Appangante L'atteso Ritorno della «Francesca da Rimini«
Caloroso successo del suggestivo spettacolo diretto dal
M° Capuana ...Opera complessa musicalmente e spettacolarmente, «Francesca» ha
trovato nel maestro Franco Capuana, ritornato sul podio del Verdi dopo il
«Simon Boccanegra», inaugurale, il direttore vigile e sicuro che ci voleva per
evitare qualsiasi incertezza. Anche il secondo atto, fragoroso e un po’
confusionario per antonomasia, è stato sorretto con polso ferreo, su un livello
eccellente. Sotto la bacchetta di Capuana l’orchestra sempre validissima ha
cantato con generosità e opulenza di timbri avvolgendo i momenti di più
incatenante tensione con trascinanti onde sonore. Una esecuzione veramente
eccellente, che il pubblico ha rimeritato di festosi applausi. Enzo Dehò, come
già nel «Boccanegra», ha dimostrato di avere grandemente affinato il suo estro
scenografico. Un medioevo ricreato con elegante estro pittorico ha fatto da
cornice alla vicenda tra Ravenna e Rimini. Robusto e incombente il taglio della
piazza della torre, così da dare la massima credibilità ai movimenti guerreschi
dei difensori. Arioso il loggiato dei Polentani, come nel disegno di un
primitivo. Dorature e liocorni hanno dato smalto alla sala dell’ultimo atto,
mentre la camera di Francesca si è armonizzata, pur senza eccellere nel tono
della scenografia. Una lode tutta particolare ai costumi (provengono
dall’allestimento televisivo) veramente felici per accostamenti cromatici ed
efficacia ambientale, con certi rossi dominanti e ricorrenti. Non era facile
trovare interpreti adeguati, ma il Verdi può dire di esserci ottimamente
riuscito. Il soprano turco Leyla Gencer, che dal debutto al Castello con
«Traviata» ha inanellato numerosi successi triestini, fino alla grande
interpretazione dell’«Angelo di Fuoco», è stata una Francesca di intensa
sensibilità nella sua disperata lotta contro un amore troppo forte. Nella
Gencer è rivissuto veramente il dramma della donna dolce e appassionata
travolta dalla passione. E la scena negli incubi eseguita perla prima volta, ha
accentuato il delirio della sua soave e tragica figura. In quanto alla voce è
stata anche sempre calda e vibrante. Per «Maria d'Alessandria» avevamo scritto
che ci auguravamo un pronto ritorno del tenore Renato Cioni, ma non sapevamo di
essere accontentati così presto. Cioni ha preso infatti il posto di Campora
perla parte di Paolo il Bello e crediamo di averci guadagnato, perchè abbiamo
ascoltato una voce fresca e squillante, sulla cresta dell’onda dopo il
brillante debutto alla Scala nella «Butterfly». E' stato quello di Cioni un Paolo
più generoso che raffinato, più appassionato che languido: un Paolo dagli acuti
lucenti e dal fraseggio virile che ha saputo però plasmare alle esigenze del
personaggio. Una prestazione ammirevole. Anselmo Colzani è oggi tra i migliori
baritoni italiani e ieri ha presentato al nostro pubblico una magnifica
caratterizzazione di Gianciotto delle sue ire delle sue violenze e dei suoi
dubbi con la sua voce forte e pregnante. Sul tenore Mario Ferrara eral’ombra di
Nessi, interprete indimenticabile di Malatestino ma Ferrara ha dimostrato di
non temerla poichè già in «Kovancina» aveva collaudato le sue insolite
capacità. Ne è uscita così una figura di tutto rilievo che ha dominato la scena
dell’insidia e della delazione con la sua incisività drammatica e con unimpeto
vocale quale da tempo il personaggio aveva perduto. Lodevole la schiera degli
altri interpreti (la Gasparini, la Martinelli, la Laghezza, la Comin, la
Ronchini, la Hussu, il Viaro, il Giombi, il Botteghelli e il Mucchiutti),
mentre il coro istruito dal maestro Fanfani è stato come sempre generoso ed
efficace. La regia di Aldo Mirabella Vassallo si è fatta molto apprezzare
soprattutto nei due primi atti per l’intelligente animazione del quadro
scenico. Per tutti gli applausi intensi e calorosi di un pubblico numeroso ed
entusiasta.
