FROM LP BOOKLET
LEGENDARY PERFORMANCES OF LEYLA GENCER
FRANCA CELLA
L'OPERA [Original / Italian]
Come bis finale dei suoi concerti, raffinatamente liederistici, Leyla Gencer ama spesso concedere l'aria più famosa di quest'opera: "Al dolce guidami - castelnatio." Arriva con sguardo già complice, annuncia Donizetti, Anna Bolena col tipico "sostenuto" alle sillabe finali per difendere le parole preziose dell'applauso che già si scatena. Perchè volevano proprio questo, dopo le delizie della serata: un attimo di palcoscenico, con la Regina, la voce inconfondibilmente stravolta nella dolce follia.
Quest'aria scritta nel 1830 per Giuditta Pasta, evocata dal Fogazzaro come clima d'un "piccolo mondo antico" lombardo-veneto, è diventata quasi una sigla di Leyla Gencer, dei personaggi regali che predilige, del revival donizettiano di cui, da anni, è la principale, vittoriosa, esploratrice.
Eppure, nel '57, fu Maria Callas a riportare in vita l'Anna Bolena, in una folgorante operazione che vide impegnati, alla Scala, il direttore Gianandrea Gavazzeni e il regista Luchino Visconti, scene "inglesi" di Nicola Benois, con Giulietta Simionato, Nicola Rossi Lemeni, Gianni Raimondi, Gabriella Carturan. In quell'edizione Leyla Gencer, debuttante alla Scala coi Dialoghi delle Carmelitane di Poulenc, era il "doppio" della Callas, per contratto della sua opera e senza diritto di recite, come allora usava. Lavorò con quei maestri e l'anno dopo, luglio '58, fu prescelta lei per l'incisione radiofonica, con lo stesso direttore e la Simionato. Questa Anna Bolena, annata '58, ha un valore anche rituale: segna il primo vero incontro della Gencer con l'autore subito amatissimo, dopo il fulmineo, improvviso impatto con la Lucia l'anno precedente. La sua indipendenza di fronte al modello rivelatore, che non vuole imitare per consapevolezza di mezzi diversi e per. una propria idea ben precisa, anche caparbia, del bel canto italiano.
Per cui Anna Bolena, andata sposa giovanissima ad Enrico VIII, non intrigante, ma vittima, le suggerisce un colore innocente, un'impostazione lirica, anche se approda a momenti di drammaticità. In tale ricerca di strumentalità (ma psicologizzata) della voce la Gencer aderisce all'odierna concezione della vocalità del primo '800, e anche nel recupero d'una tecnica, poichè intende come fedeltà alla scrittura una scan
sione musicale precisissima, limpida fino alla trasparenza entro la quale increspare il pathos interpretativo. Quanto all'ornamentazione belcantistica ad libitum dell'interprete, per lei questo modo d'intervento è, oggi, una civetteria artificiale che rischia di snaturare la linea drammaturgica così precisa in Donizetti. Per tali ragioni, incoraggiate in quel momento dai maestri, accresciute dalla esecuzione in forma concerto, questa Bolena presenta una vocalità verginale, pura, pudica di effetti, che si giova della facilità nella zona acuta. Volutamente schiarita rispetto al Trovatore RAI dell'anno precedente. Punto di partenza d'una sua parabola donizettiana che approderà alle collere roventi e malinconie abissali di Elisabetta nel Roberto Devereux ('64), alle angeliche ambiguità di Lucrezia Borgia ('66), ai regali tormenti di Maria Stuarda ('67), di Caterina Cornaro ('72), alle torbide passioni di Antonina in Belisario ('69), ai palpiti e turbamenti di Poliuto ('60), e Les Martyrs ('75). Diversa anche dalla sua stessa Bolena presentata a Glyndebourne ('65, direttore sempre Gavazzeni) dove la voce, nel processo di maturazione e nello spazio scenico, svela complessi tà più corposa e ombre di mistero. Eppure riconosciamo i cardini delle interpretazioni donizettiane della Gencer. Preliminare l'adesione al personaggio attraverso lo spazio psicologico che Donizetti schiude all'interprete. La reatti vità ritmica e teatrale che ne consegue, con lo slancio dei tempi veloci o le entrate sempre "in azione." L'uso del colore: dall'inizio, quando la Regina entra presaga d'un destino incombente, sa di non poter contare sul timbro penetrante della Callas nè sul peso della sua autorità; cerca i propri colori all'interno del discorso musicale e dell'emotività del personagi gio, ma secondo una propria logica e un proprio metodo. Il senso della frase musicale, che nasce ogni volta con una volontà, s'inarca con cesure, legature portanti e approda arricchita di tutto il significato. La scopre sul valore della parola che è sempre filtro d'emozione, ombra d'immagine, addolcita d'affetti o infittita d'autorità, di sdegno. La cerca in un respiro logico e inquieto, per cui ogni frase si muove in arcata dinamica col rinforzando e lo smorzando, e apparentemente solo si colora d'ansia, s'illanguidisce d'angoscia, si affaccia a una zona segreta o si impone in uno spazio. Rafforzata da una tecnica prodigiosa di fiati, dalle arcate interminabili, alle cesure appena percettibili, alla frantumazione espressiva. La zona teatralissima degli "a parte", cara a Donizetti, le suggerisce un gioco di piani che non è espediente, ma finissimo arricchimento del personaggio, e dà al discorso un ondulamento di conversazione che accresce naturalezza alla metafora melodrammatica. E' un'arte del chiaroscuro, dell'introspezione che arriva all'acrobazia del do sopra il rigo, attaccato piano ("infiorato").
C'è una determinazione di base in due direzioni: la volontà che il discorso non abbia cedimenti, e quindi il sostenerlo con l'intenzione, coi finali di frase rilevati, con gli accenti di sostegno che pero accenti veri non sono, per l'altra volanta di non alterarlo, ma quasi impercettibili calibature delle parole. La scansione precisissima riesce a coincidere con l'immediatezza espressiva. Il segreto? Me lo chiedevo a proposito di certe quartine nitide e vertiginose ("Ah! Se mai di regio soglio / ti seduce lo splendore"). L'ho scoperto tra le annotazioni del suo spartito di studio, dove la difficoltà è stilisticamente motivata e documentata prima di aggredirla in slancio o in brivido: "indugio sulla prima (nota), indi rubare le altre", e conforta la scelta con la variante di Garcia che stacca in biscroma più Giulietta Simionato terzina.
