ch’ei m’oda, che la vittima fugga”; a volte un trillo lieve la smemora lontano. Quando canta “Di te, di te scordarmi!’’, la tenerezza, lo strazio, lasciano trapelare anche un’ombra d’offesa. Perbacco, è o non è Leonora, che non dimentica? Aveva o non aveva dettto già all’inizio con quella confessione incredula: “nol vidi più”? E s’era capito che non avrebbe mai scordato. Non c’è parola, frase, di questa Leonora, che contraddica il suo amore e il suo destino, la coerenza integra del suo personaggio. Malinconica dall’inizio per la ‘‘civil guerra”, quando s'incontra con il luogo ove gemono di stato i prigionieri non ha più dolore né sorpresa: deve correre al compimento dell’antico destino, che è morire per salvare. Leonora, ovvero Leyla, la vertigine del melodramma.
There is also an historical and structural reason for this. Ever since Pirandello explained the plot to us through Mommina in his Questa sera si recita a soggetto, it should no longer be considered either obscure or confusing. Here are a series of complex events and stories about persons and facts which are revealed precisely when they become violently conflicting; and Verdi also expects us to sense the distance from which these events have come to us, precisely at the moment in which they conflagrate. The musical dramaturgy justifies the use of ‘closed forms” with declamatory recitatives, soaring arias, solemn concertati, and a chorus which serves as background, as a collective personality, as a narrator of events; but the recitatives must gravitate towards the arias, the arias must be expressed as though they were a sort of “confession’”, the concertati and the choruses lived as though each individual member is a participant of the action and who contemporaneously ‘feels’’ the fatal meeting of both performer and witness of the theatrical rite. The orchestra - naked, essential, violent demands complete Verdian colour, in which everything refracts and nothing unravels, in which all evidence must be obvious but modest, and in which beauty is an essential part of the truth. Finally, and most difficult, this score dated 1853, is placed precisely and unlike any other, at the exact point where belcanto is consolidated with Romantic vocal art: noble, heroic, bold, but still retaining the vaporous, fantastic, sensual lightness of the great Ottocento tradition.
Some prefer hearing Trovatore during the brief season of some small provincial theatre, where it is in rough copy, rustic; they say one can pray better in a country church. But there are those who prefer not only to mentally review what they already feel and know about this opera, but who are also in search of an adventure, attention to certain new revelations and contributions of the interpreters, and so must move from a more or less concrete situation towards that of an “ideal’’ Trovatore, one that is infinite, so to speak. In this case the “concrete situation” is the RAI performance of 1957 contained in this album.
At the helm is Fernando Previtali: firm, alert, with the force and limitations of one who is passing on to us a lesson carefully learned; small adaptations of tradition, and the usual but unforgiveable cutting of Leonora’s cabaletta “Tu vedrai che amore in terra’’ despite the presence of an interpreter who could have tossed it off with ease. Mario Del Monaco is Manrico, Ettore Bastianini is the Conte di Luna, Fedora Barbieri is Azucena: three of the great names in opera. This was in the era before the so-called vocal revolution: a solitary Maria Callas was surging ahead discovering Anna Bolena and the secrets of the “soprano drammatico d’agilità”’, but it was also the era of intuition, not of discoveries which were eventually to become methods of criticism. Thus, these three great singers throw themselves into their parts with force, with emotional impetus: all heroes of a piece, credible. It seems that Manrico and the Count really must always duel with each other; the two famous contrasts in the trio of Act I and in the convent, scene are overwhelming; Azucena is powerful, incessant, generous. And not least of all, three great voices, each with the merit of being completely secure, without chiaroscuro effects: but - who then will inform us that the two heroes are brothers; who will ever guess Azucena’s fatigue from her cantilena? An eloquent impact prevails as Roland Barthese has pointed out in writing about the art of bourgeois singing, the intentions are always carefully indicated: if one has to sing “orrore” (horror) even the ‘1°’ must be dramatized so that nobody will fail to understand that it is really a horrible situation. Mario Del Monaco sings with an open throat; one can actually feel the tension in his throat muscles, his tenor’s “grand gestures.” Ettore Bastianini is outstanding for his agility, and seeks to avoid any shading of tones, entrusting his personage to the impressive beauty of his vocal colour, to its human aspects. Fedora Barbieri continuously re-creates the joy of singing, of surprise and of suffering, a mother, and a gypsy whose vagabond lungs have been tempered by the open outdoors.