IL
PICCOLO
1961.03.17
«Francesca da Rimini« Quattro atti di Ricccardo Zandonai
Pregevole direzione del M.° Franco Capuana Vivo successo
personale del soprano Leyla Gencer Il maestro Franco Capuana, conoscitore
acutissimo della «Francesca» e dei suoi connotati musicali, ne ha messo in
evidenza di volta in volta la concitazione dei quadri drammatici e la vaga e
trasfigurante fantasia delle atmosfere coloristiche; il direttore ha inoltre
condotto con lievità di polso le progressioni e le smorzature sonore delle
scene amorose e con epica impennata gli scontri guerreschi, e il canto della soldatesca
e ha tenuto saldo e sicuro il vincolo tra l'orchestra, sempre obbediente e
precisa oltrechè espertissima e capace, il coro e i cantanti sui quali terremo
breve discorso essendo troppi di numero. Anzitutto il ritorno grato e ambito
della signora Leyla Gencer interprete di Francesca che ha dato all’opera un
tono di elevazione artistica ben percettibile sia per le superbe qualità
vocali, sia per la penetrante intelligenza scenica della cantante che ha
raffigurato il personaggio con regalità e intima dolcezza, con travaglio di
passione e abbandono amoroso, con fierezza d’accento ed emotività
d'espressione, tutta fragrante e raggiante di sentimento primaverile, trepida
nell'attesa fatale e succuba «ai doloroso fatto». Modellazione della Gencer di
luminoso rilievo e di piena consapevolezza che le valsero i fervidi consensi
del pubblico. Il quale si è trovato ieri alla presenza di giovani cantanti
riccamente dotati di voce, come il tenore Renato Cioni che ha sentito Paolo
eroicamente nella battaglia e appassionatamente nella febbre d’amore,
prodigando e dispiegando insolito vigore di belle note con lucentezza di
squillo, senza risparmio, con spontaneità e larghezza di respiro non sempre
vantaggiose alla caratterizzazione del personaggio. Bene si addice la violenza
e l’invettiva canora al truculento Giovanni lo sciancato che ha trovato nel
baritono Anselmo Colzani pienezza di espansione vocale, incisività di edizione
e qualche tratto enfatico nel decantare la vittoria delle armi che mette in
delirio Malatestino l’arciere orbo di un occhio, sottilmente impersonato dal
tenore Mario Ferrara che ne ha reso con efficacia i lineamenti vocali e le
insidiose trame contro Francesca. Quanto alle figure marginali che entrano nel
gioco della corte dei polentani, occorre notare le valide prestazioni di Anna
Gasparini come Samaritana, graziosamente affiancata a Francesca, vocina di
stretta emissione ma bene educata; di Enzo Viaro nei paludamenti di Ostasio
ottimamente sbozzato, di Raimondo Botteghelli espressivo nei panni di ser Toldo
e del Balestriere; Claudio Giombi eccellente nel canto del Giullare e di Eno
Mucchiutti diligentissimo Torrigiano. Le donne di Francesca, allegrezza della
corte, hanno molto da cantare e brigare e hanno richiesto vivo impegno e pieno
rendimento alle interpreti: signore Martinelli, Hussu, Comin, Ronchini e
Laghezza le quali nel primo atto hanno meglio assolto il compito che nel
secondo vocalmente in stile monodico reso complesso e difficile dalla danza
primaverile di sapore botticelliano. Ma l’intervento del regista Aldo Mirabella
Vassallo ha creato in questa e nelle altre scene armonia ed eleganza di
movimenti, logica di posizioni e consonanza di atteggiamenti con gli episodi,
come si è visto nell’atto della battaglia ove la coralità tutta maschile e
fortemente accentata, sotto la guida del direttore Adolfo Fanfani, si è imposta
per compattezza e splendore di voci.
OPERA MAGAZINE
1961 June
IL PICCOLO
1961.11.18
COMPLETE RECORDING
1961.03.16
Recording Excerpts [1961.03.16]
Madonna
Francesca! Act I Scena I
Questi
giullari et uomini di corteAct I Scena III
Ohime
che adesso io provoAct I Scena IVa
Francesca,
dove andraiAct I Scena IVb
O
Francesca, anima miaAct I Scena IVc
Viene!
Viene! MadonnaAct I Scena IVd
E'
ancora sgombro il campo del comuneAct II Scena I
Paolo!
Francesca!Act II Scena III
Per
Dio, gente poltronaAct II Scena IVa
E
dolce cosa rivedere la vostra facciaAct II Scena IVb
O
sciagura, sciagura!Act II Scena IVc
Deh
… creatura allegraAct III Scena IIIa
Andate
in allegrezza per la corteAct III Scena
IIIb
Benvenuto,
signore mio cognatoAct III Scena IVa
Paolo,
datemi pace!Act III Scena IVb
Perche
volete voi ch'io rinnoviAct III Scena IVc
E
Galeotto dice, Dama, abbiateneAct III Scena IVd
Perche
tanto sei stranoAct IV Part I Scena I
Mia
cara donna, voi m'attendevateAct IV Part I
Scena IIa
Torna
MalatestinoAct IV Part I Scena IIb
Oh!
No, no! Non sono io! Act
IV Part II Scena IIa
O
Biancofiore, piccola tu sei!Act IV Part II Scena IIb
E
cosi vada s'e pur mio destino!Act IV Part II Scena III
FROM CD BOOKLET
FRANCESCA DA RIMINI
INGHIRLANDATE DI VIOLETTE
BY GIANNI GORI
Bisognava dunque attendere una ristampa ‘‘live” perché ‘Francesca da Rimini’’- opera di perdurante predilezione popolare - trovasse un’edizione discografica da affiancare alla gloriosa e ormai introvabile edizione Cetra diretta nel 1952 da Antonio Guarnieri, con Maria Caniglia, Giacinto Prandelli, Carlo Tagliabue.