La forza di concentrazione agisce sul discorso continuo, sfaccettato. Certi grandi momenti possono tornarci alla memoria con l'accento della Callas che per la prima volta li ha rivelati, ma quando li ascoltiamo emerge dal discorso emotivo e lavorato di Leyla ci afferrano per la loro carica autonoma. "Io sentii sulla mia mano" era alla Scala un momento indimenticabile, per lo stacco di solitudine interiore della voce e dell'immagine. Qui arriva diverso e altrettanto magico, lavorato sul "piano" e "marcato", col trasalimento di chi ha trovato qualcosa dentro di sè, e la precisione del ritmo puntato che segue. Così l' "Ove sono?" per trovare un colore di vita che a stento rinviene, o il "Giudici! ad Anna!" fra il "sostenuto" cato" nella ripresa, che trae partito proprio dell'attacco e il "forte", con un "piano soffo- dal timbro meno lucente per un effetto d'incrinatura irresistibile, e il tempo eccitato che segue, da Gencer aggressiva quale poi la conosceremo.
Il discorso sul primo Donizetti della Gencer, che ha avuto seguito di portata storica, ed entra solo oggi nella discografia ufficiale, ha bruciato lo spazio destinato agli altri interpreti. Ha portata storica la presenza di Gavazzeni, senza, e cui il revival scaligero dell'Anna Bolena non sarebbe avvenuto in quei termini di giustezza assoluta, esemplare. Ritroviamo in quest'incisione la sapienza musicale e teatrale che fece grande quello spettacolo, pur calibrate sui nuovi interpreti e sul diverso momento esecutivo. La capacità di recuperare la teatralità ottocentesca come tipologia storicizzata e viverla come scatenamento; la congenialità con cui illumina il discorso donizettiano; il colore inglese radicato in ascendenze lombarde; la coralità portante e struggente, gli spazi sonori in cui chiama i personaggi; l'amara consapevolezza politica; la proporzione "attuale" dei tagli; il fervore (e rigore) comunicato agli interpreti e a noi.
Giulietta Simionato è la splendida Seymour della Scala, dallo slancio bruciante; Plinio Clabassi (alla Scala Lord Rochefort) veste con autorità e nitida consapevolezza i panni del tiranno Enrico; Aldo Bertocci dà calore e intelligenza al personaggio eroico-patetico di Percy.
THE OPERA [English]
As a final encore to her refined vocal recitals, Leyla Gencer often likes to offer the most famous of the arias in this opera: "Al dolce guidami, castel natio.'" Returning to the stage, her glance already an accomplice to the fact, she announces Donizetti, Anna Bolena, with that typical "sostenuto" of the final syllables so as to defend her precious words from the inevitable burst of applause that usually follows. Because this is what everybody has been looking forward to after the delicacies of the evening: a moment of opera with the Queen, her voice purposely distorted by her personage's sweet insanity.
This aria, which was composed for Giuditta Pasta in 1830, and cited by Fogazzaro as being in the mood of "an early miniature Lombardo-Veneto vignette," has almost become a trademark for Leyla Gencer, of the royal characters she so prefers, and of the Donizetti revival of which, for years, she has been the most important and most successful explorer.
And yet, in 1957 it was Maria Callas who resuscitated Anna Bolena at La Scala in a dazzling operation which also included conductor Gianandrea Gavazzeni, stage director Luchino Visconti, the "English" sets of Nicola Benois, with Giulietta Simionato, Nicola Rossi Lemeni, Gianni Raimondi, and Gabriella Carturan. For that particular production Leyla Gencer, who had just debuted at La Scala in Poulenc's Les Dialogues des Carmelites, was Callas' understudy, by contract without any right to any of her own performances, as was the custom at that time. But she did work with the same maestros and a year later, in July of 1958, it was she who was chosen for the radio performance, together with Gavazzeni and Simionato.
This edition of Anna Bolena (1958) also has a ritual value: it marks Gencer's first true encounter with her beloved Donizetti, following the lightening, unexpected impact with Thus Anna Bolena, the youthful bride of Henry VIII, enters marriage not as an intriguer but as a victim, requiring a timbre of innocence and lyric placement, even though there are often moments of dramatic impact. In her search for an instrument-like and psychological vocal timbre, Ms Gencer adheres to the contemporary concept of what vocal style was like in the early Ottocento, as well as recuperating a certain technique, insofar as what she intends as fidelity to the score is a precise musical scansion, limpid to the point of transparency, within which flows her interpretive pathos. As far as her ad libitum bel canto ornamentation is concerned, today Gencer considers this a form of artificial coquetry which can easily deform Donizetti's precise dramatic line. For these reasons, and encouraged at that moment by her various maestros, enhanced by performances in concert form, this Bolena offers an almost virginal vocal style, pure, devoid of effects, with great facility in the high register and purposely lightened with respect to her RAI Trovatore of the preceding year: a point of departure for her Donizettian itinerary which will eventually take her to the fiery tempers and abysmal melancholy of Elisabetta in Roberto Devereux (64), to the angelic ambiguity of Lucrezia Borgia (66), to the regal torment of Maria Stuarda (67), of Caterina Cornaro ('72), to the torbid passions of Antonia in Belisario (69), to the palpitations and emotions of Poliuto (60) and Les Martyrs ('75).
