RECITAL – ROMA

Teatro Eliseo
13 December 1977
I martedi dell'Eliseo
Tuesdays at the Eliseo  

Leyla Gencer soprano
Marcello Guerrini piano
Text read by Romolo Valli

Chopin Polish Songs op.74 No.1 Zyczenie (The Wish)
Chopin Polish Songs op.74 No.2 Wiosna (Spring)
Chopin Polish Songs op.74 No.3 Smutna rzeka (The Sad Stream)
Chopin Polish Songs op.74 No.4 Hulanka (Merrymaking)
Chopin Polish Songs op.74 No.5 Gdzie lubi (There were she loves)
Chopin Polish Songs op.74 No.6 Precz z moich oczu! (Out of my sight!)
Chopin Polish Songs op.74. No.7 Posel (The Envoy)
Chopin Polish Songs op.74 No.8 Sliczny chlopiec (Handsome lad)
Chopin Polish Songs op.74 No.9 Melodya (Melody)
Chopin Polish Songs op.74 No.10 Wojak (The Warrior)
Chopin Polish Songs op.74 No.11 Dumkas: Dwojaki koniec (The double end)
Chopin Polish Songs op.74 No.12 Moja pieszczotka (My darling)
Chopin Polish Songs op.74 No.13 Dumkas: Nie ma czego trzeba (There is no need)
Chopin Polish Songs op.74 No.14 Pierscien (The ring)
Chopin Polish Songs op.74 No.15 Narzeczony (The Bridegroom)
Chopin Polish Songs op.74 No.16 Piosnka litewska (Lithuanian Song)
Chopin Polish Songs op.74 No.17 Spiew grobowny (Hymn from the Tomb)
Chopin Polish Songs op.74 No.18 Czary (Charms)
Chopin Polish Songs op.74 No.19 Dumka (Reverie)

Ancors
Bellini Oh! s'io potessi dissipar le nubi Il Pirata
Bellini Ah non credea mirarti La Sonnambula

ROMOLO VALLI E L’ELISEO *

2008 MAURIZIO GIAMMUSSO

* Da “Eliseo. Un teatro e i suoi protagonisti 1900-1990” Gremese editore, Roma 1989.

Il 3 ottobre 1977 comincia una nuova epoca per il Teatro Eliseo. Si celebra il rito della conferenza stampa d’apertura di stagione nel foyer e si presentano al pubblico il nuovo proprietario Giuseppe Battista e i suoi amici direttori artistici Romolo Valli, Giorgio De Lullo e Giuseppe Patroni Griffi. Vincenzo Torraca, l’uomo che si identificava col teatro di via Nazionale, esce elegantemente di scena, con i suoi novant’anni appena compiuti. Il suo burbero direttore, il famoso commendator Fernando Spernanzoni, che – agli occhi degli spettatori – era l’onnipotente Cerbero della sala, è scomparso qualche mese prima. È scomparso anche il Cerbero vero, cioè il grande mosaico di Pietro Melandri che era sulla parete di fondo della hall; tutto è nuovo adesso, secondo lo stile sofisticato di Pier Luigi Pizzi. Le Stanze del Teatro, che già non funzionavano più da qualche anno, diventano uffici per la nuova impresa. Le novità sono molte, quella mattina: una nuova proprietà, una nuova direzione artistica, una nuova Compagnia dell’Eliseo, che dividerà il cartellone della stagione con la Proclemer-Albertazzi (Antonio e Cleopatra) e con Franco Parenti impegnato nel trittico di Giovanni Testori (Ambleto, Macbetto e Edipus); ci saranno anche serate speciali con Leyla Gencer, Massimo Ranieri, Milva e altri. L’inaugurazione sarà fra un paio di settimane con l’Enrico IV di Valli-De Lullo. Nelle dichiarazioni si batte soprattutto sull’impegno privato della gestione, poiché i nuovi padroni di casa sono convinti che non si può più pensare di identificare il teatro pubblico con la cultura e quello privato con il commercio. “Nulla da eccepire in questa fase di caloroso sviluppo e soprattutto siamo esentati dal fare nelle tasche dei nuovi finanziatori i conti che maliziosamente si sono fatti quando si procedette al rinnovo del teatro Argentina” osserva uno smaliziato commentatore (Tullio Kezich) alludendo alle polemiche di sei anni prima, quando Valli e De Lullo fecero gridare allo sperpero per un Giulio Cesare kolossal: ma quelli erano soldi del contribuente. Ora sono di chi si è assunto personalmente la responsabilità della gestione.
 
Perché Giuseppe Battista, questo gentile e autorevole signore, che ha una brillante attività di consulente finanziario in proprio e di collaboratore del ministro Gaetano Stammati, si trova a recitare la parte per lui del tutto inedita di direttore di uno dei più importanti teatri d’Italia? Il suo predecessore Vincenzo Torraca era arrivato a via della Consulta (dove sono gli uffici del teatro) nel 1936, casualmente, partendo dal giornalismo politico, attraverso varie combinazioni d’affari. Ora gli affari c’entrano meno, ammenocché si voglia far tutto risalire all’acquisto di una casa di campagna a Zagarolo, tre anni prima.
 
Lì, come vicina di casa, il nuovo venuto trova Rossella Falk e, sovente, i suoi ospiti preferiti, Romolo Valli e Giorgio De Lullo. Per un appassionato di teatro come era sempre stato, non si poteva immaginare migliore compagnia per il weekend. Capita così di conversare e chiedere: qual è il sogno di un’attrice affermata, come te, e dei tuoi compagni? Ad una domanda simile non si scappa; da Laurence Olivier all’ultima recluta dell’Accademia la risposta è: avere un teatro, un teatro che sia una casa, un palcoscenico dove recitare…
 
È così che dopo le chiacchiere di una domenica in campagna, Battista viene amichevolmente interessato a cercare qualche soluzione, a fare sondaggi nella sua qualità di professionista degli affari. Un primo tentativo orientato verso il Capranica si rivelò sterile, poiché riadattare a teatro quel cinema era impossibile. Ma, cancellato quell’obiettivo, si punta più in alto: perché non l’Eliseo?
 
Lo scoglio era Torraca, un uomo al quale nessuno poteva pensare di fare il torto di estrometterlo, sia pure insieme ad attori importanti come I Giovani, racconta Battista, che di questa pagina sarà allo stesso tempo il testimone e il protagonista.
 
Dapprincipio si rivolge al vertice delle Assicurazioni Toro – che dal 1963 avevano acquistato l’immobile dagli eredi Albertini – e scopre che il contratto d’affitto del teatro è in scadenza e che anzi già c’era stata una richiesta di Paolo Stoppa, non accolta. Ottiene il via libera ed anzi un incoraggiamento per fare direttamente un sondaggio con Torraca. Viene però anche avvertito di un rischio: quello di venir messo decisamente alla porta dall’anziano direttore.
 
“Non mi mise alla porta, ma trovai una reazione negativa immediata, anche se estremamente cortese – racconta Battista –. Del resto si rendeva conto che non poteva andare avanti a lungo nella gestione. Lo colpì poi il fatto che dietro di me non ci fosse un intento speculativo, ma un fatto artistico, uomini di teatro che davano una certa affidabilità al mio progetto, anzi attori cresciuti proprio sul suo palcoscenico”. Anche se poi, più volte, nei colloqui successivi lo avvertì amichevolmente: “Stia attento, Battista, a non mettersi mai nelle mani degli attori; li tenga come consulenti, li sostenga come artisti, ma non si metta mai in mano loro per la gestione!”
 
Fu lo stesso Torraca a richiamarlo qualche settimana dopo e ad iniziare una serie di colloqui che fra il 1975 e il ’76 si prolungarono per molti mesi.
 
“Non si arrivava mai ad una conclusione ed io non acceleravo per non violentarlo, per non dare l’impressione che volessi estrometterlo. Anzi gli dicevo che poteva pensare quanto voleva. Soprattutto non si discuteva mai di cifre”.
 
A quell’epoca la società di gestione del teatro aveva ancora un capitale di appena sette milioni, una cifra minima, adeguata agli anni dopo la guerra in cui era stata costituita.
 
“Lei non sa immaginare che cifra mi dovrebbe dare per tutti questi anni di lavoro, per l’avviamento di un teatro come questo!” diceva Torraca. “No, davvero; non la so valutare, lo dica lei, se non mi sta bene apriremo una trattativa” rispondeva l’altro disponibile.
 
A questo punto anche la Falk entrò direttamente in campo, con una visita al vecchio signore, il quale continuava a chiamare Battista per parlare. Si parlava di tante cose, di teatro, di affari, magari di politica o di qualsiasi cosa. Non si arrivava mai al dunque.
 
Del resto quella era l’ultima trattativa della sua vita, la più difficile da chiudere, poiché voleva dire chiudere i conti anche con sé stesso e assicurare il futuro della sua creatura.
 