Il secondo atto dell’opera ‘nell'edizione teatrale qui riprodotta risulta incompleto per un ampio taglio operato dal direttore d'orchestra”.
Subito, dunque, in evidenza l’importanza di questa incisione: contributo interpretativo per molti aspetti fondamentale, quanto inatteso, sia perché espresso da una registrazione dal vivo ormai d'archivio storico (1961), sia perché proveniente da una operosa ‘‘periferia’’ come quella del ‘‘Verdi’’ di Trieste.
A questo teatro, il più periferico fra i teatri italiani, ma anche questo caratterizzato da una salda tradizione culturale, Leyla Gencer ha legato talune sue creazioni interpretative atipiche ed irripetibili nell'arco della sua splendida carriera di ‘tragédienne’’ del primo romanticismo: Carlotta nel ‘Werther’ e Renata nell’‘‘Angelo di fuoco” di Prokofiev (1959), per arrivare più recentemente alla ‘‘Falena”’ di Smareglia (1975).
In una posizione particolarissima, benché le affinità protoromantiche la inseriscano nella temperie stilistica a lei più congeniale, si colloca l’Agata del ‘‘Freischttz’’ del 1956, seguita, l’anno dopo da una leggendaria ‘Lucia’.
A queste esperienze in un certo senso isolate e ai margini del suo itinerario artistico, appartiene Francesca: una folgorazione a San Francisco nel ’56, che si ripete nel’61 a Trieste; su un palcoscenico che già aveva assistito, nel 1926, ai furiosi amori di Gilda Dalla Rizza e di Agostino Capuzzo e che aveva visto passare Francesche di statuaria bellezza fino alla Franca Somigli del 42 e del ’45.
Nonostante i limiti della registrazione dal vivo con gli inevitabili rumori di scena o con l’imbeccata, talvolta prevaricante, del suggeritore, questa edizione documenta in modo vivo e affascinante un avvenimento, che né gli spettatori di allora, né gli stessi interpreti riuscirono forse a valutare nella giusta misura.
E documenta soprattutto un momento di ‘civiltà operistica’, che oggi - a vent'anni di distanza - sembra appartenere ad una remota ‘età dell'oro”. Stupisce il livello dell'esecuzione, garantito da un direttore di coscienza e coerenza stilistica come Franco Capuana (quanta nostalgia per direttori come questo, se guardiamo alla estesa ‘‘routine’’ odierna!), il quale mette subito in luce, nella chiara prospettiva e nell’omogeneità dell’interpretazione i valori di un’orchestra, allora, di primissimo ordine.
Si ascolti la luminescente concitazione dell’*‘allegretto mosso” d'apertura o, quasi all’altro estremo dell’opera, lo stacco frenetico dei violini che nel primo quadro del quarto atto incalzano l’angoscioso sospetto di Gianciotto.
Momenti di una visione unitaria ed intensa, di diafana ed inquieta introspezione.
Una folgorazione, appunto (come perla Gencer a San Francisco) che coinvolge felicemente l'intero palcoscenico: il Paolo appassionato di Renato Cioni, che strappa l’applauso a scena aperta nel duetto del secondo atto (‘il vostro viso mostrava ella nudato al mio dolore’) e che nel '65 sarebbe tornato ad entusiasmare, nei panni di Edgardo, con i suoi distefaniani ardori il pubblico triestino, prima di esaurire troppo rapidamente le promesse di una bella carriera; un Gianciotto (Anselmo Colzani di esemplare misura drammatica, mai scardinata dalla brutalità; qualche trepida eco femminile a far da aureola a Francesca; la cavalleresca configurazione del giullare (Claudio Giombi); la presenza del coro preparato da Adolfo Fanfani.
AI centro di questo paesaggio sentimentale ed estetizzante - di sangue e di sensualità - tracciato da D'Annunzio e dall’arioso vagheggiamento musicale di Zandonai, Leyla Gencer dispiega una delle sue più fascinose lezioni drammatiche. La natura della sua Francesca vive su un inedito equilibrio fra la sensitiva eloquenza lirica di D'Annunzio (il segno netto e flessuoso della parola sentito come nervatura esistenziale) e l’estenuata, crepuscolare vocazione della musica di Zandonai, quando non sopravanzi, nel secondo e nella prima parte del quarto atto, l’empito verista.