This edition is even different than her own Bolena at Glyndebourne ('65), again with Gavazzeni, where the voice, in its maturing process and on a real stage, reveals a more corporeal complexity and a shadow of mystery. And yet we cannot fail to recognize the basic
characteristics of Ms Gencer's Donizetti roles. Most important is her adhesion to the personage by way of the psychological space which Donizetti reveals to his interpreter through his music; the rhythmic and theatrical action which follows as a result, with the thrust of the faster tempos or the always "in action" entrances; the use of vocal colour. From the start, when the Queen enters foreboding an incumbent destiny, she knows she cannot count on a penetrating Callaslike timbre, nor on the weight of her authority; therefore, she seeks out her own colour from within the musical context and the emotivity of her character, but according to her own logic and her own method. Her feeling for musical phrasing, which emerges as she so desires, arching with intervals and portamentos to enrich the significance of everything, places particular value upon each word, which is always a filter of emotion, the shadow of an image, sweetened with affection or laden with authority or disdain. She draws this out from an intelligent but agitated breathing technique for which each phrase moves in a dynamic curve of rinforzandos and smorzandos, at once seemingly coloured with anxiety, then suddenly languishing in pain, as though confronting some secret zone or imposing itself upon space. Strengthened by this prodigious use of breath and interminable arching, of almost imperceptible intervals, she then reaches the final expressive shattering climax. The "a parte" device so dear to Donizetti offers her a play of pianissimos that is not an expedient, but rather, a very delicate enriching of her personage and gives the discourse a sort of "cantilena" or undulation which bestows a natural quality to the operatic metaphor. It is an art of chiaroscuro, of an introspection which is a sort of acrobatic exercise up in the realm of high C, touched upon ever so lightly. Lucia of the previous year and illustrates Gencer's originality in comparison with the powerful Callas example, which she refused to imitate because of her awareness of the difference in vocal styles and because of her own clear-cut and obstinate ideas about Italian bel canto.
There is a two-directional basic determination: not to allow the declamation to yield, and therefore, sustain it with motivation, with prominent phrase endings, with sustaining accents which are not really accents, but almost imperceptible shadings of each word; a precise form of scansion that manages to coincide exactly with expressive immediacy. The secret? I was wondering the same thing as regards certain vertiginous and perfectly defined groups of four notes (Ah! Se mai di regio soglio ti seduce lo splendore"). I finally discovered it among the markings in Ms Gencer's working score, in which the difficulty is stylistically motivated and documented even before it is assailed with impetus or with fear: "Linger on the first (note), then use rubato on the others," followed by her choice of Garcia's variant which breaks various triplets into thirty second notes.
The ability to concentrate acts on the Continuing discourse; certain important moments bring to mind Callas, who was the first to reveal certain accents, but when we listen as they emerge from Leyla's laboured, emotive discourse, we are particularly gripped by their self-contained power. "Io senti sulla mia mano" was an unforgettable moment in the La Scala performances, particularly because of an apparent detachment and interior solitude of both the voice and the image. The result here is different, but no less magical, elaborated on "piano" and "marcato", with the suddenness of someone who has discovered something inside of one's self, and the marked rhythmic precision which follows. Thus the "Ove sono?" in order to find a vibrant colour which would be difficult to repeat, or the "Giudici! - ad Anna!" between the "sostenuto" of the attack and the "forte" with the "piano soffocato" in the repeat, which draws its characteristic from a less brilliant timbre because of an irresistible "breaking" effect of the voice and the agitated tempo that emerges from an aggressive Gencer who will eventually become so familiar to us.
The subject of Gencer's first contact with Donizetti, which was later to have historical significance in her career and has only now become a part of "official" discography, has, of course, occupied space which would have otherwise been taken by other singers. Also historical is the presence of Gavazzeni, without whom the Scala revival of Anna Bolena could not have happened in those terms of absolute perfection. In this recording we can, in fact, find that musical and theatrical erudition that contributed to the grandeur of that production, despite some new interpreters and the various different performances. Also noteworthy is the ability to revive 19th century theatricalism and make of it an historical example of its type, then express it without limitations; the compatibility with which it illuminates the interpretation of Donizetti; the "English" atmosphere created from Lombard roots; the heartrending carrying power of the choral ensembles; the musical sections which echo the various personages; the bitter political overtones; the very knowledgeable cuts; the fervours and severity projected to both interpreters and audience.
Giulietta Simionato is the same splendid Jane Seymour as in the La Scala production, with her usual Firey thrust. Plinio Clabassi (Lord Rochefort at La Scala) in the role of the tyrannic Enrico is both authoritative and sharply defined; Aldo Bertocci confers both intelligence and warmth to the pathetically heroic role of Percy.
L'OPERA [French]
Comme bis final de ses concerts qui appartiennent avec raffinement au domaine musical des lieder, Leyla Gencer aime souvent accorder l'air le plus célèbre de cet opéra: "Al dolce guidami castel natio" (Conduismoi au doux château natal). Elle arrive avec un regard déjà complice et annonce Donizetti, Anna Bolena avec le "sostenuto" typique aux syllabes finales pour défendre les paroles précieuses des applaudissements qui déjà se déchaînent. Parce qu'ils voulaient justement cela, après les délices de la soirée: un instant de scène avec la Reine, la voix particulièrement bouleversée dans la douce folie. Cet air écrit en 1830 pour Giuditta Pasta, évoqué par Fogazzaro comme le climat d'un "piccolo mondo antico" (petit monde antique) lombard-vénitien, est presque devenu un sigle de Leyla Gencer, des personnages royaux pour lesquels elle a une prédilection, du revival de Donizetti dont elle est depuis des années la principale et victorieuse exploratrice. Cependant, en 1957 ce fut Maria Callas qui fit revivre Anna Bolena par une opération fulgurante à la Scala, avec la participation du chef d'orchestre Gianandrea Gavazzeni et du metteur en scène Luchino Visconti, scènes "anglaises" de Nicole Benois avec Giulietta Simionato, Nicola Rossi Lemeni, Gianni Raimondi, Gabriella Carturan. Dans cette édition Leyla Gencer, débutante à la Scala dans les Dialogues des Carmélites de Poulenc, était la dou- Elure de Maria Callas, par contrat de son opéra et sans droit de représentations, comme c'était alors l'usage. Elle travailla avec ces maîtres et l'année suivante, en juillet 1958, elle fut choisie pour l'enregistrement radiophonique, avec le même chef d'orchestre et avec Giulietta Simionato.
Cette Anna Bolena, année 1958, est donc de façon absolue le premier opéra de Donizetti de Leyla Gencer. C'est pourquoi il a aussi une valeur rituelle, il marque la première rencontre de la cantatrice avec le compositeur tout de suite très aimé, après l'impact foudroyant et imprévu avec Lucia l'année précédente. Son indépendance en face du modèle révélateur qu'elle ne veut pas imiter par conscience des moyens différents et par une idée personnelle bien précise, obstinée aussi, du bel canto italien.