Poi arrivò quella festa di nozze di Isabella ed Eduardo De Filippo nel foyer dell’Eliseo.
 
Torraca disse: “Venga, Battista, le presenterò Eduardo”.
 
Ma fece di più, lo invitò a rivolgere un saluto agli sposi, un gesto che aveva il sapore di un’investitura alla sua successione.
 
Era il 22 febbraio 1977: “Quel giorno capii che aveva deciso; quell’invito era significativo dello stile dell’uomo, del modo cauto e gentile con cui trattava le cose, dei tempi che sapeva far maturare” commenta Battista. Ma la trattativa durò ancora. Torraca dava consigli su come rilanciare l’impresa con iniziative produttive, suggeriva caldamente di tenersi Eduardo vicino. Una volta quasi costrinse Battista ad assistere alla lettura di una commedia di De Concini, insieme a Paolo Stoppa, Lucio Ardenzi e l’avvocato Battaglia (progetto che poi non andò in porto). Non era dunque questione di cifre: è che Torraca voleva “allevare” il suo successore, trasmettergli almeno un po’ della sua lunga esperienza per arricchire la personalità di un uomo d’affari – come era stato lui stesso negli anni Trenta – che non aveva mai visto un borderau teatrale. Finalmente, nella primavera 1977 Torraca cedette la società di gestione, con l’intesa che per sei mesi ancora sarebbe rimasto al suo posto. “Mi mandava ogni giorno i saldi – ricorda Battista – ed io dissi che non era necessario, ma lui mi informava con una certa precisione di ogni cosa”. Certo era un gesto di cortesia e un’ulteriore prova di correttezza, ma anche il desiderio di fare scuola.
 
Un addio alle scene
 
È a questo punto che da quella dei De Filippo, dobbiamo fare un salto indietro di tre mesi ad un’altra cena di nozze. Anche questa volta il servizio è del Toulà. Ma la scena è proprio nel raffinato locale nel cuore di Roma. È il 9 novembre 1976. In una sala riservata nove tavoli attendono una settantina di ospiti, con i posti assegnati secondo l’amichevole regia di Giuliana Poggiani. Spiccano soprattutto i nomi di coloro che hanno fatto la storia dell’Eliseo, gli stessi delle Stanze del Teatro e delle locandine più famose del dopoguerra: Marcello Mastroianni con la moglie Flora Carabella; Paolo Stoppa e la Pagnani, Ferruccio De Ceresa ed Elsa Albani, Panelli e la Valori, gli ex ragazzi della pensione di piazza del Popolo, Patroni Griffi, Ferrero, Rosi; altri amici di cinema e teatro, dalla Wertmuller a Medioli, Cottafavi, Bolognini, Duccio Tessari; molti cognomi patrizi, Savoia e Crespi, Serra di Cassano e de Riencourt, Ruspoli e Pignatelli, Doria e Pallavicini; e altri ancora di quella gente bella e famosa che Enrico Lucherini (sistemato al tavolo n.7) invita alle sue serate più eclatanti.
 
Cosa fa tutta questa gente? Festeggia in amicizia il prossimo matrimonio di Rossella Falk con il ricchissimo industriale svizzero Gualtiero Giori. “Cari signori salutate qui la signora Falk che diventa la signora Giori. E dimenticatela, non la vedrete mai più su un palcoscenico, perché di teatro io non ne voglio sapere!” dice più o meno lo sposo, con una battuta un po’ dura, che stona in un signore così squisito.
 
“Ah, lei se la porta via: ma non può nemmeno immaginare cosa sia Rossella per noi!” replica risentito Patroni Griffi, dando voce al sentimento di molti.
 
La Falk convola a nozze svizzere e l’Eliseo perde la sua regina, mentre I Giovani non esistono più già da qualche stagione. Perché? “Eravamo troppi e troppo bravi” dice oggi con schiettezza l’attrice. Dopo venti anni insieme d’amicizia e d’accordo, l’amicizia restava, ma l’accordo era difficile quando ognuno cominciava a desiderare di interpretare quei grandi personaggi che, inevitabilmente, mettono un po’ da parte i compagni di scena. Romolo si struggeva per i suoi Argante, Enrico IV, magari Macbeth o Re Lear, o Platone. Rossella cercava la sua strada fra la Signora delle camelie e la pirandelliana eroina di Trovarsi. Giorgio continuava a mettere la sua fantasia al servizio dell’uno e dell’altra. Del resto non erano cambiati loro, ma il teatro italiano col quale dovevano fare i conti: fino a quando una compagnia poteva allestire due, tre o anche quattro spettacoli a stagione ciascuno era disposto nella scelta dei testi a qualche sacrificio per gli altri. Ora, costretti a non più di una produzione l’anno, quei sacrifici diventavano troppo lunghi e costosi.
 
Partita la Falk, Battista affida la rifondazione artistica del nuovo Eliseo ai soli Valli e De Lullo. Questi chiamano accanto a loro l’amico di sempre, Patroni Griffi, che si dovrà occupare soprattutto del Piccolo Eliseo.
 
Tutti concordano col suggerimento di Torraca di tenere dentro Eduardo De Filippo. Ci sono delle riunioni con il grande vecchio, ma si stenta a individuare i modi di una coabitazione fra artisti che si vogliono bene, ma hanno interessi diversi. Alla fine è lui stesso a chiarire le cose con la franchezza che lo distingue: “Caro amico […] – scrive a Battista il 23 giugno 1977 – per diversi mesi ho contemplato con trasporto la possibilità di collaborare con persone che stimo e rispetto, quali lei, Giorgio De Lullo e Romolo Valli; (ma) al momento di stringere i tempi e definire gli accordi non riesco a convincermi ad accettare l’impegno di far parte del comitato di consulenza del Teatro Eliseo. […] Sono sempre stato un lupo solitario e non posso cambiare a 77 anni, lo capisce amico di breve data ma già tanto caro? Ho bisogno di essere libero, anche se, lo ripeto, ciò implica rinunce…”.
 
Intanto l’Eliseo si trasforma in un cantiere: l’architetto Giancarlo Capolei e Pier Luigi Pizzi, lo scenografo dei Giovani, sono al lavoro, per ridare al teatro un nuovo splendore. Nella sala grande si rifanno impianti elettrici, rivestimenti, poltrone e servizi; si trasforma la pensilina dell’ingresso e la si duplica con quella del Piccolo Eliseo, per dare maggiore unità alla facciata; si rimettono in luce gli antichi ottoni che diventano una delle note dominanti insieme alla moquette marrone. Il foyer si ingrandisce spostando la parete di fondo, rinunciando al vecchio mosaico del Melandri che appare piuttosto malandato e fuori gusto. Si crea, nell’angolo del bar, un enorme lampadario di cristallo a cascata, che è la gioia di chi lo guarda e la dannazione di chi lo monta, lo pulisce e lo paga.
 
Ma i lavori più importanti e onerosi riguardano l’altra sala, ribattezzata Piccolo Eliseo, con quella simmetria linguistica che ha portato fortuna all’Odéon e al Petit Odéon. Qui Patroni Griffi, soprattutto, vorrebbe una struttura agile e destinata a degli esperimenti, a piccoli spettacoli a rischio, ad una palestra disponibile a giovani di talento. Le difficoltà di realizzazione sono enormi in una giungla normativa cittadina, che sembra fatta apposta per incoraggiare gli abusi edilizi piuttosto che regolamentare i lavori legali. Infatti fra brillanti soluzione tecniche e accidentati percorsi burocratici, ci vorrà più di un anno per spostare il palcoscenico e i camerini da una parte all’altra, capovolgendo la sala; sistemare su una scalinata in ferro trecento posti comodi e di grande visibilità; realizzare un impianto scenico ad alta tecnologia, un nuovo bar e vari servizi; senza contare una complessa opera di consolidamento del solaio, sotto il quale continua – senza interruzione – la normale attività di un salone d’esposizione d’auto.
 
Romolo, re dell’Eliseo
 
Di questo complesso nuovo fiammante Giuseppe Battista, detto Giò, è il proprietario della società di gestione; De Lullo e Patroni Griffi i grandi consiglieri, le sorgenti fantastiche. Ma Romolo Valli è l’anima e il motore, la bandiera più in vista e il cerimoniere più splendido. Oltre, naturalmente, all’incontrastato sovrano della scena: “il re dell’Eliseo” lo incoronano i giornali.
 
A questa corona era come predestinato. Per vent’anni aveva fatto da leader, da ambasciatore e uomo immagine della Compagnia dei Giovani. Poi la direzione del Festival di Spoleto aveva rafforzato il suo carisma e dato più nitore alla sua figura pubblica, nella quale sempre più la personalità dell’organizzatore artistico e del manager di cultura si intrecciava a quella originale dell’attore. Cosa vuol dire ora per lui la direzione di un teatro?
 