Colpisce, dunque, nella sua interpretazione, la capacità di conciliare le ragioni dannunziane con quelle musicali, non sempre convergenti, come le fortune dell’opera lascerebbero intendere. La sua vocalità vive quasi la coscienza del personaggio, sicché la voce di Francesca nella chiarità dell'attesa accanto a Samaritana è diversa da quella che si getta nei guerreschi bagliori del secondo atto, mentre la voce che accomiata le ancelle nell'ultima scena, non è più quella delle rabbrividenti dolcezze del terzo atto. E’ una Francesca, quella della Gencer, che va incontro alla propria tragedia per libera scelta, non per volontà del destino, con suprema e non “acerba voluttà”.
Preannunciata dallo struggente coro interno delle donne (che Capuana evoca quasi da una prospettiva di lontane memorie, rendendone poi più straziante il ritorno, nel quarto atto, nel momento soavissimo del congedo di Francesca, ‘“Ora andate, tutte bianche siete!’’) l’entrata di Leyla Gencer - ‘“Come l’acqua corrente che va...’ - ha una nobiltà che il presagio non intacca.
Si ascolti la profondità espressiva di quella frase, ‘‘Eglié venuto!’’, tesa e subito evanescente. Mirabile è soprattutto la fluente eleganza di fraseggio e di modulazioni nella scena con Samaritana, che approda al “largo cantabile”’, "E si morrà, ormai, e si morrà tuttavia’’, e all’ansiaimprovvisa svettante sul “do” (‘‘Diteli ch’io lo saluto) in una febbrile ma lucidissima esaltazione. Ed ecco, invece, nell’atto successivo, l’‘‘altra voce’ della Gencer, nel momento rituale ‘largo e solenne” della coppa (‘‘Bevete, mio cognato’’) dove l'accento acquista fibre più cupe e tormentose.
Tutto ilterzo atto della Gencer vive nella luce di un gusto infallibile, che va dal morbido “‘legato”’ di ‘‘Paolo, datemi pace! E’ dolce cosa vivere obliando”’, al voluttuoso allargarsi della lettura, “Elareina vede il cavaliere...’’, dove ogni parola sembra assaporata nella sua risonanza musicale più riposta.
Infine la purezza elegiaca del colloquio con Biancofiore, solo increspata dal desiderio di Samaritana, ovvero della fanciullezza perduta, e di quel ‘‘suo piccolo letto accanto al mio”, e dove una palpitante linea emozionale guida al'approdo del pianto (‘‘Non te ne andare, non m’abbandonare’’): soprassalti dell'anima, non di un gesto. L’interpretazione della Gencer è illuminante anche in questo: nel superamento di ogni impulso e di ogni effetto verista.
Il decadentismo della sua Francesca acquista infatti una sorta di classicità, proprio quella neoclassicità dannunziana sulla quale la parola fiorisce e dalla quale infine balza l’eroica plasticità della risoluzione finale: ‘‘E così vada s'è pur mio destino!”’.
Si rispecchia nel canto di Leyla Gencer, e in questa sua esperienza senza continuita, un altro profilo regale (quei profili regali tanto cari alla sua sensibilità): una regalità senza trono, incoronata solo di sfiorite violette, e di pallore, nel crepuscolo di una luce mediterranea.
FROM CD BOOKLET
FRANCESCA DA RIMINI
A GARLAND OF VIOLETS
BY GIANNI GORI [Translated by Katerina Siberblatt Wolfthal]
Not until this reprint of a live performance did, we have a complete recording of ‘Francesca da Rimini’ – an opera of undying popular appeal - worthy of standing beside the glorious but now almost unobtainable Cetra edition conducted by Antonio Guarnieri in 1952, with Maria Caniglia, Giacinto Prandelli and Carlo Tagliabue.
The second act of that performance is incomplete, owing to a long cut made by the conductor. The importance of the present recording, therefore, is all the more evident. It provides a contribution to the interpretation of this opera in many ways as basic as it is unexpected, both because this recording of a live performance has by now become part of our historic archives (1961) and also because it took place in an industrious theatre, Trieste’s Teatro Verdi, on the “‘outskirts’’ of the operatic mainstream.
The Teatro Verdi is the least central of the Italian opera houses, but perhaps for this very reason it has a solid cultural tradition, and it is to this theatre that Leyla Gencer has given some of her most original and unrepeatable interpretations, in the course of her splendid career as an early Romantic ‘‘tragédienne’’, with roles including Charlotte in Massenet’s Werther and Renata in Prokofiev’s The Flaming Angel (1959), up to the more recent ‘‘Falena’’ by Smareglia, in 1975.
Gencer's 1956 performance of Agatha in Der Freischütz followed, a year later, by a legendary Lucia, occupy a very special position, although their affinities with the early Romantic genre place them well within the stylistic context most congenial to the soprano.
Francesca belongs to the catalogue of these experiences, in a certain sense isolated and on the fringes of Gencer's artistic career: a ‘‘coup de foudre’’ at San Francisco in 1965, repeated at Trieste in 1961, on a stage which had witnessed the passionate love of Gilda Dalla Rizza and Agostino Capuzzo in 1926 and the passing of such statuesquely beautiful Francescas as Franca Somigli in 1942 and ’45.