C'est pour cette raison que Anna Bolena, mariée très jeune à Henri VIII, plus victime qu'intrigante, lui suggère une couleur innocente, une pose de voix lyrique même si elle aboutit à des moments d'intensité dramatique. Dans une telle recherche de caractère instrumental (mais du point de vue psychologique) de la voix Leyla Gencer adhère à la conception actuelle du caractère vocal de la première moitié du dix-neuvième siècle et aussi à la récupération d'une technique, puisqu'elle entend comme fidélité à l'écriture une scansion musicale très précise, limpide jusqu'à la transparence dans laquelle mettre le pathos interprétatif. Quant à l'ornementation du bel canto ad libitum de l'interprète, pour elle ce genre d'intervention est aujourd'hui une coquetterie artificielle qui risque de dénaturer la ligne de composition dramatique qui était si précise chez Donizetti. C'est pour de telles raisons, encouragées en ce moment-là par les maestros et que les exécutions en forme de concerto augmentaient, que cette Bolena présente un caractère vocal virginal, pur, pudique d'effets, qui se sert de la facilité dans la zone aiguë. Intentionnellement éclaircie par rapport au Trovatore de la RAI de l'année précédente. Point de départ d'une parabole de Donizetti qui aboutira aux colères ardentes et aux mélancolies abyssales de Elisabetta dans Roberto Devereux ('64), aux ambiguïtés angéliques de Lucrezia Borgia ('66), aux tourments royaux de Maria Stuarda ('67), de Caterina Cornaro (72), aux passions agitées de Antonina dans Belisario ('69), aux frémissements et aux troubles de Poliuto ('60) et Les Martyrs ('75).
Elle est différente aussi de la même Bolena présentée à Glyndebourne ('65, avec toujours Gavazzeni comme chef d'orchestre) où la voix dans le processus de maturation et dans l'espace scénique, dévoile des complexités plus saillantes et des ombres de mystère. Cependant nous reconnaissons les pivots des interprétations de Donizetti par Leyla Gencer. Préliminaire l'adhésion au personnage grâce à l'espace psychologique que Donizetti entrouvre à l'interprète. La réactivité rythmique et théâtrale qui en résulte, avec l'élan des mouvements rapides ou des entrées toujours "en action." L'emploi de la couleur: dès le début, lorsque la Reine entre pressentant un destin menaçant, elle sait de ne pas pouvoir compter sur le timbre pénétrant de Maria Callas ni sur le poids de son autorité; elle cherche ses propres couleurs à l'intérieur du discours musical et de l'émotivité du personnage, mais selon une logique et une méthode personnelles. Le sens de la phrase musicale qui naît chaque fois avec une volonté, s'arque avec des césures, des liaisons portantes et arrive enrichie de toute la signification. Elle la découvre sur la valeur de la parole qui est toujours un filtre d'émotion, une ombre d'image, adoucie d'affections ou augmentée d'autorité, d'indignation. Elle la cherche dans une pause logique et inquiète pour laquelle chaque phrase s'exprime en un coup d'archet dynamique avec le "rinforzando" et le "smorzando" et seulement apparemment elle se colore d'anxiété, elle s'alanguit d'angoisse, elle s'approche d'une zone secrète ou elle s'impose dans un espace. Renforcée par une technique prodigieuse des instruments à vent, des coups d'archets interminables aux césures à peine perceptibles, à la destruction expressive, la zone très théâtrale des "a parti", chère à Donizetti, lui suggère un jeu de "pianos" qui n'est pas un expédient mais un enrichissement très fin du personnage et donne au discours une oscillation de conversation qui augmente le naturel de la métaphore mélodramatique. C'est un art du clair-obscur, de l'introspection qui arrive à l'acrobatie du do sur la portée, commencé piano ("orné"). Il y a une détermination de base dans deux directions: la volonté que le discours n'ait pas de fléchissement et la nécessité de le soutenir avec l'intention, avec des finales de phrases saillantes et enfin avec des accents de soutien qui, étant donnée la volonté de ne pas l'altérer, ne sont pas des vrais accents, mais presque des imperceptibles calibrages des paroles. La scansion très précise réussit à coincider avec l'instantanéité expressive. Le secret? Je me le demandais à propos de certains quatrains clairs et vertigineux "Ah! se mai di regio so glio / ti seduce lo splendore" ("Ah! si jamais la plendeur du seuil royal te séduisait"). Je l'ai découvert entre les annotations de sa partition d'étude où la difficulté est motivée du point de vue stylistique et documentée avant de l'attaquer avec élan et frisson: "Pause sur la première note, ensuite s'approprier des autres", et il appuie le choix avec la variante de Garcia qui détache en double croche plus triolet.
La force de concentration agit sur le discours continu, complexe. Certains grands moments peuvent nous revenir à la mémoire avec l'accent de Maria Callas qui pour la première fois les a révélés, mais quand nous les écoutons alors qu'ils émergent du discours émotif et élaboré de Leyla, ils nous saisissent à cause de leur charge autonome. "Io sentii sulla mia mano" (Je sentis sur ma main) fut un moment inoubliable à la Scala à cause du contraste de la solitude intérieure de la voix et de l'image. Ici il est différent mais aussi magique, travaillé sur le "piano" et le "marcato", avec le tressaillement de qui a trouvé quelque chose à l'intérieur de luimême et la précision du rythme pointé qui suit. Ainsi le "Ove sono ?" (Où suis-je ?) pour trouver une couleur de vie qui revient avec peine ou le "Giudici! - ad Anna!" (Juges ! - à Anne !) entre le "sostenuto" de l'attaque et le "forte" avec un "piano" suffoqué dans la reprise, qui tire parti justement du timbre le moins brillant par un effet de fêlure irrésistible, et le mouvement agité qui suit, par une Leyla Gencer agressive telle que nous la connaîtrons plus tard. L'exposé sur le premier Donizetti de Leyla Gencer qui a eu une suite d'une importance historique et qui entre seulement aujourd'hui dans la discographie officielle a consumé l'espace destiné aux autres interprètes. La présence de Gavazzeni a une importance historique, sans lui le revival de Anna Bolena à la Scala n'aurait pas eu lieu dans ces termes de justesse absolue, exemplaire. Nous retrouvons dans cet enregistrement le savoir musical et théâtral qui rendit ce spectacle important bien qu'il fut calibré sur les nouveaux interprètes et sur le différent moment exécutif. La capacité de récupérer l'art théâtral du XIX siècle comme typologie interprétée dans son processus historique et le vivre comme un déchaînement; la congénialité avec laquelle il éclaire le discours de Donizetti; la couleur anglaise enracinée dans des ascendances lombardes; le caractère choral poignant; les espaces sonores dans lesquels il appelle les personnages; l'amere conscience politique; la proportion "actuel le" des coupures, la ferveur et la rigueur qu'il communique aux interprètes ainsi qu'à nous. Giulietta Simionato est la splendide Seymour de la Scala, à la vivacité brûlante. Plinio Clabassi (Lord Rochefort à la Scala) se met à la place du tyran avec autorité et avec une conscience pure. Aldo Bertocci donne de la chaleur et de l'intelligence au personnage héroïque et pathétique de Percy.