“Insieme a De Lullo, siamo arrivati finalmente dopo 24 anni di sofferenza ad avere una casa e, dato un nostro estremo bisogno di autonomia, non avremmo potuto trovare un’adeguata possibilità di lavoro in un teatro stabile. Un teatro a gestione privata può permettere di fare delle scelte anche più avanzate, seppure rischiose. […] Avere un teatro tutto per sé vuol dire anche cercare di avviare un nuovo rapporto col pubblico, non solo da un punto di vista culturale in senso stretto, ma anche da un punto di vista sociale e antropologico, per esempio stabilendo l’orario di inizio degli spettacoli alle 20,30 […] e rappresenta anche quella possibilità di un più articolato lavoro teatrale, che io e De Lullo abbiamo sempre cercato nel corso degli anni. A volte ci hanno creduto degli aristocratici, nelle nostre scelte, ma tutto è dipeso da equivoci e da frettolose interpretazioni”.
 
In realtà il lavoro dei Giovani era stato profondamente aristocratico, fino a diventare controcorrente; ma certo non era snob secondo le accuse banali di una parte della critica. Era aristocratica la pulizia e il rigore del loro professionismo. Più che aristocratica era addirittura regale la formazione di quella Compagnia Associata Morelli-Stoppa-De Lullo-Falk-Valli-Albani che per un paio d’anni (1971-73) aveva rimesso insieme i “vecchi e i giovani” di Luchino Visconti. Certo non avevano nulla di snob le interpretazioni pirandelliane che fra gli anni Sessanta e i Settanta rappresentano uno dei capitoli più densi della vita della nostra scena. Ma una certa aggressività verbale, culturale e teatrale in senso stretto, dell’avanguardia e dei suoi critici-chierici aveva spesso sparato contro di loro facendone il bersaglio di una “rivoluzione” che non sopravviverà alla presa del potere simbolicamente rappresentato dai velluti rossi dei teatri tradizionali.
 
Come direttore di un grande teatro Valli può realizzare pienamente le sue due anime artistico-organizzative: “Una è quella che cerca di rendere più vive possibili le immagini dei personaggi (e in questa operazione ho sempre bisogno del regista) – spiega in quel periodo – l’altra è volta ad un costante e generico bisogno di espressione. Se non avessi fatto l’attore, avrei tentato qualsiasi altra cosa nell’area del sociale […]. Sento dentro di me una specie di missione, quasi un senso religioso della vita. Avrei potuto fare anche l’insegnante, occuparmi degli handicappati o stare con Basaglia e fare lo psicodramma: c’è in me una vocazione di tipo altruistico, che in qualche modo deve avere un concreto riscontro”.
 
Patroni Griffi glielo aveva profetizzato, in un articolo per il catalogo di Spoleto 1973: “Che magnifico uomo di spettacolo, che perfetto organizzatore. Da dargli un teatro tutto suo, in mano…”.
 
L’amico in quella pagina rivelava il bizzarro prodigio che conosceva bene: Romolo Valli aveva tre orecchi e due paia di occhi, almeno. Lo aveva scoperto già tanti anni prima alle Stanze dell’Eliseo, quando vedeva l’attore conversare animatamente con qualcuno alla sua destra, mentre ascoltava con attenzione chi gli stava a sinistra e – nel caso – interveniva a voce alta in una discussione del tavolo accanto. Poi se ne era definitivamente convinto spiandolo sera dopo sera, anno dopo anno dalle quinte. Lo vedeva calato nei panni di Giulio Cesare o di Leone Gala, mentre – senza perdere un istante di concentrazione – contava a mente le poltrone vuote dell’ultima fila, memorizzava il viso di un ospite di riguardo, si rammaricava per un’assenza non prevista. Tre orecchi, quattro occhi, o più, utilissimi per schiacciare un pisolino appoggiato ad una cantinella dietro le quinte, tanto un orecchio almeno era sempre vigile alla recita che continuava.
 
C’era poi quel supremo e segreto talento di riuscire ad indirizzare nella maniera più intelligente e utile i colloqui con i giornalisti e con gli addetti ai lavori, dando per scontati i partiti presi, la malafede e l’invidia, ma riuscendo a mitigare lo “sdegno”, il vero sdegno che generalmente colpisce chi fa, chi scrive o inventa qualcosa in teatro, luogo ove chiunque può dire la sua con veemenza e incompetenza, come allo stadio.
 
Pirandello secondo Valli-De Lullo
 
Il nuovo Eliseo apre nel nome di Luigi Pirandello, con l’Enrico IV. Romolo Valli e Giorgio De Lullo aggiungono un nuovo capitolo importante al gran libro pirandelliano dei Giovani. Sono passati molti anni dal primo incontro col drammaturgo siciliano, da quei Sei personaggi in cerca d’autore (1961-62), che sembrò come nuovo sui palcoscenici italiani. De Lullo lo aveva riletto come un testo appena scritto, saltando a piè pari le incrostazioni di una tradizione interpretativa bloccata sul pirandellismo, sul sofisma, sulla pseudofilosofia. Aveva condotto i suoi attori ad un perfetto equilibrio fra intelletto e natura, fra il gioco filosofico del teatro nel teatro e il palpitante dolore di quelle sei figure da romanzo d’appendice.
 
Così le due edizioni de Il giuoco delle parti (1965-66 e 1975-76) avevano rovesciato la tradizionale interpretazione, per la quale la filosofia morale pirandelliana truccata da umorismo sembra l’unico aspetto essenziale. Qui c’era l’intuizione feroce e dolente di un Leone Gala, consapevole che l’uso della ragione porta all’ineluttabile conferma del dolore umano, lo illumina senza dargli alcun conforto, anzi lo rende più visibile e disperato.
 
Altrettanta acutezza De Lullo spenderà poi anche nei personaggi femminili affidati alla Falk, la Marta di L’amica delle mogli (1968-69) e la Donata Genzi di Trovarsi (1976-77); e, ancora per Romolo, nel Martino Lori di Tutto per bene (1974-75).
 
Ma c’è poi il Così è (se vi pare) della grande compagnia Morelli-Stoppa De Lullo-Falk-Valli-Albani (1971-72) che con la pratica scenica anticipa le conclusioni alle quali arriva – negli stessi mesi – la teoria letteraria di Giovanni Macchia. Rileggendo il celebre dramma, il grande critico piuttosto che la ricerca di una verità che non esiste, mette in primo piano l’atteggiamento malevolo della gente che vuol sapere il segreto del signor Ponza e della signora Frola, la loro trasformazione in imputati in un losco processo che si svolge nel salotto borghese, ribattezzato – con l’espressione oramai proverbiale – “la stanza della tortura”.
 
Per Valli e il suo regista, l’Enrico IV è ancora tutto questo, tutto l’insieme delle intuizioni pirandelliane, ma anche qualcosa di più intimamente personale, come interprete e come uomo. Il famoso personaggio, che un giorno cade da cavallo e impazzisce, e poi trova conveniente e inevitabile continuare a fare il pazzo anche dopo essere rinsavito, è il nodo di una profonda meditazione sul teatro e sulla vita. L’attore come maschera, l’attore come rifugio, l’attore come personificazione di qualcosa di diverso dal reale si specchia, più che nascondersi, dietro questo finto imperatore, che fa il pazzo per sfuggire a una intollerabile realtà. Intervistato dalla televisione, Romolo racconta con orgoglio che da un gruppo di studenti, dall’alto della balconata dell’Eliseo, è venuto un grido: “Viva Sacharov!”. Era il momento in cui il protagonista rivela la verità ai suoi amici-cortigiani: “Sai, conviene, conviene a tutti far credere pazzi certuni per avere la scusa di tenerli chiusi”. Ebbene quel grido in favore dell’uomo-simbolo del dissenso sovietico, del premio Nobel per la pace tornato in carcere in quei giorni, appaga l’attore più di un applauso. Lo gratifica nel suo orgoglio di essere un mediatore di cultura, l’officiante di un rito laico fatto di idee e di emozioni.
 