Despite the limitations of live recordings, with the inevitable stage noises and the prompters at times prevaricating cues, this performance is the vivid, exciting document of an event which neither the spectators on that occasion nor even, perhaps, the performers themselves were able to evaluate at its true worth.
And it is above all a document of a moment of “operatic civilization”, which today - twenty years later - seems to belong to a remote “‘golden age”. The level of the interpretation is amazingly high, sustained by the conducting of Franco Capuana, a serious, stylistically coherent musician (how we miss such conductors now, as we look at the grey routine of today’s performances!) who immediately brings to light, in the clear perspective and homogeneity of his interpretation, the value of what was then a first-class orchestra.
Listen to the luminous excitement of the opening ‘‘allegretto mosso” or, toward the end of the opera, in the first scene of Act Four, the frenetic staccato in the violins which underlines Gianciotto’s anguished suspicion.
Moments of total, intense vision, of diaphanous, restless introspection. A lightning bolt (as we said a propose of Gencer in San Francisco) which illuminates the entire stage: Renzo Cioni’s impassioned Paolo, reaping applause in midscene during the second-act duet (“il vostro viso mostrava ella nudato al mio dolore”); Cioni returned in ’65 to delight the Triestine audience with his fervent Edgardo in the manner of Di Stefano, only to exhaust, all too soon, the promise of a brilliant career; Anselmo Colzani’s exemplary dramatic equilibrium as Gianciotto, never unbalanced by brutality; a few timid female echoes surrounding Francesca like a halo, the courtly profile of the minstrel (Claudio Giombi), and the chorus trained by Adolfo Fanfani.
At the centre of this sentimental, aesthetic scenario - a landscape of blood and sensuality - drawn by D’Annunzio and set to the elegant melodic evocations of Zandonai, Leyla Gencer gives one of her most enthralling dramatic interpretations.
Her Francesca succeeds in achieving the difficult balance between D’Annunzio’s sensitive lyric eloquence (the clear, sinuous design of the words, heard as the central framework), and the weary, crepuscular strains of Zandonali’s music, except where moments of veristic impetuosity emerge in the second act and the first part of the fourth.
What is particularly striking about Gencer's interpretation in her ability to reconcile D’Annunzio’s conception with that of Zandonai.
That their ideas do not always converge is clear from the discontinuous fortunes of the opera. Gencer’s singing almost becomes the personification of her role, so that the voice of Francesca in the clarity of her vigil with Samaritana is different from the voice abandoned in the outburst of Act Two, while the voice which dismisses her maids in the closing scene is no longer the same as the voice of shimmering sweetness in Act Three.
Gencer’s Francesca goes to her tragic destiny of her own free will - not constrained by fate, she goes with supreme, rather than “bitter desire”’. Announced by the poignant women’s chorus (which Capuana evokes almost as it from a store of distant memories, making its return in the fourth act even more touching, at the tender moment when Francesca sends them away: “Ora andate, tutte bianche siete!”’), Leyla Gencer’s entrance, ‘‘Come l’acqua corrente che va” has a nobility that no premonition of doom can undermine. Listen to the expressive depth of the phrase ‘Egli è venuto”’ - tense and evanescent. Especially admirable is the flowing elegance of Gencer’s phrasing and modulations in the scene with Samaritana, leading to the “largo cantabile”’ “‘E si morrà, ormai, e si morrà tuttavia”’, and the sudden, anguished flight to high C (‘‘diteli ch'io lo saluto’), rendered with febrile but lucid exaltation.
And here, in the next act, is the ‘‘other voice”’, at the ritual moment, “largo e solenne”, of drinking (‘‘Bevete, mio cognato’’), where Gencer’s tones take on darker, more tormented shadings. Gencer sings the entire third act in a spirit of infallible good taste, from the soft legato ‘Paolo, datemi pace! E’ così dolce vivere obliando”', to the voluptuous broadening of “E la reina vede il cavaliere...’’, where the most intimate resonance of each word is savoured. Finally, the elegiac purity of the conversation with Biancofiore, barely rippled by Samaritana’s regret for her lost youth, and for “suo piccolo letto accanto al mio”, where a palpitating emotional line leads to her weeping (‘‘Non te ne andare, non m’abbandonare’): spasms of the soul, not merely gestures. One of the most illuminating aspects of Gencer’s interpretation is the way she overcomes every impulse and effect of verism.
The climate of decadence which imbues her Francesca has a quality almost akin to Classicism actually, true D’Annunzian Neoclassicism, from which ultimately springs the heroic plasticity of the final resolution: ‘‘E così vada s'è pur mio destino!”’ In Leyla Gencer’s singing, and in her discontinuous experience, another regal profile is drawn (Those regal profiles so dear to her sensitivity): majesty without a throne, crowned only with withered violets and pallor, in the luminous dusk of a Mediterranean evening.
