IL TROVATORE
Premièr at Teatro Apollo, Rome – 19 January 1853
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may get a kick out of the post-synched black-and-white Italian video from the
1950s
under Fernando Previtali (Bel Canto, VHS; Leyla Gencer, Barbieri, Mario Del ...
Il
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investment plus a spectacular high C. Ettore Bastianini (di Luna) doesn't quite
match his astounding form in the 1957 RAI film opposite Leyla Gencer, but his
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Leyla Gencer, his Leonora, was not the spinto soprano dictated by tradition.
(Forget Milanov, forget Callas.) Never mind. She knew ...
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Recording Excerpts [1957.11.16]
C’é anche una ragione di storia e di struttura. La vicenda, da quando Pirandello l’ha fatta raccontare a Mommina in Questa sera si recita a soggetto, non ha più ragione d’esser considerata oscura né confusa: sono sorti e storie complesse di persone e di fatti che vengono a rivelarsi proprio mentre entrano violentemente a conflitto; e Verdi chiede di far sentire quanto vengano di lontano, proprio nel momento in cui si bruciano. La drammaturgia musicale dà credito alle “forme chiuse”, con i recitativi declamati, le arie distese, i concertati solenni, i cori di carattere e d’ambiente e di narrazione; ma i recitativi devono gravitare verso le arie, le arie devono essere dette come parole confessate, i concertati e i cori vissuti come momenti della gente che sta dentro all’azione e insieme sente il fatale convegno di chi canta e chi ascolta nel rito teatrale. L’orchestra, spoglia, essenziale, violenta, vuole la tinta integra verdiana, dove tutto si rifrange e nulla deve disfarsi, dove l’evidenza dev'essere immediata, ma pudica, e la bellezza essere data perchè necessaria al vero. E infine, difficoltà decisiva, questa partitura, datata 1853, è posta esattamente e come nessun’altra nel punto in cui il belcanto si rinsalda nella vocalità romantica, alta, eroica, ardimentosa, senza perdere la vaporosa, fantastica, sensuale leggerezza della grande tradizione del primo Ottocento.
C’é chi preferisce ascoltare il Trovatore in qualche stagioncina di provincia, approssimativo, rustico; si prega meglio nelle chiese di campagna. ‘Ma chi ama cercare non soltanto un ripasso mentale di quanto già si sa su quest’opera, ma anche un’avventura, un’attenzione alle rivelazioni e ai contributi interpretativi, deve muovere da una situazione concreta verso il Trovatore ideale, quello infinito, per così dire. In questo caso, la situazione concreta è l’esecuzione della RAI del 1957.
Ecco. Fernado Previtali la governa: saldo, attento, con la forza ed i limiti di chi ripassa la lezione tramandata. Piccoli adattamenti della tradizione; e il taglio consueto ma imperdonabile della cabaletta di Leonora “Tu vedrai che amore in terra”, pur disponendo dell’interprete che se la sarebbe divorata in un baleno. Mario Del Monaco è Manrico, Ettore Bastianini è il Conte di Luna, Fedora Barbieri Azucena; tre nomi dei più grandi. Ancora la rivoluzione del canto non era affermata; Maria Callas isolata vinceva riscoprendo Anna Bolena ed il segreto del soprano drammatico d’agilità, ma si era al tempo delle intuizioni, non delle scoperte diventate metodo critico. Così, i tre grandi cantanti si buttano sulle loro parti con forza, con impeto emozionante: eroi tutti d’un pezzo, credibili; pare che Manrico ed il Conte debbano sempre per davvero venire a duello; i due famosi contrasti, nel terzetto Fernando Previtali la governa: saldo, dell’atto primo e nella scena al convento sono: trascinanti; Azucena è vigorosa, incessante, generosa. E poi, tre grandi voci. Hanno la virtù della fiducia senza dubbi, senza chiaroscuri: chi mai avvertirà che i due sono fratelli, chi mai sentirà la presaga stanchezza nelle cantilene di lei? L’impatto eloquente prevale: come notava Roland Barthes scrivendo dell’arte vocale borghese, le intenzioni sono sempre sopraindicate, se si deve dire ‘‘orrore” bisogna che si drammatizzino anche le erre, in modo che proprio a nessuno sfugga che si tratta di orrori particolarmente terribili. Mario Del Monaco canta a gola spiegata, se ne avvertono i muscoli tesi, il gesto tenorile. Ettore Bastianini si aggiusta con le agilità, cerca di evitare le mezze tinte: fa affidamento alla bellezza impressionante del colore di voce, alla dignità malinconica e severa del personaggio, alla presenza umana. Fedora Barbieri si inventa continuamente una gioia di cantare e di stupire e di soffrire, da madre e zingara che ha temprato all’aria i polmoni di vagabonda.