Ma tutto questo alto valore simbolico-culturale va di pari passo ad un risultato artistico di grande rilievo, sul quale si incontrano sostanzialmente i giudizi dei critici e l’enorme favore del pubblico. Fra tanti c’è un momento, che già da solo riusciva a dare la temperatura dello spettacolo, a mostrare l’intensità di un’interpretazione e, insieme, la calorosa accoglienza della platea: l’ingresso del protagonista, del pazzo non più pazzo, in costume medievale e con una vistosa truccatura teatrale in volto. Prima c’era stato il balletto dei personaggi “moderni”, quell’antefatto che ha il sapore di una pochade andata a male. Ma quando arriva Enrico, dalla farsa balziamo improvvisamente alla tragedia. Con un gran colpo di teatro, De Lullo spalanca l’enorme sipario, che Pier Luigi Pizzi ha messo un po’ di traverso. Sul proscenio resta un fastoso interno altoborghese; dietro si rivela l’austera sala medievale in cui campeggia un grande trono di pietra. Commedia e tragedia sono separate dalla lama di quell’enorme drappo rosso, che è il simbolo stesso del teatro. In quel momento (così costruito e così naturale insieme) l’applauso scrosciava sull’entrata di Romolo Valli. Poi un silenzio teso, un’emozione carica di attesa, il fiato sospeso del pubblico. Romolo-Enrico scrutava i visitatori travestiti con panni medievali col volto un po’ di sbieco: il barone Belcredi (Mino Bellei), la Marchesa Spina (Marisa Belli, poi Gianna Giachetti), il dottor Genoni (Adolfo Geri, poi Antonio Meschini). Lui li guardava con occhi a triangolo, occhi a stiletto, lasciando drammaticamente sospesa nell’aria la domanda centrale: è pazzo o no? Finzione, Realtà? E ancora: Teatro o Vita? Dicono che Ruggero Ruggeri fosse più ambiguo, Salvo Randone più istrionico, Tino Carraro più macerato. Valli era una grande vittima consapevole del gioco tragico della vita, tutta malinconia e furore silenzioso.
 
C’è forse un briciolo di dolente pirandellismo anche nel modo in cui Valli interpreta il personaggio dell’impiegato di banca Enrico Tilde, che è al centro di Il valzer dei cani, secondo spettacolo prodotto dal nuovo Eliseo, con la regia di Patroni Griffi (8 gennaio 1978). Il dramma di Leonid Andreev (1871-1919) non si dà in Italia da mezzo secolo; Gerardo Guerrieri lo traduce con bella asciuttezza, e si chiede se per caso questo dimenticato scrittore maturato fra le due rivoluzioni russe (quella del 1905 e quella del 1918) non si trovi a scrivere nell’anticamera del dissensosovietico di oggi. Ai critici di inizio secolo, in realtà, appariva a metà strada fra Dostoevskij e C}echov, o meglio come la loro versione teatralizzata e un po’ ruvida. Patroni Griffi lo ha riscoperto e se ne è innamorato. Ci trova anche qualche consonanza alla lontana col suo mondo napoletano, sicché ci infila in bella evidenza Massimo Ranieri e Franco Acampora. La storia è quella di un suicidio quasi annunciato, di una casa rimasta vuota, di una discesa nella solitudine fra l’indifferenza degli altri. Il prudente e metodico signor Tilde, cilindro e pelliccia, ha già la casa pronta quando la fidanzata (Marisa Belli) lo liquida con un telegramma: “Sposo, costretta, un altro”. Da lì, dal vuoto lasciato in quelle stanze già pronte (ricostruite dallo scenografo Ferdinando Scarfiotti) – l’angolo per la musica col pianoforte e gli spartiti, la camera bianca per i bambini che verranno – parte la discesa agli inferi, le serate di sbornia triste, i tradimenti di un fratello mascalzone (Ranieri), le angherie di un piccolo parassita (Acampora), fino al colpo di pistola finale. La regia impone a questo “valzer” un ritmo incalzante, una recitazione un po’ sopra le righe, come se i personaggi fossero bestie affamate e in trappola. Forse c’è una sottolineatura espressionistica troppo marcata. L’esito è buono, ma non entusiasma. E la domanda di Guerrieri resta un po’ senza risposta.
 
La dodicesima notte

Argante, Enrico IV (di nuovo), Oscar Wilde: la seconda stagione di Romolo Valli e Giorgio De Lullo al nuovo Eliseo (1978-79) è veramente splendida; tre spettacoli, tre personaggi di enorme rilievo scenico, che precisano ancora di più lo stile di un attore e del suo regista. Ma non c’è solo questo; il teatro è una macchina produttiva che gira a tutta forza con uno staff di proporzioni ridicole rispetto agli organici pletorici di certi Teatri Stabili. Oltre a Battista e ai direttori artistici, i nomi (che meriterebbero più di una citazione) sono quelli di Guglielmo Ponzi per l’organizzazione; Giuliana Poggiani per le relazioni pubbliche e la documentazione, Dino Trappetti per l’ufficio stampa, Renato Sestili per la direzione del teatro, Franco Abatécola per le attività promozionali, Renato Morozzi, Domenico Maggiotti e Giuseppe Betti come direttori degli allestimenti. A questi si aggiungeranno l’anno successivo Nico Ferri per il coordinamento generale e Maggy Battista per la segreteria artistica. Pier Luigi Pizzi firma quasi tutte le scenografie.
 
Oltre ai tre spettacoli di Valli, si montano due altre grosse produzioni. Le femmine puntigliose, che è un satirico e raffinato Goldoni messo sopra le righe da Patroni Griffi, con Mariano Rigillo e Lina Sastri (scene e costumi di Gabriella Pescucci, musiche di Ennio Morricone); e La dodicesima notte, regia di De Lullo; si riprende Gin Game, l’amara e gustosa commedia dell’americano D.L. Coburn, con la quale Paolo Stoppa era tornato alle scene dopo la morte della Morelli, in coppia con Franca Valeri, al Festival di Spoleto.
 
Intanto apre il Piccolo Eliseo nuovo fiammante, tutto nero e scintillante di luci. È il regno di Patroni Griffi e diventa subito qualcosa che sta fra la pedana di lancio di nuovi talenti e il laboratorio sperimentale di prodotti di alto livello; laboratorio – s’intende – dove si mostrano risultati pienamente compiuti di una ricerca linguistica, drammaturgica e interpretativa. Il giovane Leopoldo Mastelloni con il suo Carnalità (regia di G. D’Andrea, scene Ionizza-Mastroianni) vi trova il primo palcoscenico prestigioso per la sua ambigua e “maledetta” napoletanità; Franca Valeri disegna le sue irresistibili figure femminili con Non c’è da ridere se una donna cade (regia Valeri, scene Giulio Coltellacci). Giancarlo Sepe mette in scena Gli esseri irrazionali stanno scomparendo di Peter Handke (con Umberto Orsini, Remo Girone, Ilaria Occhini, scene di Bertacca); Mario Ferrero dirige Le lacrime amare di Petra von Kant di Rainer Werner Fassbinder (con Fulvia Mammi, Dina Sassoli, Valentina Sperlì, Flora Mastroianni, Susanna Javicoli e Lina Sastri, scene di Umberto Bertacca).
 
È una linea di novità/curiosità che proseguirà nella stagione successiva, arricchendosi ulteriormente sul versante dichiaratamente comico con l’irresistibile parata di personaggi del Senti chi parla di Carlo Verdone, e il sorridente e un po’ nostalgico ritorno delle bellissime, sorridentissime gemelle tedesche nel KesslerKabarett, guidate dallo stesso Patroni Griffi. Tutti spettacoli che hanno un loro valore, spettacoli più o meno belli, ma nell’insieme testimonianza di un incrocio di talenti ed
esperienze artistiche non comune per numero e qualità.
 
Fra tanti, però, quello che più ha rappresentato se non lo spirito, certo la speranza di quel momento è La dodicesima notte. Con questa bella commedia De Lullo è tornato, quasi vent’anni dopo, su uno dei suoi pochissimi testi scespiriani con una freschezza tutta nuova, col gusto di un’armonia mozartiana, col piacere di semplificare e di togliere (pur nella bellissima spiaggia di vera sabbia di Pizzi), di muoversi, cantare e sorridere soprattutto. C’è nelle sue molte dichiarazioni della vigilia – e soprattutto nella lunga intervista di Giorgio Polacco sul programma di sala – un richiamo insistito alla giovinezza sua, alla giovinezza dei Giovani – quando recitavano appunto questo Shakespeare – e alla giovinezza della nuova compagnia che ha per “decani” dei quarantenni come Mino Bellei (Malvolio), Anita Bertolucci (Olivia), Gianna Giachetti (Maria), in mezzo a una dozzina di bei ventenni (o poco più) fra i quali spiccano Massimo Ranieri (il buffone Feste) e Monica Guerritore (Viola). Lo spettacolo di questa specie di “nuova Compagnia dei Giovani” fa arrischiare un recensore autorevole, cauto ma giusto, come Giorgio Prosperi a dire che, fra le quindici edizioni di questa commedia viste in tanti anni di critica teatrale, questa “è di sicuro la più fresca, lieve, sorprendente, antiaccademica e – diciamolo pure – divertente”.
 