FROM LP BOOKLET
FRANCESCA DA RIMINI
INGHIRLANDATE DI VIOLETTE
BY GIANNI GORI
Bisognava dunque attendere una ristampa ‘‘live” perché ‘Francesca da Rimini’’- opera di perdurante predilezione popolare - trovasse un’edizione discografica da affiancare alla gloriosa e ormai introvabile edizione Cetra diretta nel 1952 da Antonio Guarnieri, con Maria Caniglia, Giacinto Prandelli, Carlo Tagliabue. Il secondo atto dell’opera ‘nell'edizione teatrale qui riprodotta risulta incompleto per un ampio taglio operato dal direttore d'orchestra”. Subito, dunque, in evidenza l’importanza di questa incisione: contributo interpretativo per molti aspetti fondamentale, quanto inatteso, sia perché espresso da una registrazione dal vivo ormai d'archivio storico (1961), sia perché proveniente da una operosa ‘‘periferia’’ come quella del ‘‘Verdi’’ di Trieste. A questo teatro, il più periferico fra i teatri italiani, ma anche questo caratterizzato da una salda tradizione culturale, Leyla Gencer ha legato talune sue creazioni interpretative atipiche ed irripetibili nell'arco della sua splendida carriera di ‘tragédienne’’ del primo romanticismo: Carlotta nel ‘Werther’ e Renata nell’‘‘Angelo di fuoco” di Prokofiev (1959), per arrivare più recentemente alla ‘‘Falena”’ di Smareglia (1975). In una posizione particolarissima, benché le affinità protoromantiche la inseriscano nella temperie stilistica a lei più congeniale, si colloca l’Agata del ‘‘Freischttz’’ del 1956, seguita, l’anno dopo da una leggendaria ‘Lucia’. A queste esperienze in un certo senso isolate e ai margini del suo itinerario artistico, appartiene Francesca: una folgorazione a San Francisco nel ’56, che si ripete nel’61 a Trieste; su un palcoscenico che già aveva assistito, nel 1926, ai furiosi amori di Gilda Dalla Rizza e di Agostino Capuzzo e che aveva visto passare Francesche di statuaria bellezza fino alla Franca Somigli del 42 e del ’45. Nonostante i limiti della registrazione dal vivo con gli inevitabili rumori di scena o con l’imbeccata, talvolta prevaricante, del suggeritore, questa edizione documenta in modo vivo e affascinante un avvenimento, che né gli spettatori di allora, né gli stessi interpreti riuscirono forse a valutare nella giusta misura. E documenta soprattutto un momento di ‘civiltà operistica’, che oggi - a vent'anni di distanza - sembra appartenere ad una remota ‘età dell'oro”. Stupisce il livello dell'esecuzione, garantito da un direttore di coscienza e coerenza stilistica come Franco Capuana (quanta nostalgia per direttori come questo, se guardiamo alla estesa ‘‘routine’’ odierna!), il quale mette subito in luce, nella chiara prospettiva e nell’omogeneità dell’interpretazione i valori di un’orchestra, allora, di primissimo ordine. Si ascolti la luminescente concitazione dell’*‘allegretto mosso” d'apertura o, quasi all’altro estremo dell’opera, lo stacco frenetico dei violini che nel primo quadro del quarto atto incalzano l’angoscioso sospetto di Gianciotto. Momenti di una visione unitaria ed intensa, di diafana ed inquieta introspezione. Una folgorazione, appunto (come perla Gencer a San Francisco) che coinvolge felicemente l'intero palcoscenico: il Paolo appassionato di Renato Cioni, che strappa l’applauso a scena aperta nel duetto del secondo atto (‘il vostro viso mostrava ella nudato al mio dolore’) e che nel '65 sarebbe tornato ad entusiasmare, nei panni di Edgardo, con i suoi distefaniani ardori il pubblico triestino, prima di esaurire troppo rapidamente le promesse di una bella carriera; un Gianciotto (Anselmo Colzani di esemplare misura drammatica, mai scardinata dalla brutalità; qualche trepida eco femminile a far da aureola a Francesca; la cavalleresca configurazione del giullare (Claudio Giombi); la presenza del coro preparato da Adolfo Fanfani. AI centro di questo paesaggio sentimentale ed estetizzante - di sangue e di sensualità - tracciato