Leyla Gencer seems to have arrived in this particular world from an entirely different planet. Perhaps she had read what Gavazzeni once wrote about Trovatore being the Passion according to Verdi; perhaps her Turkish origin and studies with Arangi Lombardi have guided her in seeking out the excitement of each word and have taught her to place primary importance on phrasing before and after the problem of producing vocal sound; perhaps the example of Callas had revealed to her how tragedy in opera is expressed not so much through emphasis but rather, through fidelity to the score and to the vocal style, and that it consists of secure dramatic substance and of vertiginous, suspended aerial fioriture. This Trovatore documents a situation where within a single cast one can find two completely different methods of conceiving both vocal technique and the act of participation. Leyla inhabits the radio space of this Trovatore broadcast as though she were singing on an opera stage; for her the sung word must reach beyond the towers, the gardens, and the dungeons of the prison; beyond the dark orchestra pit to the audience in the stalls, balconies and gallery. When she encounters those archaic, literary terms that fill this libretto, she lingers over them as though each were some polemically felicitous meetings, almost as though the reality of the situation were to be found in the poetry rather than in the function of things. When she comes across a “mio” (my) or a “tua” (your), she takes full possession of the meaning of the word, gives completely of herself, transforming the lunar Leonora into a carnate being. There are times when she jolts along almost to the breaking point, as in “Ch’ei m’oda, che la vittima fugga”; at times a light trill carries her eons away. When she sings “Di te, di te scordarmi” the tenderness and suffering also hints of offense. Goodness! is it or is it not Leonora who never forgets? Had she or had she not already incredulously confessed earlier: “non vidi più’? And it was immediately clear that she would never again have fogotten. There isn’t a single word, a single phrase in this Leonora that contradicts her love or her destiny, the integral coherence of her personage. Melancholic from the beginning because of the “civil guerra” (civil war), when she comes upon that place where the prisoners of State are interred, she is neither sad nor surprised; she must continue towards the conclusion of an ancient destiny, which is that she must die in order to save. Leonora, or, in other words, Leyla, a vertiginous reality in melodrama.
Vostro Aff.
G. Verdi
Atto secondo. Manrico, rimasto ferito nello scontro con il Conte, è riuscito a riparare in un accampamento di zingari fra i monti della Biscaglia, e riposa accanto ad Azucena, che egli ritiene essere sua madre (« Vedi! le fosche... Stride la vampa!... »). La zingara, sollecitata da lui, gli racconta un'altra volta la sinistra storia che la vide protagonista e vendicatrice di colei che, accusata di stregoneria, venne arsa viva dagli armigeri del vecchio Conte di Luna; e rievoca come, avvicinatasi, con il figlio sulle brac cia, alla condannata, poté ascoltare l'ultimo grido di lei che le ingiungeva di vendicarla e, come resa quasi folle dal dolore, per un fatale errore lanciò sul rogo il proprio bambino anziché uno dei due figli del Conte (« Condotta ell'era in ceppi... »). Manrico, fortemente turbato da questo racconto, vorrebbe conoscere finalmente la sua origine, ma la donna lo rassicura, ricordando le numerose prove d'affetto dimostrategli. In quel momento un messaggero viene a comunicare a Manrico che Leonora, credendolo morto in combattimento, ha deciso improvvisamente di entrare in convento; il giovane allora, preoccupato per la sorte dell'amata, si allontana rapidamente. Appresa l'intenzione di Leonora, il Conte di Luna decide di approfittarne, e con alcuni armati penetra nel chiostro per rapire la donna (« Il balen del suo sorriso...»). Manrico però, accorso con un drappello di soldati, riesce a sventare il progetto e a fuggire con Leonora.
Atto terzo. Nel suo accampamento, il Conte è torturato dalla visione di Leonora fra le braccia di Manrico, allorché sopraggiungono alcuni armati conducendo una vecchia in catene: è Azucena che, non avendo più alcuna notizia di Manrico, si aggira desolata nei dintorni alla sua ricerca. Mentre viene interrogata, Ferrando crede di riconoscere in lei la rapitrice e l'assassina del piccolo Garzia; per quanto essa neghi disperatamente, il Conte ordina di trascinarla al supplizio. Manrico e Leonora stanno per unirsi in matrimonio, mentre intorno fervono i preparativi per sostenere l'imminente assalto («Ah! sì, ben mio...»), quando giunge la notizia che gli ar mati del Conte hanno innalzato un rogo destinato ad Azucena. Manrico allora, dopo aver rivelato a Leonora che la zingara è sua madre, si preci pita fuori con i suoi soldati nella speranza di salvarla (« Di quella pira... »). Atto quarto. Sotto la torre dove Manrico, vinto in battaglia, è stato rinchiuso, Leonora ascolta i lamenti del prigioniero cui unisce la propria disperata invocazione (« Timor di me?... D'amor sull'ali rosee... Miserere... »). La donna cerca con ogni mezzo di salvare il suo amato, e al Conte, sopraggiunto per confermare ai carcerieri l'ordine di giustiziare all'alba Manrico e sua madre, offre se stessa in un disperato gesto (« Mira di acerbe lagrime...); il Conte, quasi incredulo, accetta, e Leonora si avvia verso la prigione, dopo aver bevuto, non vista, il veleno contenuto in un anello. Manrico e Azucena giacciono abbandonati in una oscura cella in attesa della morte liberatrice; vegliata dal giovane, la zingara, vinta dalla stanchezza e dalle orrende visioni che popolano la sua mente, si addormenta profondamente («Sì, la stanchezza m'opprime... Ai nostri monti... »). Giunge in quell'attimo Leonora, pallida e vacillante, venuta ad offrire la salvezza a Manrico; questi però intuisce subito a quale prezzo la donna abbia ottenuta la sua libertà e la respinge insultandola: egli comprenderà il sacrificio di lei troppo tardi, soltanto quando la vedrà stramazzare esanime ai suoi piedi, con lo sguardo traboccante d'amore. Il Conte allora, accorgendosi di essere stato ingannato, ordina di decapitare Manrico che, ancora sconvolto, riesce ap pena a rivolgere un ultimo addio ad Azucena. Questa, destatasi dal torpore in cui era caduta, avvicinandosi al Conte gli rivela con un urlo disumano che il trovatore, ora ucciso, altri non era che suo fratello: sua madre è stata dunque vendicata (« Ti scosta... Prima che d'altri vivere... »).