Leyla Gencer pare arrivata in questo mondo da tutt'altra regione. Forse ha letto bene quello che ha scritto Gavazzeni sul Trovatore come Passione secondo Verdi; forse l’origine turca e la scuola della Arangi Lombardi l’hanno portata a cercare il brivido della parola edil respiro della musica prima e dopo il problema dell’emissione della voce; forse l’esempio della Callas le ha rivelato come la tragicità del melodramma si esprima non per enfasi ma per fedeltà allo spartito e allo stile del canto, fatto di scura sostanza drammatica e di sospese vertiginose aeree fioriture. Questo Trovatore è il documento d’un momento in cui in una compagnia di canto due modi ineramente diversi di concepire la tecnica e la partecipazione convivevano. Leyla attraversa lo spazio del Trovatore radiofonico come fosse in teatro; per lei la parola cantata deve spaziare fra le torri, i giardini, gli antri della prigione, e il cavo buio dove sta il pubblico, platea, palchi, loggione. Quando incontra parole un poco arcaiche, letterarie, vi indugia come ad un incontro polemicamente felice, quasi che la realtà fosse da ricercare nella poesia e non nella funzionalità delle cose: quando s’imbatte in un “mio”, in un “tua”, s'impossessa, si dona, la Leonora lunare prende carne e sangue. A volte ha sobbalzi al limite della. rottura: “‘Ch’ei m’oda, che la vittima fugga”; a volte un trillo lieve la smemora lontano. Quando canta “Di te, di te scordarmi!’’, la tenerezza, lo strazio, lasciano trapelare anche un’ombra d’offesa. Perbacco, è o non è Leonora, che non dimentica? Aveva o non aveva dettto già all’inizio con quella confessione incredula: “nol vidi più”? E s’era capito che non avrebbe mai scordato. Non c’è parola, frase, di questa Leonora, che contraddica il suo amore e il suo destino, la coerenza integra del suo personaggio. Malinconica dall’inizio per la ‘‘civil guerra”, quando s'incontra con il luogo ove gemono di stato i prigionieri non ha più dolore né sorpresa: deve correre al compimento dell’antico destino, che è morire per salvare. Leonora, ovvero Leyla, la vertigine del melodramma.
There is also an historical and structural reason for this. Ever since Pirandello explained the plot to us through Mommina in his Questa sera si recita a soggetto, it should no longer be considered either obscure or confusing. Here are a series of complex events and stories about persons and facts which are revealed precisely when they become violently conflicting; and Verdi also expects us to sense the distance from which these events have come to us, precisely at the moment in which they conflagrate. The musical dramaturgy justifies the use of ‘closed forms” with declamatory recitatives, soaring arias, solemn concertati, and a chorus which serves as background, as a collective personality, as a narrator of events; but the recitatives must gravitate towards the arias, the arias must be expressed as though they were a sort of “confession’”, the concertati and the choruses lived as though each individual member is a participant of the action and who contemporaneously ‘feels’’ the fatal meeting of both performer and witness of the theatrical rite. The orchestra - naked, essential, violent demands complete Verdian colour, in which everything refracts and nothing unravels, in which all evidence must be obvious but modest, and in which beauty is an essential part of the truth. Finally, and most difficult, this score dated 1853, is placed precisely and unlike any other, at the exact point where belcanto is consolidated with Romantic vocal art: noble, heroic, bold, but still retaining the vaporous, fantastic, sensual lightness of the great Ottocento tradition.
Some prefer hearing Trovatore during the brief season of some small provincial theatre, where it is in rough copy, rustic; they say one can pray better in a country church. But there are those who prefer not only to mentally review what they already feel and know about this opera, but who are also in search of an adventure, attention to certain new revelations and contributions of the interpreters, and so must move from a more or less concrete situation towards that of an “ideal’’ Trovatore, one that is infinite, so to speak. In this case the “concrete situation” is the RAI performance of 1957 contained in this album.