da D'Annunzio e dall’arioso vagheggiamento musicale di Zandonai, Leyla Gencer dispiega una delle sue più fascinose lezioni drammatiche. La natura della sua Francesca vive su un inedito equilibrio fra la sensitiva eloquenza lirica di D'Annunzio (il segno netto e flessuoso della parola sentito come nervatura esistenziale) e l’estenuata, crepuscolare vocazione della musica di Zandonai, quando non sopravanzi, nel secondo e nella prima parte del quarto atto, l’empito verista. Colpisce, dunque, nella sua interpretazione, la capacità di conciliare le ragioni dannunziane con quelle musicali, non sempre convergenti, come le fortune dell’opera lascerebbero intendere. La sua vocalità vive quasi la coscienza del personaggio, sicché la voce di Francesca nella chiarità dell'attesa accanto a Samaritana è diversa da quella che si getta nei guerreschi bagliori del secondo atto, mentre la voce che accomiata le ancelle nell'ultima scena, non è più quella delle rabbrividenti dolcezze del terzo atto. E’ una Francesca, quella della Gencer, che va incontro alla propria tragedia per libera scelta, non per volontà del destino, con suprema e non “acerba voluttà”. Preannunciata dallo struggente coro interno delle donne (che Capuana evoca quasi da una prospettiva di lontane memorie, rendendone poi più straziante il ritorno, nel quarto atto, nel momento soavissimo del congedo di Francesca, ‘“Ora andate, tutte bianche siete!’’) l’entrata di Leyla Gencer - ‘“Come l’acqua corrente che va...’ - ha una nobiltà che il presagio non intacca. Si ascolti la profondità espressiva di quella frase, ‘‘Eglié venuto!’’, tesa e subito evanescente. Mirabile è soprattutto la fluente eleganza di fraseggio e di modulazioni nella scena con Samaritana, che approda al “largo cantabile”’, "E si morrà, ormai, e si morrà tuttavia’’, e all’ansiaimprovvisa svettante sul “do” (‘‘Diteli ch’io lo saluto) in una febbrile ma lucidissima esaltazione. Ed ecco, invece, nell’atto successivo, l’‘‘altra voce’ della Gencer, nel momento rituale ‘largo e solenne” della coppa (‘‘Bevete, mio cognato’’) dove l'accento acquista fibre più cupe e tormentose. Tutto ilterzo atto della Gencer vive nella luce di un gusto infallibile, che va dal morbido “‘legato”’ di ‘‘Paolo, datemi pace! E’ dolce cosa vivere obliando”’, al voluttuoso allargarsi della lettura, “Elareina vede il cavaliere...’’, dove ogni parola sembra assaporata nella sua risonanza musicale più riposta. Infine la purezza elegiaca del colloquio con Biancofiore, solo increspata dal desiderio di Samaritana, ovvero della fanciullezza perduta, e di quel ‘‘suo piccolo letto accanto al mio”, e dove una palpitante linea emozionale guida al'approdo del pianto (‘‘Non te ne andare, non m’abbandonare’’): soprassalti dell'anima, non di un gesto. L’interpretazione della Gencer è illuminante anche in questo: nel superamento di ogni impulso e di ogni effetto verista. Il decadentismo della sua Francesca acquista infatti una sorta di classicità, proprio quella neoclassicità dannunziana sulla quale la parola fiorisce e dalla quale infine balza l’eroica plasticità della risoluzione finale: ‘‘E così vada s'è pur mio destino!”’. Si rispecchia nel canto di Leyla Gencer, e in questa sua esperienza senza continuita, un altro profilo regale (quei profili regali tanto cari alla sua sensibilità): una regalità senza trono, incoronata solo di sfiorite violette, e di pallore, nel crepuscolo di una luce mediterranea.
FROM LP BOOKLET
FRANCESCA DA RIMINI
A GARLAND OF VIOLETS
BY GIANNI GORI [Translated by Katerina Siberblatt Wolfthal]
Not until this reprint of a live performance did, we have a complete recording of ‘Francesca da Rimini’ – an opera of undying popular appeal - worthy of standing beside the glorious but now almost unobtainable Cetra edition conducted by Antonio Guarnieri in 1952, with Maria Caniglia, Giacinto Prandelli and Carlo Tagliabue.