Argante nostro contemporaneo
 
Il malato immaginario era già stato il capolavoro del Festival di Spoleto 1974. Ripreso quattro anni dopo, conferma tutta la sua ricchezza fantastica e comunicativa. De Lullo ha sfrondato via tutte le parti musicali, i balletti, le pastorellerie e le pulcinellate che ingombrano fra un atto e l’altro, i fronzoli della farsa nella quale il Re Sole e i suoi cortigiani volevano fosse annegata la commedia. Resta pure appena un po’ in secondo piano il corteggiamento dei due giovani – vecchio espediente di cento trame – che sono la coppia di lusso Monica Guerritore e Massimo Ranieri. Balza ancor più in primo piano lui, il Malato, in un rapporto coi medici solo apparentemente di devozione e di totale disponibilità. L’Argante di Valli crede, corteggia, ha bisogno dei suoi medici; ma con quanta insistenza e precisione corregge i loro conti (e quelli del farmacista) nella prima scena, quando se ne sta avvoltolato nella vestaglia sul suo seggiolone, come un gufo nel suo pelo! E con quale attentissima emozione si ferma a percepire ogni più piccolo sussulto delle sue viscere: la vecchia gag della corsa al pitale fa ridere, ma assume pure un nuovo, diverso valore, come se Argante volesse da quella via scrutarsi l’anima.
 
Sì, perché il meno che si possa dire dei malanni di questo Argante è che sono malattie psicosomatiche. E così siamo anche esentati dal porci la domanda se è davvero malato oppure no; certo che è malato, tutti quelli che se lo sentono, che lo vogliono sono malati. Tutti siamo malati, anzi “l’uomo sano è un malato che ancora non sa di esserlo” dirà – quasi parafrasando Molière – la celebre battuta di Jules Romain. E allora va bene – come sempre, come è giusto, come è seicentescamente molieriano – fare la satira dei medici di ieri e di oggi, mettere in caricatura il professor Cagherai (Adolfo Geri), suo figlio (Gino Pernice) e il suo collega Fecis (Alessandro Iovine) e tutti i pazientissimi e ossessionati loro pazienti. Ma il nocciolo della questione è altro: è che – come dice l’ottimo traduttore Cesare Garboli, con una frase che ricorda Italo Svevo – la vita è una lunga malattia, che nasconde la paura della morte. E dunque solo una malattia (vera o falsa, che importa) può eluderla, beffarla, giocare con essa al rinvio del saldo dei conti.
 
“Argante è un nostro contemporaneo calato in un realismo esistenziale che è anche il nostro” spiega Giovanni Macchia. E per questo ci fa ridere e pensare, dopo tre secoli, la superba tetraggine di Valli, quel suo raggomitolarsi su se stesso, quel rinserrarsi nella bellissima stanza creata da Pier Luigi Pizzi, bella come un quadro di Vermeer, tutta boiseries di quercia, gran letto a baldacchino, tele e velluti pesanti d’Olanda, grandi vetrate, solidi mobili e fioche luci di candela, che disegnano affascinanti chiaroscuri: ah, davvero, il Visconti delle stagioni migliori non avrebbe fatto meglio! E l’ultima immagine di Romolo-Argante, assopito sul suo seggiolone di cuoio, mentre lenta la prima luce del sole fora i tendaggi e si versa chiara nella penombra della stanza, resta impressa nella mente di chi l’ha goduta, come uno degli omaggi più commossi all’arte e alla memoria di Molière.
 
La ragione di Oscar Wilde
 
Una giacca di velluto nero, un gilè viola, i pantaloni grigio scuro; una scriminatura leggera al centro dei capelli grigi. Appare alla ribalta, scostando con una mano il sipario, che resterà sempre chiuso. Potrebbe essere un personaggio qualsiasi dell’Europa fine Ottocento. Solo quel garofano splendidamente e innaturalmente verde, e il verde di quell’assenzio nel bicchiere sempre pronto ci dicono che si tratta di Oscar Wilde; l’uomo più spiritoso del secolo scorso, condannato per pratiche omosessuali a due anni di lavori forzati, dai quali non si riebbe più. Ieri un perseguitato, oggi un eroe, quasi “il Solgenitzin dei gay”, ironizza Geraldo Guerrieri.
 
Dopo lo sforzo mimetico del suo grande Argante, in Divagazioni e delizie di John Gay (11 maggio 1979) Valli ritrova ed esalta il suo gusto di attore-mediatore, del ragionatore sottile e un poco distaccato dalla materia. In lui non c’è alcun tentativo di imitazione, di immedesimazione, di trasformismo per entrare nei panni del dandy inglese. Gli bastano benissimo i suoi e quel garofano verde. Il resto è parola, intelligenza, humour, soprattutto in quel cocktail particolare che è il paradosso, ovvero il bizzarro, divertente e sorprendente contrario del luogo comune. Lui e De Lullo pensavano da vent’anni ad Oscar Wilde: ora non gli rivolgono un omaggio più o meno rituale, ma si risolvono a quella che l’attore definisce: “una devota prefazione al doveroso approccio col suo teatro”. Prima o poi seguirà qualche commedia, dunque, chissà.
 
Per ora sono assolutamente convinti di quel che dice Borges: “Leggendo o rileggendolo nel corso degli anni, noto un fatto che i suoi panegiristi non sembrano aver nemmeno subodorato: il fatto elementare e facilmente verificabile che Wilde ha quasi sempre ragione”.
 
Ha ragione – quasi sempre – quando dice che l’altruismo è il male del secolo, perché da solo non risolve alcun problema sociale; che la natura è un’invenzione del nostro cervello, che la vuole ora amica, ora tiranna; che il vero artista è il critico, che riconosce la grandezza della Gioconda e “inventa” Leonardo; e così via cento altre “ragioni” che farebbero la gioia e l’invidia di Alberto Arbasino.
 
L’intenzione dello spettacolo è proprio questa, di ripresentare lo scrittore nella sua luce migliore, in tutto ciò che di profetico, di acuto, di visionario o semplicemente giusto c’era nei suoi scritti, nella sua arte e – talvolta – nella sua vita.
 
Il pretesto è quello di una conferenza immaginaria, ma plausibile; quella che avrebbe potuto tenere, subito dopo la sua scarcerazione, se solo avesse accettato una delle tante lucrose offerte di giornali o di impresari americani. La conferenza l’ha messa insieme John Gay (destino di un cognome!) ritagliando abilmente brani di lettere, citazioni di opere e di quelle conferenze che lo scrittore aveva tenuto negli anni Ottanta in America. Masolino d’Amico ha tradotto il tutto molto bene e in più lo ha anche un po’ irrobustito con qualche riga più succosa delle opere più importanti. Lui stesso, dall’alto dei due o tre libri che gli ha dedicato, ci assicura – sul programma di sala – che Wilde era un conversatore straordinariamente brillante, un talento naturale che coniava frasi, calembours, definizioni all’impronta come se stesse recitando una sua commedia già scritta; che anzi i suoi formidabili dialoghi prima li inventava a voce, poi li trascriveva. Non solo, ma era anche un conversatore di bella voce e di gradevole presenza, un dicitore delle sue battute abile e svagato, un dandy che amava vestirsi bene e parlare meglio. Difficile immaginare che potesse trovare un attore più disposto a servirlo di un Valli all’apice della maturità; un Valli gran dicitore non solo quanto a tecnica di recitazione, ma anche per la capacità generale di comunicare, di dominare la parola, di immedesimarsi in essa, di assumerne mimicamente i soprassalti, di renderne la vibratile qualità intellettuale. Due ore di assolo in due tempi, un’adesione totale della critica, ma un concorso di pubblico leggermente inferiore alle speranze e ai meriti. L’occasione, infine, per una nuova ed intensa programmazione della sala grande, che per un certo periodo offre lo spettacolo di Valli al pomeriggio e La dodicesima notte alla sera.
 
All’Oscar Wilde di Divagazioni e delizie sarebbe piaciuto il modo in cui il nuovo Eliseo apre la sua terza stagione, con Sogno di una notte di mezza estate mimato e danzato da Lindsay Kemp. L’artista inglese aveva avuto proprio sullo stesso palcoscenico il suo primo battesimo romano tre mesi prima. Ora torna – in coproduzione con la sua compagnia – a recitare la commedia scespiriana come fosse la favola raccontata da un bambino. Un bambino dal quale sgorga un torrente di energia dionisiaca, che tutto avvolge. Elfi, spiriti, fate, mostri, folletti, cortigiani e valletti saltano e corrono per lo più nudi in scena. Si direbbe un balletto-Kamasutra, una pantomima esasperatamente kitch, una scatenata kermesse dell’eros – prevalentemente omosessuale – che ha i colori e gli orrori della pittura inglese dell’Ottocento, di Dadd, Paton, Blake, Füssli (Do you know Mr. Wilde, Sir?) spettacolo molto inglese – nel bene e nel male – e soprattutto nelle pantomime, che sono certamente la componente più affascinante; spettacolo di successo (ma non proprio come il leggendario Flowers dello stesso Kemp), che guadagna all’Eliseo i consensi di un’ala nuova del pubblico, gli amanti della danza, del mimo, della nuova estetica del gesto in prorompente ascesa in tutta Italia.
 