At the helm is Fernando Previtali: firm, alert, with the force and limitations of one who is passing on to us a lesson carefully learned; small adaptations of tradition, and the usual but unforgiveable cutting of Leonora’s cabaletta “Tu vedrai che amore in terra’’ despite the presence of an interpreter who could have tossed it off with ease. Mario Del Monaco is Manrico, Ettore Bastianini is the Conte di Luna, Fedora Barbieri is Azucena: three of the great names in opera. This was in the era before the so-called vocal revolution: a solitary Maria Callas was surging ahead discovering Anna Bolena and the secrets of the “soprano drammatico d’agilità”’, but it was also the era of intuition, not of discoveries which were eventually to become methods of criticism. Thus, these three great singers throw themselves into their parts with force, with emotional impetus: all heroes of a piece, credible. It seems that Manrico and the Count really must always duel with each other; the two famous contrasts in the trio of Act I and in the convent, scene are overwhelming; Azucena is powerful, incessant, generous. And not least of all, three great voices, each with the merit of being completely secure, without chiaroscuro effects: but - who then will inform us that the two heroes are brothers; who will ever guess Azucena’s fatigue from her cantilena? An eloquent impact prevails as Roland Barthese has pointed out in writing about the art of bourgeois singing, the intentions are always carefully indicated: if one has to sing “orrore” (horror) even the ‘1°’ must be dramatized so that nobody will fail to understand that it is really a horrible situation. Mario Del Monaco sings with an open throat; one can actually feel the tension in his throat muscles, his tenor’s “grand gestures.” Ettore Bastianini is outstanding for his agility, and seeks to avoid any shading of tones, entrusting his personage to the impressive beauty of his vocal colour, to its human aspects. Fedora Barbieri continuously re-creates the joy of singing, of surprise and of suffering, a mother, and a gypsy whose vagabond lungs have been tempered by the open outdoors.
Leyla Gencer seems to have arrived in this particular world from an entirely different planet. Perhaps she had read what Gavazzeni once wrote about Trovatore being the Passion according to Verdi; perhaps her Turkish origin and studies with Arangi Lombardi have guided her in seeking out the excitement of each word and have taught her to place primary importance on phrasing before and after the problem of producing vocal sound; perhaps the example of Callas had revealed to her how tragedy in opera is expressed not so much through emphasis but rather, through fidelity to the score and to the vocal style, and that it consists of secure dramatic substance and of vertiginous, suspended aerial fioriture. This Trovatore documents a situation where within a single cast one can find two completely different methods of conceiving both vocal technique and the act of participation. Leyla inhabits the radio space of this Trovatore broadcast as though she were singing on an opera stage; for her the sung word must reach beyond the towers, the gardens, and the dungeons of the prison; beyond the dark orchestra pit to the audience in the stalls, balconies and gallery. When she encounters those archaic, literary terms that fill this libretto, she lingers over them as though each were some polemically felicitous meetings, almost as though the reality of the situation were to be found in the poetry rather than in the function of things. When she comes across a “mio” (my) or a “tua” (your), she takes full possession of the meaning of the word, gives completely of herself, transforming the lunar Leonora into a carnate being. There are times when she jolts along almost to the breaking point, as in “Ch’ei m’oda, che la vittima fugga”; at times a light trill carries her eons away. When she sings “Di te, di te scordarmi” the tenderness and suffering also hints of offense. Goodness! is it or is it not Leonora who never forgets? Had she or had she not already incredulously confessed earlier: “non vidi più’? And it was immediately clear that she would never again have fogotten. There isn’t a single word, a single phrase in this Leonora that contradicts her love or her destiny, the integral coherence of her personage. Melancholic from the beginning because of the “civil guerra” (civil war), when she comes upon that place where the prisoners of State are interred, she is neither sad nor surprised; she must continue towards the conclusion of an ancient destiny, which is that she must die in order to save. Leonora, or, in other words, Leyla, a vertiginous reality in melodrama.
Vostro Aff.