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DONIZETTI: Secondo periodo della artistica di Donizetti (1830 – 1832)
Donizetti e Bellini compongono pel teatro Carcano di Milano. Il poeta Romani ed i suoi nuovi libretti. - Donizetti in men d'un mese scrive un capolavoro. - Anna Bolena (1830). - Il successo della nuova creazione Donizettiana suscita la gelosia di Vincenzo Bellini. La fortuna teatrale. - Giudizi dei vari pubblici sull'Anna Bolena. Giudizi critici di Felice Romani e di Giuseppe Mazzini. La celebre cantante Giuditta Grisi e suo interessamento per Donizetti Fausta (1832). Ugo Conte di Parigi (1832). Spirito di Donizetti. - L'Elisir d'amore (1832).
"Ce ne fut qu'en 1830 que son individualité se fit jour dans un de ses chefs-d'oeuvre, le premier de ses ouvrages que nous avons entendu en France, l'Anna Bolena donné a Milan avec le plus grand succés" dice esattamente l'Adam (¹)
L'occasione di scrivere tale opera fu offerta a Donizetti da alcuni signori milanesi, che spinti più da amore all'arte che da speranza di lucro, avevano assunta la direzione del teatro Carcano negli ultimi mesi del 1830. Essi insistettero presso il poeta Romani per avere due nuovi libretti d'opera, ed invitarono i maestri Bellini e Donizetti a scrivere due nuovi spartiti, dando loro - secondo il più volte accennato uso del tempo - l'elenco degli artisti di canto scritturati per quella eccezionale stagione. In detto elenco figuravano la Giuditta Negri-Pasta, (²) l'Elisa Orlandi, la Taccani, il tenore G.B. Rubini, il basso Luciano Mariani, il buffo Filippo Galli - artisti tutti veramente degni delle scene de' primi teatri d'allora.
Il Romani - che doveva scrivere altri due libretti, uno per la Scala, l'altro pel Regio di Torino, dapprima tentennò alquanto, poi fini per accettare i nuovi lavori, spinto a ciò dal desiderio di favorire specialmente il maestro Bellini, da lui prediletto con amore di fratello fin dai primi incontri. Il poeta, primo fra quanti avvicinarono il Catanese compositore, aveva letto, fin dal 1827, "in quell'anima poetica, in quel cuore appassionato, in quella mente vogliosa di volare oltre la sfera in cui lo stringevano e le norme della scuola e la servilità dell'imitazione." (³)
Donizetti ben sapeva che Bellini era allora l'idolo de' milanesi che in questi giorni avevano accolto con entusiasmo, alla Scala, i suoi Capuleti e i Montecchi, e gli premeva assai di sostenersi a fronte del giovine maestro, che dopo di lui doveva presentarsi sulle scene del teatro Carcano.
Col Romani scelse l'argomento della sua nuova opera; e tosto ambedue si accinsero alacremente al lavoro. La poesia fu scritta tutta di getto e consegnata a Donizetti il 10 Novembre 1830. Trenta giorni dopo, il 10 Dicembre, le parti, già copiate, furono distribuite agli artisti. In men d'un mese il fecondo compositore aveva scritto un capolavoro, benchè Romani gli ritardasse il lavoro standogli sempre a' fianchi, acciocchè egli curasse l'opera da cima a fondo, e non buttasse giù solo quanto gli brillava nella fantasia senza mai ritoccare quanto aveva scritto - come aveva sempre avuto la de bolezza di fare. E' noto che il nostro maestro non amava mai correggere e limare quanto la fervida fantasia gli dettava; cosicchè in tutti i suoi spartiti scritti antecedentemente si possono riscontrare dei pezzi di magistrale condot ta, che sempre rivelano vero genio artistico e padronanza della scienza musicale, incastonati in iscene il più delle volte rivelanti fattura affrettata, stanca, e quindi snervata.
L'Anna Bolena, tragedia lirica in due atti, la sera del 26 Dicembre 1830 (⁴) ebbe dal pubblico milanese una accoglienza di vero entusiasmo, si che il solito critico della Gazzetta ne scriveva il giorno dopo: "La cabaletta d'un' aria cantata da Rubini, una di quelle frasi di gran sentimento che forse spirerebbero inosservate su qualche altro labbro che non fosse quel della Pasta, e animati concetti nel finale, ecco l'essenza di ciò che piacque veramente nella musica dell'atto primo. Gli altri plausi che udironsi non eran dovuti che ai cantanti. Ma dall'atto secondo la cosa mutò d'aspetto e l'ingegno del maestro si manifestò con un raro rinforzo. Un duetto, un terzetto, e tre arie sono di bella e grandiosa composizione. In quanto all'esecuzione bisogna aver udito la Pasta e Rubini nelle due arie di genere e di fattura diversi per farsi un'idea sin dove può giungere la potenza del canto declamato e l'incantesimo dei suoni perfetti. Nel terzetto la Pasta, Rubini e Galli mostraronsi non solo uguali a sé stessi ma veramente maestri nella perfezione dell'accordo fra essi. Ciò è tanto più mirabile in quanto che è giusto il dire che in questo pezzo singolarmente, complicatis simo di belle armonie, Donizetti si mostrò degno e prediletto allievo di Mayr. E' giusto il mettere in un bel posto presso questo ternario la giovine Orlandi, che avendo sott'occhio un gran modello mostra d'averne profittato in quelle giuste proporzioni che era permesso di sperare." (⁵)
Il successo entusiastico ottenuto da Donizetti pose in trepidazione il Bellini, impensierito del confronto che lo precedeva in arte. "Il povero giovane (dice la signora Branca) (⁶) divenne triste, di cattivo umore; nulla gli andava a seconda, si turbava ad ogni più piccola contrarietà, né sapeva che cosa volersi: un amaro pensiero lo tormentava e non osava aprire l'animo all'amico Romani.