The second act of that performance is incomplete, owing to a long cut made by the conductor. The importance of the present recording, therefore, is all the more evident. It provides a contribution to the interpretation of this opera in many ways as basic as it is unexpected, both because this recording of a live performance has by now become part of our historic archives (1961) and also because it took place in an industrious theatre, Trieste’s Teatro Verdi, on the “‘outskirts’’ of the operatic mainstream. The Teatro Verdi is the least central of the Italian opera houses, but perhaps for this very reason it has a solid cultural tradition, and it is to this theatre that Leyla Gencer has given some of her most original and unrepeatable interpretations, in the course of her splendid career as an early Romantic ‘‘tragédienne’’, with roles including Charlotte in Massenet’s Werther and Renata in Prokofiev’s The Flaming Angel (1959), up to the more recent ‘‘Falena’’ by Smareglia, in 1975. Gencer's 1956 performance of Agatha in Der Freischütz followed, a year later, by a legendary Lucia, occupy a very special position, although their affinities with the early Romantic genre place them well within the stylistic context most congenial to the soprano. Francesca belongs to the catalogue of these experiences, in a certain sense isolated and on the fringes of Gencer's artistic career: a ‘‘coup de foudre’’ at San Francisco in 1965, repeated at Trieste in 1961, on a stage which had witnessed the passionate love of Gilda Dalla Rizza and Agostino Capuzzo in 1926 and the passing of such statuesquely beautiful Francescas as Franca Somigli in 1942 and ’45. Despite the limitations of live recordings, with the inevitable stage noises and the prompters at times prevaricating cues, this performance is the vivid, exciting document of an event which neither the spectators on that occasion nor even, perhaps, the performers themselves were able to evaluate at its true worth. And it is above all a document of a moment of “operatic civilization”, which today - twenty years later - seems to belong to a remote “‘golden age”. The level of the interpretation is amazingly high, sustained by the conducting of Franco Capuana, a serious, stylistically coherent musician (how we miss such conductors now, as we look at the grey routine of today’s performances!) who immediately brings to light, in the clear perspective and homogeneity of his interpretation, the value of what was then a first-class orchestra. Listen to the luminous excitement of the opening ‘‘allegretto mosso” or, toward the end of the opera, in the first scene of Act Four, the frenetic staccato in the violins which underlines Gianciotto’s anguished suspicion. Moments of total, intense vision, of diaphanous, restless introspection. A lightning bolt (as we said a propose of Gencer in San Francisco) which illuminates the entire stage: Renzo Cioni’s impassioned Paolo, reaping applause in midscene during the second-act duet (“il vostro viso mostrava ella nudato al mio dolore”); Cioni returned in ’65 to delight the Triestine audience with his fervent Edgardo in the manner of Di Stefano, only to exhaust, all too soon, the promise of a brilliant career; Anselmo Colzani’s exemplary dramatic equilibrium as Gianciotto, never unbalanced by brutality; a few timid female echoes surrounding Francesca like a halo, the courtly profile of the minstrel (Claudio Giombi), and the chorus trained by Adolfo Fanfani. At the centre of this sentimental, aesthetic scenario - a landscape of blood and sensuality - drawn by D’Annunzio and set to the elegant melodic evocations of Zandonai, Leyla Gencer gives one of her most enthralling dramatic interpretations. Her Francesca succeeds in achieving the difficult balance between D’Annunzio’s sensitive lyric eloquence (the clear, sinuous design of the words, heard as the central framework), and the weary, crepuscular strains of Zandonali’s music, except where moments of veristic impetuosity emerge in the second act and the first part of the fourth. What is particularly striking about Gencer's interpretation in her ability to reconcile D’Annunzio’s conception with that of Zandonai. That their ideas do not always converge is clear from the discontinuous fortunes of the opera. Gencer’s singing almost becomes the personification of her role, so that the voice of Francesca in the clarity of her vigil with Samaritana is different from the voice abandoned in the outburst of Act Two, while the voice which dismisses her maids in the closing scene is no longer the same as the voice of shimmering sweetness in Act Three. Gencer’s Francesca goes to her tragic destiny of her own free will - not constrained by fate, she goes with supreme, rather than “bitter desire”’. Announced by the poignant women’s chorus (which Capuana evokes almost as it from a store of distant memories, making its return in the fourth act even more touching, at the tender moment when Francesca sends them away: “Ora andate, tutte bianche siete!”’), Leyla Gencer’s entrance, ‘‘Come l’acqua corrente che va” has a nobility that no premonition of doom can undermine. Listen to the expressive depth of the phrase ‘Egli è venuto”’ - tense and evanescent. Especially admirable is the flowing elegance of Gencer’s phrasing and modulations in the scene with Samaritana, leading to the “largo cantabile”’ “‘E si morrà, ormai, e si morrà tuttavia”’, and the sudden, anguished flight to high C (‘‘diteli ch'io lo saluto’), rendered with febrile but lucid exaltation. And here, in the next act, is the ‘‘other voice”’, at the ritual moment, “largo e solenne”, of drinking (‘‘Bevete, mio cognato’’), where Gencer’s tones take on darker, more tormented shadings. Gencer sings the entire third act in a spirit of infallible good taste, from the soft legato ‘Paolo, datemi pace! E’ così dolce vivere obliando”', to the voluptuous broadening of “E la reina vede il cavaliere...’’, where the most intimate resonance of each word is savoured. Finally, the elegiac purity of the conversation with Biancofiore, barely rippled by Samaritana’s regret for her lost youth, and for “suo piccolo letto accanto al mio”, where a palpitating emotional line leads to her weeping (‘‘Non te ne andare, non m’abbandonare’): spasms of the soul, not merely gestures. One of the most illuminating aspects of Gencer’s interpretation is the way she overcomes every impulse and effect of verism. The climate of decadence which imbues her Francesca has a quality almost akin to Classicism actually, true D’Annunzian Neoclassicism, from which ultimately springs the heroic plasticity of the final resolution: ‘‘E così vada s'è pur mio destino!”’ In Leyla Gencer’s singing, and in her discontinuous experience, another regal profile is drawn (Those regal profiles so dear to her sensitivity): majesty without a throne, crowned only with withered violets and pallor, in the luminous dusk of a Mediterranean evening.