Nel camerino di Romolo
 
I vecchi comici “all’antica italiana” amavano il loro camerino, quel luogo precario e arredato alla meglio, ma importantissimo nella loro vita: uno specchio appannato, un tavolo con la sedia e – per le prime parti – uno straccetto di tappeto e un divano cigolante. Era un luogo segreto al pubblico, dove le ansie quotidiane venivano come cancellate dal cerone, dove si compiva la metamorfosi dell’uomo-attore in attore-personaggio; il luogo ove il vero artista doveva compiere quella che Stanislavskij definiva la “toilette dell’anima”; ma anche il salottino privato, il provvisorio boudoir della prima attrice sommersa dai fiori dei corteggiatori.
 
Il camerino di Romolo – Re dell’Eliseo – era bello e spazioso, come nessuno, da Gustavo Modena a Ermete Zacconi, avrebbe mai potuto immaginare. Lì aveva voluto finire il bel ritratto televisivo messo assieme col titolo Tutto di Romolo Valli, suggerendo alla regista Olga Bevacqua di inquadrare quello che andava indicando col suo fare cordiale e un po’ cerimonioso: le locandine degli spettacoli, gli appunti, i telegrammi, le fotografie delle persone care, quella di Vincenzo Torraca, quella del capo ufficio-stampa Dino Trappetti, quella di mamma Matilde, ottantasei anni, sua grande sostenitrice; i fiori che manda regolarmente Umberto Tirelli; e le mille medicine per le mille malattie, immaginarie e no. Poi gli omaggi: tre disegni ispirati al Malato immaginario, uno di Fabrizio Clerici, uno di Cagli, l’altro di Tozzi; una caricatura di Oscar Wilde; una colomba di Guttuso, che porta scritto dentro il nome dell’attore; una corona d’alloro del pittore greco Jannis Zaruk. E ancora le foto degli amici che non ci sono più, di Nora Ricci, di Luchino Visconti.
 
Era anche il crocevia delle sue due anime, di attore e manager. Non è un caso, allora, che diventi anche il teatro di una brutta scena, di uno scontro che amareggiò tutti i partecipanti, quel pomeriggio del giorno di Natale 1979.
 
Le due prime stagioni erano state splendide e dispendiose. La stabilità della compagnia, che praticamente non faceva tournées, teneva bloccati l’attore di maggior richiamo e l’intero teatro. L’elevato numero di allestimenti, i costi alti di produzione, quelli altissimi del rammodernamento delle due sale e i mancati introiti del normale “giro” degli spettacoli, le prestigiose attività dell’Associazione degli Amici dell’Eliseo si sommavano. E il risultato era un investimento davvero cospicuo (circa due miliardi e mezzo di lire nel 1979!), che imponeva ammortamenti a tempi lunghi, con una prospettiva ancora incerta di veder incrementato il contributo statale.
 
Sarebbe bastato questo a rendere comprensibile il proposito di Battista di trovare qualche partner in grado di partecipare all’impresa. Sarebbe bastato. Ma se poi ad offrire un aiuto era Rossella Falk, che – dopo cinque anni di matrimonio finito male – desiderava tornare alle scene, c’erano almeno un altro paio di buoni motivi. Il primo era che – merito o colpa – era stata soprattutto lei a spingere l’uomo d’affari a quella impresa, così ricca di soddisfazioni e preoccupazioni; e poi sarebbe stato difficile immaginare un socio di minoranza più adatto a collaborare con i tre direttori artistici, che erano i suoi amici di sempre Valli, De Lullo, Patroni Griffi.
 
Così almeno la pensava Giuseppe Battista, che è ovviamente il nostro testimone.
 
Dapprima una gelida reazione accolse il progetto del rientro di Rossella e il suo desiderio di mettere su il musical Applause. “Ma, durante una serata in casa di Romolo e Giorgio, per leggere la versione definitiva di Prima del silenzio, notai con piacere il riannodarsi dei rapporti fra la Falk e gli altri; speravo che la vecchia amicizia avrebbe presto prevalso”, racconta Battista.
 
La scena finale di quella vicenda – dopo altri incontri interlocutori – si svolge nel camerino di Romolo il 25 dicembre. Il teatro è chiuso. Si prova la nuova commedia. Sono presenti l’attore, il suo autore, il regista e il direttore. Davanti al tavolo con il cerone, le fotografie e la colomba di Guttuso, De Lullo grida forte, con violenza dice cose spiacevoli, cose cattive, cose non vere, come se la Falk volesse tornare brutalmente da padrona, “lei coi suoi soldi e il suo dannato musical!”.
 
“Giorgio disse qualunque cosa su Rossella – ricorda Patroni Griffi –. Ed io, fra me e me naturalmente, quasi ridevo come un pazzo. Mi sembrava tutto talmente chiaro: il furore di Giorgio, la reazione al tradimento di un antico amore, i suoi beati paraocchi e giù, giù a dare legnate. Romolo non rideva affatto. Battista era teso. Quando uscì, dissi: “Madonna, quante ne hai dette, Giorgio, sei un pazzo!”. E Romolo: “Abbiamo perduto l’Eliseo…””. Forse non l’avevano perduto, anche se per qualche giorno accarezzarono l’idea di trasferirsi al Giulio Cesare. Forse non l’avrebbero mai perso, perché il successo di Prima del silenzio aveva creato un clima nuovo; era il punto di arrivo di una grande parabola artistica nella quale si ritrovavano assieme quel formidabile trio di un autore, un regista e un interprete che riverberavano la loro luce sul grande teatro che li aveva rimessi insieme. La sera della prima anche Battista era un po’ commosso per quel vento caldo che spirava fra platea e palcoscenico. Rossella corse in camerino ad abbracciare Romolo…
 
Patroni Griffi è oggi convinto che un accordo si sarebbe trovato. E se Patroni Griffi è un conciliatore, Romolo era un grande mediatore, Battista un uomo disponibile al dialogo (già qualche giorno dopo parlò a quattrocchi con Valli). Peccato che Rossella non avesse parlato personalmente ai suoi amici, alimentando senza volere un clima di incertezza, che si fece sospetto e che altri inacidirono costruendo la favola (e il pettegolezzo) di una congiura. “Perché, fra le tante cose brutte che si dissero in seguito, ci fu pure uno smisurato peccato d’orgoglio. Ma quella non era una tragedia scespiriana, e la direzione artistica dell’Eliseo non era il trono di Scozia. Forse era solo la fine naturale di un gruppo che ad un certo punto s’era fatta pure un po’ di guerra intestina”, dice Patroni Griffi. Forse non era neppure quello. Ma il tempo finì, per la tirannia del destino.
 
Prima del silenzio
 
Si può scrivere di Prima del silenzio senza pensare che è stata l’ultima interpretazione di Romolo Valli, e poi di Giorgio De Lullo? No, non si può. Non si può eludere quello che – subito – sembrò un appassionato testamento spirituale.
 
Nel nostro ricordo Romolo è inconsapevolmente annegato nel mare di libri accatastati, di giornali sparsi e carte polverose, fra la chaise longue malandata, il divano sfondato e il vecchio pianoforte del personaggio che Giuseppe Patroni Griffi gli ha disegnato addosso.
 
Un giorno si era detto: “Voglio fare per Romolo un personaggio che contenga tutte le cose di questi anni. Questa larva di idea è rimasta per qualche tempo ferma, finché non è venuto il lievito che l’ha trasformata in un primo pezzo scritto. Allora ho chiesto a Romolo e Giorgio se volevano sentirlo. Ascoltarono e ogni tanto mi dicevano: “Va bene, vai avanti”, ma senza eccessivi entusiasmi. La gente pensa che nel nostro sodalizio ci parliamo addosso. Ma non è affatto così. Una delle prime cose che Giorgio mi disse è che dovevo tagliare certi fatti realistici, certe “cose vere”. Mi resi conto che la commedia era verbosa, ridondante, forse ripetitiva, soprattutto perché era piena di roba. De Lullo disse: “Taglia, magari tagliala tutta e riscrivila”. Io risposi: “Da solo non ce la faccio, dovete aiutarmi voi”. E così accadde, lavorando e discutendo per settimane. Ma niente mi convinceva. Così come l’avevo scritta la commedia mi pareva disarmante, semplice, lineare. Spesso chiedevo a Romolo di leggere lui i brani scritti e riscritti, e attraverso la sua voce che già portava il “suono” del personaggio, io la vedevo e la capivo meglio. Romolo era un grande portatore delle idee che si possono mettere dentro a un testo di teatro. Poi arrivai a quel finale tutto in versi, sciolti, naturalmente, ma versi poetici. Giorgio disse: “No, ma siamo pazzi, che ci sta a fare quella poesia lì in fondo?”. Allora ci riprovai – perché sono uno che si fa influenzare – ma alla fine non mi venne un altro finale. Tentai, ma non c’era niente da fare. Dissi: “Senti, Giorgio, se tu pensi che la commedia non è giusta così, non la facciamo”. Ma a Romolo andava bene così”.
 