"Ma, caro Bellini, - gli chiese un giorno Romani - si può sapere che cosa tu hai? Tu sei da te diverso!... Troppo diverso!!
"Che cosa ho!... che cosa ho?... - gli rispose mestramente, Ho che la musica del Donizetti è bella, bellissima, sublime!... Tu gli hai fatto un dramma modello, pieno di paasioni intimei forti, affettuose... con versi armoniosissimi, e l'opera fa furore!..."
Era l'Ernani, melodramma scelto di comune accordo fra Bellini e Romani - il quale aveva tolto il soggetto dalla nota tragedia di Vittor Hugo che doveva porsi in iscena nel carnevale 1831, ed il Bellini aveva scritta già molta parte della musica, quando venne il trionfo dell'Anna Bolena a fargli cambiare idea.
Ecco come al successo di Donizetti noi andiamo debitori d’una stupenda crazionie Belliniana, la Sonnambula. Destini dell'arte!
L'Anna Bolena, questo spartito si meritamente pregiato, e che fu sempre tenuto per uno fantasia di Donizetti, passò subito le Alpi. Mentre apri felicemente la stagione di primavera 1831 (aprile) del teatro di Corte a Vienna (colla Schutz, colla Strepponi, e col tenore Poggi) fu rappresentata la prima volta in Francia, a Parigi, il 1 Settembre 1831.
Poco dopo questi trionfi ottenuti all'estero, lo stesso librettista, il poeta Romani, scriveva nelle colonne della Gazzetta Piemontese le seguenti parole, che dovevano forse servire a spiegare il successo favorevole dell'opera a chi, non volendo riconoscerne i veri meriti, s'ostinava a ricordare soltanto i troppo affrettati, e non totalmente originali, lavori precedenti del maestro: "Quando la fortuna teatrale, la più difficile, o almeno la più capricciosa di tutte le fortune, fa sì che si trovi in qualche gran teatro una donna, che ai pregi della persona e alla squisita arte del canto unisca un'anima che senta profondamente e comunichi altrui le sublimi impressioni che riceve, come la celebre Pasta: quando provvede un tenore, che a robusta e flessibil voce accoppia il calore di un cuore tenero e appassionato, come Rubini: un basso che, al pari di Galli e di Lablache, (⁷) signoreggi potentemente la scena e vesta le sembianze, l'indole e la natura di un Re geloso e simulatore: una giovane, che, come l'Orlandi, abbia sugli occhi e sul labbro i sospiri di un affetto combattuto dal rimorso e fomentato dalla femminil debolezza; allora il poeta, gettando via le sbiadite freddure melodrammatiche, appellate libretti, s'innalza all'altezza della tragedia lirica: allora un maestro, lasciando nel baule l'usato corredo dei vecchi motivi e delle eterne cabalette, si solleva alla verità drammatica e alla musica della passione; allora finalmente esce in luce l'Anna Bolena; e le scene di Milano e quelle di Parigi e di Londra veggono con diletto, e direi quasi con meraviglia, la difficile colleganza, in un'opera da cantarsi, della ragion poetica e delle necessità musicali, l'accordo delle severe leggi dell'arte con le spontanee ispirazioni della natura."
Aveva ben ragione il Romani di definire la fortuna teatrale come la più capricciosa di tutte le fortune, giacchè a Venezia - al teatro La Fenice-l'Anna Bolena, che pur vi giungeva ancor fresca dei trionfi di Milano, di Vienna, di Parigi, di Londra..., ottenne nel 1831 freddissima accoglienza dal pubblico e dalla stampa.
Il critico della Gazzetta di Venezia scriveva dopo la prima rappresentazione: "Il vario spettacolo, che secondo l'usato ieri sera si produsse per la prima volta, ebbe un eguale destino e fu vicino alla mediocrità, incominciando dalle ultime gradazioni. Saremo storici discreti e imparziali.
Della musica non piacquero nel prim'atto se non se una romanza, con accompagnamento d'arpa, cantata dalla Merola, contralto, (Smeton) e una cabaletta della Grisi (Bolena) nel finale. Calata la tenda, fu chiamata sul proscenio la Grisi, ed uscirono fuori la Grisi, e, per un di più, la Del Serre (Giovanna Seymour) ed il Cosselli (Enrico).
Nel secondo, tutti gli applausi si limitarono ad un duetto fra la Grisi e la Del Serre, ad una caballetta di quest'ultima, e all'aria del tenore. In tutto il rimanente, indifferenza e silenzio. Ad onta dello sfavorevole giudizio di Venezia, l'Anna Bolena fu accolta subito dopo col più favorevole successo al Teatro Carlo Felice di Genova, nella stagione di carnevale 1831-1832, ripetendosi per ben venti sere; successo che non si smenti nelle successive riproduzioni in quel teatro, nella primavera del 1833 e nel 1835.
Gli applausi di Genova ebbero felice eco a Torino nel maggio 1833, al teatro d'Angennes, ove interpretata dalla Edvige, dalla Smolenski, dallo Scalese, dal Poggi - l'Anna Bolena fu entusiasticamente accolta durante tutta quella stagione.