G. Verdi
Atto secondo. Manrico, rimasto ferito nello scontro con il Conte, è riuscito a riparare in un accampamento di zingari fra i monti della Biscaglia, e riposa accanto ad Azucena, che egli ritiene essere sua madre (« Vedi! le fosche... Stride la vampa!... »). La zingara, sollecitata da lui, gli racconta un'altra volta la sinistra storia che la vide protagonista e vendicatrice di colei che, accusata di stregoneria, venne arsa viva dagli armigeri del vecchio Conte di Luna; e rievoca come, avvicinatasi, con il figlio sulle brac cia, alla condannata, poté ascoltare l'ultimo grido di lei che le ingiungeva di vendicarla e, come resa quasi folle dal dolore, per un fatale errore lanciò sul rogo il proprio bambino anziché uno dei due figli del Conte (« Condotta ell'era in ceppi... »). Manrico, fortemente turbato da questo racconto, vorrebbe conoscere finalmente la sua origine, ma la donna lo rassicura, ricordando le numerose prove d'affetto dimostrategli. In quel momento un messaggero viene a comunicare a Manrico che Leonora, credendolo morto in combattimento, ha deciso improvvisamente di entrare in convento; il giovane allora, preoccupato per la sorte dell'amata, si allontana rapidamente. Appresa l'intenzione di Leonora, il Conte di Luna decide di approfittarne, e con alcuni armati penetra nel chiostro per rapire la donna (« Il balen del suo sorriso...»). Manrico però, accorso con un drappello di soldati, riesce a sventare il progetto e a fuggire con Leonora.
Atto terzo. Nel suo accampamento, il Conte è torturato dalla visione di Leonora fra le braccia di Manrico, allorché sopraggiungono alcuni armati conducendo una vecchia in catene: è Azucena che, non avendo più alcuna notizia di Manrico, si aggira desolata nei dintorni alla sua ricerca. Mentre viene interrogata, Ferrando crede di riconoscere in lei la rapitrice e l'assassina del piccolo Garzia; per quanto essa neghi disperatamente, il Conte ordina di trascinarla al supplizio. Manrico e Leonora stanno per unirsi in matrimonio, mentre intorno fervono i preparativi per sostenere l'imminente assalto («Ah! sì, ben mio...»), quando giunge la notizia che gli ar mati del Conte hanno innalzato un rogo destinato ad Azucena. Manrico allora, dopo aver rivelato a Leonora che la zingara è sua madre, si preci pita fuori con i suoi soldati nella speranza di salvarla (« Di quella pira... »). Atto quarto. Sotto la torre dove Manrico, vinto in battaglia, è stato rinchiuso, Leonora ascolta i lamenti del prigioniero cui unisce la propria disperata invocazione (« Timor di me?... D'amor sull'ali rosee... Miserere... »). La donna cerca con ogni mezzo di salvare il suo amato, e al Conte, sopraggiunto per confermare ai carcerieri l'ordine di giustiziare all'alba Manrico e sua madre, offre se stessa in un disperato gesto (« Mira di acerbe lagrime...); il Conte, quasi incredulo, accetta, e Leonora si avvia verso la prigione, dopo aver bevuto, non vista, il veleno contenuto in un anello. Manrico e Azucena giacciono abbandonati in una oscura cella in attesa della morte liberatrice; vegliata dal giovane, la zingara, vinta dalla stanchezza e dalle orrende visioni che popolano la sua mente, si addormenta profondamente («Sì, la stanchezza m'opprime... Ai nostri monti... »). Giunge in quell'attimo Leonora, pallida e vacillante, venuta ad offrire la salvezza a Manrico; questi però intuisce subito a quale prezzo la donna abbia ottenuta la sua libertà e la respinge insultandola: egli comprenderà il sacrificio di lei troppo tardi, soltanto quando la vedrà stramazzare esanime ai suoi piedi, con lo sguardo traboccante d'amore. Il Conte allora, accorgendosi di essere stato ingannato, ordina di decapitare Manrico che, ancora sconvolto, riesce ap pena a rivolgere un ultimo addio ad Azucena. Questa, destatasi dal torpore in cui era caduta, avvicinandosi al Conte gli rivela con un urlo disumano che il trovatore, ora ucciso, altri non era che suo fratello: sua madre è stata dunque vendicata (« Ti scosta... Prima che d'altri vivere... »).