Fu un grande successo la sera del 28 dicembre 1979 e nei giorni che seguirono. Uno di quei successi che vanno oltre la lunghezza degli applausi e le recensioni tutte più o meno entusiaste. Era la nuova e forte affermazione di un gruppo artistico cresciuto davvero insieme e con antenne sensibili sul suo tempo. Era la voce di un drammaturgo italiano, che in questa nostra lingua che tutti dicono difficile da far vivere al teatro si levava con autorità creativa di rara potenza. Era la rappresentazione drammatica di un nodo delicato fra le generazioni degli uomini maturi, che forse avevano sbagliato il passato; e degli uomini giovani, che vagavano nel buio del presente, in quel tunnel che dal terrorismo porterà alla droga.
 
Un successo che apparteneva di pieno diritto anche ad un’organizzazione produttiva impeccabile, un successo pensato, nato e cresciuto in quella nuova “casa degli attori” che era l’Eliseo in quella stagione. (Un successo pagato anche al prezzo del riacutizzarsi di un’ulcera duodenale, che costrinse Valli a sospendere le recite per una settimana).
 
Valli ci si ritrovava benissimo in quel personaggio indicato semplicemente come Lui, intellettuale cinquantenne che s’è lasciato alle spalle tutto, perfino le sue raffinate traduzioni di Elliott, e una manciata di poesie (che vinceranno – a metà commedia – il più importante Premio Nazionale); uno che si definisce “senza speranza, un uomo di insuccesso, con moglie ricca e due figli impegnati, chi lo potrà salvare?”.
 
Accanto c’è il Ragazzo, al quale Fabrizio Bentivoglio presta la sua recitazione dichiaratamente acerba e un torso nudo esibito con indolente orgoglio. In quella stanza velata di ombre e di ricordi Lui parla a questo giovanissimo campione di zingaresca libertà, che è forse un autostoppista, forse una marchetta, forse l’uno e l’altra. O forse la versione aggiornata e involgarita di quel Bosie che incantava e dannava Oscar Wilde. (Del resto Lui e il Ragazzo vanno in barca a Capri, come Oscar e Bosie, come Romolo e Giorgio e gli altri che hanno casa vicino alla villa di Tiberio).
 
Lui se ne sta come autosegregato fra i libri e le immagini care di Gary Cooper da giovane, il ritornello de “La vie en rose”, una melodia di Gershwin, i ricordi di un uomo colto, che ha aperto gli occhi della sensibilità in quel periodo leggero e veloce del dopoguerra (manco a dirlo, quello in cui i Giovani erano giovani davvero, e Peppino con gli amici napoletani saliva verso Roma).
 
È uno che s’è lasciato andare, senza rimorsi, ma pieno di rimpianti: “Te li sai immaginare – dice ad un certo punto – due occhi azzurri di mare chiarissimo, due occhi amici per anni e anni, che ti hanno seguito e amato e sono stati amatissimi; può uno riuscirli ad immaginare questi due occhi spenti dentro e saperli poi che crepitano dentro un forno crematorio… e ancora una voce brusca, a suo modo particolare, roca, con una vena autoritaria che ti ha accompagnato per gli anni più importanti della tua vita, e saperla soffocata nel silenzio…” (il rimpianto per Nora Ricci, il rimpianto per Luchino: quelle due foto nell’angolo eletto del camerino di Romolo…).
 
Parla come un torrente, memorie, sensazioni e sentimenti: è come un clown malinconico che ha paura di perdere il suo ultimo pubblico; in testa un cappellaccio di paglia, il ventre è slentato nei calzoni lisi; la camicia, la maglia, la barba, i capelli, tutto è in un disordine noncurante, come era Sandro Penna, o forse un po’ Umberto Saba o De Pisis.
 
In una giornata particolare, in quella stanza-rifugio, stanza-zattera alla deriva della vita, stanza solitamente deserta emergono le ombre concrete del passato che vorrebbero riannettersi il personaggio: la Moglie elegante e stizzosa (Fulvia Mammi), il Figlio supponente (Matteo Corvino), il Cameriere affezionato nella sua inamidata precisione (Franco Scandurra). Ma lui rifiuta tutto e tutti, non ha altro bisogno, altro piacere, che di restare a parlare, con un misto di risentimento e di passione, a quel ragazzo al quale lo legano e lo respingono forze ambigue e confuse: l’amicizia, il sesso, l’amore, la pietà, l’incomprensione fra le generazioni.
 
Dice: “Bisogna parlare, imparare a parlare, parlare per raccontarci, rivelarci, scoprire le affinità, parlare per essere sempre nuovi, per non invecchiare […] parlare per aumentare il volume dei sentimenti, per cancellare l’odio, per rimuovere l’oblio…”.
 
Ma il Ragazzo replica, allontanandosi per sempre: “Che razza di imbroglio… Tu parli, parli, tu non mi dai niente e io vado cercando un’altra dimensione, che non ti so spiegare! Ti affidi alle parole e le parole non servono a niente, lo vedi, nemmeno a trattenermi con te!”.
 
Lui: “Maledetto… la vita è parola”.
 
E ancora: “Ogni uomo che muore/ risorge in un altro che nasce./ La parola che non trova asilo/ nella bocca dell’uomo/ è già la morte – senza resurrezione”.
 
Sipario.
(Chissà se Lui ha letto il libro autobiografico “Les Mots”, dove il bambino Jean Paul Sartre si impadronisce giorno per giorno delle parole, e comincia a scrivere per farsi perdonare la propria esistenza…).
 
Romolo Valli stava già pensando di impersonare Socrate nei dialoghi di Platone ridotti da Gian Piero Bona; ma quali parole più belle, quali parole più intense di quelle dell’amico Peppino avrebbe potuto trovare per uscire di scena l’attore che ogni sera sperava di essere “un civile mediatore della sola fede che mi è consentita: quella di un celebrante laico pieno di incertezze, di vulnerabilità, di paure”?
 
L’ultimo applauso
 
“Entrò mia sorella. Gridò “Peppino, è morto Romolo, è morto Romolo!”. Mi svegliarono queste parole. Ricordo esattamente che le sentivo, ma non riuscivo a realizzare il loro significato. Rimasi in silenzio un’ora, con le gambe fuori del letto. Telefonai a Dino Trappetti e Umberto Tirelli. Mi dissero che erano andati all’obitorio. Allora mi vestii, con molta calma, lentamente, come se vedessi i miei gesti dal di fuori. Andai anch’io all’obitorio e poi – soltanto poi – scoppiai in un pianto angosciato”.
 
“Ero a Berlino, da sola, per vedere Applause. La mattina prestissimo, dormivo ancora, mi telefonò in albergo Giuliana Poggiani. Terribile, terribile. Fuori pioveva. Corsi all’aeroporto: non c’erano voli diretti e dovetti girare mezza Europa. Volevo arrivare al più presto…”.
 
“Da Milano dovevo andare a Ginevra in auto. Avevo dormito a Courmayer. Ascoltai la notizia al giornale radio delle 7.30. Rimasi sconcertato. Dopo due minuti chiamò Maggy, mia moglie: “Hai sentito la radio?”.
 
Corsi a Ginevra, annullai gli appuntamenti, e saltai sul primo aereo per Roma. Da Fiumicino venni direttamente in teatro. Mi venne incontro Peppino, ci abbracciammo piangendo. Subito pensai che la salma dovesse essere esposta qui, nel nostro teatro”.
 
Così la tragedia crudelmente irrompe nella vita di Patroni Griffi, della Falk e di Battista, la mattina di venerdì 1 febbraio 1980. Giorgio De Lullo è a Torino per la ripresa della Dodicesima notte. Interrompe le prove, non vuole vedere nessuno, non avrà più la forza di mettere piede all’Eliseo.
 
La morte è arrivata di notte, assurda e così dolorosa per chi rimane. S’è portata via gli affetti e i progetti, tutti gli spettacoli da fare, e quelli ancora da pensare. Romolo avrebbe compiuto cinquantaquattro anni fra una settimana: è un “giovane” anche in questa estrema chiusura di sipario, che lascia dietro di sé un mare di applausi e di lacrime, di ricordi e di rimpianti; e perfino un pugno di dubbi e pettegolezzi.
 