Il critico della Gazzetta Piemontese in un lungo articolo, che non riporteremo per intiero, cosi riassumeva il suo favorevole giudizio: "Venendo alla musica - se si eccettua qua e là una tal quale ricercatezza di stile - Donizetti non avrebbe potuto adattarla con maggiore intelligenza ed anima al soggetto, ed alle situazioni del dramma. La stromentazione è sufficientemente piena, senza essere troppo caricata, ed è ricca di bellissimi tratti di melodia. Una cavatina, il primo tempo d'un duetto, ed il finale dell'atto primo sono parto felice d' una fervida fantasia, tenuta però a freno dalle regole dell'arte. Nell'atto secondo un duetto fra le due donne pregevole. Il coro della scena IV è anche una composizione che onora il maestro, il quale ha fatto prova di molta dottrina e di squisito gusto, così nel terzetto, come nel rondeau del tenore, ed in quello, henchè non egualmente, della prima donna." Ben curiose sono le vicende delle riproduzioni in Milano di quest'opera, colla quale Donizetti, gettata la falsariga Rossiniana, aveva voluto assoggettare la sua grande fantasia all'accurato studio delle discipline musicali, e dare alla sua potente mente il mezzo di esplicare la propria, alta genialità. Mentre sul finire del 1830 aveva sollevato al teatro Carcano tanto entusiasmo, l'Anna Bolena, riprodotta poco più d'un anno dopo il 25 febbraio del 1832 - al teatro della Scala, aveva ottenuto esito buono, ma non certamente entusiastico; ed il solito critico della Gazzetta s'era esaurito con questo breve cenno: "... quanto alla musica non giova parlarne a lungo; il primo atto, se si accettuino alcune frasi musicali a cui la Pasta dà tanta entità, e bei concetti nel finale, quel primo atto non è gran cosa; ma il secondo lo compensa a dovizia; ivi tutto quello che di più inspirato e di più drammatico puossi desiderare è stato posto in opera con fine accorgimento dal Donizetti, dal degno allievo di Mayr." (⁸)
La stessa opera doveva replicarsi allo stesso teatro nel 1835; ma, annunziata per la stagione di carnevale, non si rappresentò per l'avvenuta morte dell'Imperatore Francesco d' Austria (⁹). Trasportata, il 25 Aprile, alla Canobbiana, ed interpretata da buoni artisti
Venier Raffaela, Schoberlechner Sofia, Bayllou Felicita, Alexander Timoleone, Mar colini, Carlo Spiazzi Domenico - non ottenne tutto quel plauso che pur aveva avuto nelle precedenti rappresentazioni sulle scene milanesi.
Ritornata alla Scala il 20 aprile 1840 inaugurò la serie dei fiaschi di quella stagione di primavera. Di cinque opere, delle quali due scritte appositamente ed una nuova per Milano, che in detta stagione vi si rappresenta rono il solo vecchio Nuovo Mosè di Rossini rasserenò il buon pubblico di quel teatro, che aveva già disapprovato, più o meno sonoramente, il nuovo dramma semiserio del maestro Cordella Gli avventurieri, l'altro nuovo dramma serio del Giuseppe Lillo Odda di Bernaver, ed accennava appena ad un po' di bonaccia col maestro A.G. Speranza, che aveva presentato il suo dramma giocoso I due Figaro.
Prima dell'insuccesso nella riproduzione del 1840 a Milano, l'Anna Bolena non era piaciuta a Ferrara, nel 1837 ed era caduta completamente a Modena nella stessa stagione: mentre doveva di poi piacere assai al pubblico portoghese, che nell'aprile dello stesso anno, al teatro d'Oporto - non si stancava mai d'applaudirla.
Mi piace di chiudere queste brevi notizie sulle fasi, ora felici ora burrascose di quest'opera col riprodurre il poco noto giudizio critico che su di essa lasciò scritto Giuseppe Mazzini: "L'Anna Bolena è tal cosa che s'accosta all' epopea musicale. La romanza di Smeton, il duetto delle due rivali, il Vivi tu di Percy; il divino Al dolce guidami - Castel natio di Anna e generalmente i pezzi concertati collocano irrevocabilmente quest'opera fra le prime del repertorio. L'istrumentazione, se non uguaglia ancora la ispirazione melodica, procede almeno piena, continua, maestosamente solenne. I cori, tra i quali è da notarsi singolarmente il Dove mai n'andarono ecc., danno un finito al lavoro, che nei termini ai quali siamo, non lascia a desiderare." (¹⁰) basta che Donizetti voglia far giudizio. Pare impossibile. Un talento così che potrebbe col suo sapere mandare al diavolo cento Bellini, non signore vole scrivere cento opere in un anno e finora non c'è che l'Anna Bolena" scriveva la famosa cantante Giuditta Grisi Barni a Felice Romani (¹¹)
¹ A. Adam. Derniers souvenirs d'un musicien, pag. 209.
² La Giuditta Negri – conosciuta in arte col nome del marito, il tenore Pasta, da lei sposato nel 1817 nacque a Saronno nel 1798 e mori il 1 Aprile 1865. Avendo studiato il canto per semplice dilettantismo, non fu che nel 1816 che veramente incominciò la sua carriera artistica, passando, ed in Italia ed all'estero, di trionfo in trionfo. Come Donizetti scrisse per lei l'Anna Bolena, cosi scrissero per i suoi eccezionali mezzi vocali Bellini la Norma e la Sonnambula, il maestro Coccia, la Maria Stuarda, il Pacini la Niobe.
³ Parole dello stesso Romani riportate a pag. 128
⁴ e non 21 Dicembre, come scappò detto alla sempre estata signora Branca
⁵ Gazzetta di Milano del 27 Dicembre 1830.
⁶ E. Branca – Felice Romani ecc. cap. XIV.
⁷ E' noto quanta cura e quanta fedeltà storica pretendesse questo grande artista fin ne' minimi particolari, ed in ispecie ne' costumi dei personaggi da lui sulla scena presentati. A questa sua singolare cura, che rasenta la meticolosità, accenna anche l'J. de Biez nell'interessante volume-Tamburini et la musique italienne: "Quand Lablache débuta dans Anna Bolena, il fit copier son costume sur un mannequin, conservé à la tour de Londres, portant les propres habits de Henri VIII. Il visita le cachot, où fut enfermée l'infortunée Anne de Boleyn, afin de préparer avec plus de soin la mise en scène."
⁸ Gazzetta Privilegiata di Milano, 27 Febbraio 1832.
⁹ Pompeo Cambiasi – La Scala, 1778-1889 – Milano, Ricordi.
¹⁰ Giuseppe Mazzini, Scritti letterari, Vol. II, pag. 313
¹¹ Vedi-Donizettiana- Lettere di Donizetti pubblicate da G. Roberti nel fascicolo. II, dell'anno II, della Rivista Musicale Italiana.
Critica dal libro Le opere di G. Donizetti di Verzino Edoardo Clemente.
Bergamo, I. Carnassi, editore - 1897.