Fra le tre e le quattro Romolo Valli è, da solo, al volante della sua vecchia Rover 3500 sulla via Appia Antica. A un chilometro dalla villa che divide da anni con Giorgio De Lullo, perde il controllo della potente auto. Forse stava tornando a casa: dopo il cavalcavia ferroviario sbanda, abbattendo il palo di ferro del segnale di avvertimento del semaforo di via Cilicia; urta contro un muro e dopo un testa-coda si schianta contro un pesante cancello di ferro sulla parte opposta della strada. Forse andava nella direzione contraria; lo ritiene più probabile la polizia, secondo la quale l’auto è sbandata, ha urtato con la fiancata destra contro un muro; poi un testa-coda e l’urto finale contro il cancello. Nessuno ha visto, nulla è chiaro. Si sa che pioveva e il fondo dei sampietrini era sdrucciolevole. Poi uno schianto e la telefonata di un anonimo al 113. La corsa della polizia e un’ambulanza inutile. L’attore è già morto, riverso contro il volante, col torace fracassato: “fratture multiple, con versamento interno” diranno all’Istituto di Medicina Legale. Forse era stanco, chissà, un colpo di sonno; certo era sobrio, perché non toccava alcool per via dell’ulcera duodenale; forse è stato stroncato addirittura prima di finire contro il muro; forse è stata colpa del “minimo” che funzionava male, costringendolo a girare con lo starter costantemente inserito: in caso di frenata la macchina restava accelerata.
 
Le ultime ore le racconta Dino Trappetti, segretario e amico da tanti anni: “Dopo la rappresentazione pomeridiana, sono andato a cena nella villa di Romolo sull’Appia Antica, insieme a suo nipote Paolo Valli, tecnico del teatro, e al giovane interprete di Prima del silenzio Fabrizio Bentivoglio. Dopo abbiamo conversato e ascoltato musica. Poi Romolo ha proposto di uscire per prendere una boccata d’aria. Era curioso di conoscere la nuova discoteca Much More e verso mezzanotte ci siamo andati tutti e quattro. Il press-agent Enrico Lucherini ci ha accolto molto cordialmente ed ha mostrato a Romolo alcuni effetti speciali che l’hanno molto divertito. Ci siamo trattenuti fin verso le 2, poi siamo usciti. Dopo un drink ci siamo salutati dalle parti di piazza Don Minzoni, ai Parioli. Io me ne sono andato a casa con la mia auto, mentre Romolo doveva accompagnare Fabrizio Bentivoglio ed il nipote Paolo alle rispettive abitazioni in via del Babuino e dalle parti dell’Eliseo, prima di tornare alla sua villa. È stata l’ultima volta che ho potuto sentire la sua voce. Qualche ora dopo sono stato costretto a riconoscerlo all’obitorio”.
 
Il teatro italiano è in lutto. Roma fa la fila all’Eliseo dove la salma è stata esposta nel foyer. Migliaia e migliaia di cittadini per tutta la giornata di domenica. Viene anche il presidente Sandro Pertini, che vorrebbe fare la coda insieme agli altri: ingresso da via della Consulta, uscita in via Nazionale per agevolare l’enorme afflusso. Lunedì i funerali nella basilica dei SS. Apostoli. Una mattina insolitamente fredda per il mite inverno romano. “Abbiamo perduto un amico”, dice il cardinal Pignedoli dal pulpito. Ci sono tutti gli amici di sempre e quelli nuovi, i compagni, gli spettatori, tre ministri e i gonfaloni di due città del cuore: Reggio Emilia e Spoleto. Fuori dalla chiesa s’alza spontaneamente e commosso l’ultimo applauso. Un furgone nero lo porta al cimitero della sua città natale. Romolo esce di scena, per sempre.

L'UNITA                                               
1977.10.05 

CORRIERE DELLA SERA                                              
1977.10.05 

L'UNITA                                               
1977.12.02

CORRIERE DELLA SERA                                           
1977.12.04

CORRIERE DELLA SERA                                           
1977.12.04

CORRIERE DELLA SERA                                           
1977.12.13

L'UNITA                                               
1977.12.13

AVANTI                                         
1977.12.13

AVANTI                                         
1977.12.15

L'UNITA                                       
1977.12.15

IL DRAMMA                                      
1978 March

ELISEO “Un Teatro E I Suoi Protagonisti” ROMA 1900 – 1990

1989
MAURIZIO GIAMMUSSO
© Gremese Editore, Roma
XIV
IL NUOVO ELISEO

La direzione Battista - Un addio alle scene - Romolo, re dell'Eliseo - Pirandello secondo Valli- De Lullo - La dodicesima notte - Argante nostro contemporaneo - La ragione di Oscar Wilde - Nel camerino di Romolo - Prima del silenzio - L'ultimo applauso

La direzione Battista

Il 3 ottobre 1977 comincia una nuova epoca per il teatro Eliseo. Si celebra il rito della conferenza stampa d'apertura di stagione nel foyer e si presentano al pubblico il nuovo proprietario Giuseppe Battista e i suoi amici direttori artistici Romolo Valli, Giorgio De Lullo e Giuseppe Patroni Griffi. Vincenzo Torraca, l'uomo che si identificava col teatro di via Nazionale, esce elegantemente di scena, con i suoi novant'anni appena compiuti. Il suo burbero direttore, il famoso commendator Fernando Spernanzoni, che - agli occhi degli spettatori - era l'onnipotente Cerbero della sala, è scomparso qualche mese prima. È scomparso anche il Cerbero vero, cioè il grande mosaico di Pietro Melandri che era sulla parete di fondo della hall; tutto è nuovo adesso, secondo lo stile sofisticato di Pier Luigi Pizzi. Le Stanze del Teatro, che già non funzionavano più da qualche anno, diventano uffici per la nuova impresa.

Le novità sono molte, quella mattina: una nuova proprietà, una nuova direzione artistica, una nuova Compagnia dell'Eliseo, che dividerà il cartellone della stagione con la Proclemer-Albertazzi (Antonio e Cleopatra) e con Franco Parenti impegnato nel trittico di Giovanni Testori (Ambleto, Macbetto e Edipus); ci saranno anche serate speciali con Leyla Gencer, Massimo Ranieri, Milva e altri. L'inaugurazione sarà fra un paio di settimane con l'Enrico IV di Valli-De Lullo. Nelle dichiarazioni si batte soprattutto sull'impegno privato della gestione, poiché i nuovi padroni di casa sono convinti che non si può più pensare di identificare il teatro pubblico con la cultura e quello privato con il commercio. «Nulla da eccepire in questa fase di caloroso sviluppo e soprattutto siamo esentati dal fare nelle tasche dei nuovi finanziatori i conti che maliziosamente si sono fatti quando si procedette al rinnovo del teatro Argentina» osserva uno smaliziato commentatore (Tullio Kezich) alludendo alle polemiche di sei anni prima, quando Valli e De Lullo fecero gridare allo sperpero per un Giulio Cesare kolossal: ma quelli erano soldi del contribuente. Ora sono di chi si è assunto personalmente la responsabilità della gestione.

Perché Giuseppe Battista, questo gentile e autorevole signore, che ha una brillante attività di consulente finanziario in proprio e di collaboratore del ministro Gaetano Stammati, si trova a recitare la parte per lui del tutto inedita di direttore di uno dei più importanti teatri d'Italia? Il suo predecessore, Vincenzo Torraca era arrivato a via della Consulta (dove sono gli uffici del teatro) nel 1936, casualmente, partendo dal giornalismo politico, attraverso varie combinazioni d'affari. Ora gli affari c'entrano meno, ammenocché si voglia far tutto risalire all'acquisto di una casa di campagna a Zagarolo, tre anni prima.

Lì, come vicina di casa, il nuovo venuto trova Rossella Falk e, sovente, i suoi ospiti preferiti, Romolo Valli e Giorgio De Lullo. Per un appassionato di teatro come era sempre stato, non si poteva immaginare migliore compagnia per il weekend. Capita così di conversare e chiedere: qual è il sogno di un'attrice affermata, come te, e dei tuoi compagni? Ad una domanda simile non si scap pa; da Laurence Olivier all'ultima recluta dell'Accademia la risposta è: avere un teatro, un teatro che sia una casa, un palcoscenico dove recitare... È così che dopo le chiacchiere di una domenica in campagna, Battista viene amichevolmente interessato a cercare qualche soluzione, a fare sondaggi nella sua qualità di professionista degli affari. Un primo tentativo orientato verso il Capranica si rivelò sterile, poiché riadattare a teatro quel cinema era impossibile. Ma cancellato quell'obiettivo, si punta più in alto: perché non l'Eliseo?

Lo scoglio era Torraca, un uomo al quale nessuno poteva pensare di fare il torto di estrometterlo, sia pure insieme ad attori importanti come I Giovani, racconta Battista, che di questa pagina sarà allo stesso tempo il testimone ed il protagonista.