FROM LP BOOKLET
ANNA BOLENA
ALBERTO PIRONTI
L'Anna Bolena, opera seria in due atti di Gaetano Donizetti (Bergamo 1797- ivi 1848) su libretto di Felice Romani, è considerata dagli studiosi un momento importante nella produzione del musicista. Composta in un mese circa nel 1830 e andata in scena al Teatro Carcano di Milano il 26 dicembre di quell'anno, l'opera segnò la completa affermazione del maestro, il quale era riuscito per la prima volta a estrinsecare organicamente la sua personalità, equilibrando le sue qualità creative sino ad allora manifestatesi soltanto in maniera frammentaria. In realtà, il buon libretto di Felice Romani offriva solidi appigli alla mano del compositore e Donizetti se ne valse, impegnando a fondo le sue energie, la sua capacità drammatica, il suo abile mestiere. Ne nacque un lavoro generosamente popolare in cui Giuseppe Mazzini notò una tendenza verso l'epico e che infatti si distingue per la penetrazione con cui sono tratteggiati i caratteri dei personaggi in seno alla coralità che li circonda. Scriveva Mazzini: «L'Anna Bolena è tale cosa che si accosta all'epopea musicale. La romanza di Smeton, il duetto delle due rivali, il "Vivi tu..." di Percy, il divino "Al dolce guidami castel natio..." di Anna e generalmente i pezzi concertati collocano irrevocabilmente quest'opera fra le prime del repertorio. L'istrumentazione, se non uguaglia ancora l'ispirazione melodica, procede almeno piena, continua, maestosamente solenne. I cori, tra i quali è da notarsi singolarmente il "Dove mai n'andarono...", danno un finito che, nei termini ai quali siamo, non lascia a desiderare ». Si sa, d'altra parte, che l'entusiastica accoglienza avutasi alla prima rappresentazione fu attribuita in larga misura alla valentia dei cantanti Giuditta Pasta, Elisa Orlandi, Giovanni Battista Rubini, Filippo Galli, ma subito dopo l'opera si impose soprattutto per i suoi valori musicali autonomi ed ebbe in Italia e all'estero innumerevoli esecuzioni; il tenore Gilbert-Louis Duprez, ad esempio, e sua moglie Alexandrine, rispettivamente nei ruoli di Percy e di Anna Bolena, impegnarono un consistente periodo della loro carriera (più di due anni, fra il 1832 e il 1834) portandola in moltissime città grandi e piccole. Certo, per un'opera belcantistica e nello stesso tempo appassionata come questa è essenziale la presenza di interpreti di grande valore. Scriveva lo stesso librettista Felice Romani, dopo i successi internazionali dell'Anna Bolena: « Quando la fortuna teatrale, la più difficile, o almeno la più capricciosa di tutte le fortune, fa sì che si trovi in qualche grande teatro una donna che ai pregi della persona e alla squisita arte del canto unisca un'anima che senta profondamente e comunichi altrui le sublimi impressioni che riceve, come la celebre Pasta; quando provvede un tenore, che a robusta e flessibil voce accoppia il calore di un cuore tenero e appassionato, come Rubini; un basso che, al pari di Galli e di Lablache, signoreggi potentemente la scena e vesta le sembianze, l'indole e la natura di un Re geloso e simulatore; una giovane che, come l'Orlandi, abbia sugli occhi e sul labbro i sospiri di un affetto combattuto dal rimorso e fomentato dalla femminil debolezza; allora il poeta, gettando via le sbiadite freddure melodrammatiche, appellate libretti, s'innalza all'altezza della tragedia lirica; allora un maestro, lasciando nel baule l'usato corredo dei vecchi motivi e delle eterne cabalette, si solleva alla verità drammatica e alla musica della passione; allora finalmente esce in luce l'Anna Bolena; e le scene di Milano e quelle di Parigi e di Londra veggono con diletto, e direi quasi con meraviglia, la difficile colleganza, in un'opera da cantarsi, della ragion poetica e delle necessità musicali, l'accordo delle severe leggi dell'arte con le spontanee ispirazioni della natura >>. Ai successi ottocenteschi fece però seguito qualche contrasto, poi l'oblio. L'opera è tornata quindi sulle scene solo in epoca recente e Gianandrea Gavazzeni, direttore di una sua famosa edizione alla Scala di Milano nel 1957, scriveva che « l'Anna Bolena non è uno di quei capolavori sufficienti a reggersi senza una forte collaborazione esecutiva », aggiungendo che «se fosse lecito un calcolo di percentuale, andrebbe indicato che Anna Bolena richiede al cinquanta per cento il contributo rappresentativo ». L'edizione scaligera rinverdiva i fasti di Giuditta Pasta con l'arte di Maria Callas, mentre alla direzione di Gavazzeni si affiancava la regia di Luchino Visconti e le altre parti principali di canto erano affidate a Giulietta Simionato, Nicola Rossi Lemeni e Gianni Raimondi. Il soprano Leyla Gencer, debuttante quell'anno alla Scala, era il «doppio» della Callas, doveva essere cioè pronta a sostituirla in caso di necessità; studiò quindi la parte e, l'anno dopo, fu prescelta per l'esecuzione dell'opera alla RAI di Milano. Da questa esecuzione sono tratti i brani incisi nel presente disco. L'opera si giova ancora della direzione di Gianandrea Gavazzeni, il quale sin dal 1937 ha concentrato il suo interesse di critico sul suo concittadino Donizetti e ha poi dottamente e amorevolmente curato parecchie edizioni di opere donizettiane. Fra gli interpreti vocali emergono Leyla Gencer e Giulietta Simionato. La Gencer, soprano di stampo callasiano parimenti efficiente nel canto virtuosistico e in quello drammatico, inizia come Anna Bolena la sua specializzazione nel repertorio melodrammatico romantico, che la doveva portare a interpretare svariate opere di Donizetti, suscitando sempre viva ammirazione per le sue realizzazioni vocali e sceniche. Giulietta Simionato si esibisce in una delle più apprezzate interpretazioni del suo vasto repertorio di mezzosoprano: dopo aver gareggiato nei panni di Giovanna Seymour con la Callas alla Scala, ella unisce qui il suo virtuosismo e il suo slancio a quello della Gencer con risultati ugualmente affermativi.
LA VICENDA
Atto primo. Enrico VIII, re d'Inghilterra, si è invaghito di una dama di corte, Giovanna Seymour, ed intende ripudiare la moglie Anna Bolena, così come si era a suo tempo liberato di Giovanna d'Aragona, da lui sposata in prime nozze. Anna appare in preda a tristi presentimenti, come se avvertisse la propria futura, tragica sorte (« Come, innocente giovane... »); ignorando chi sia la rivale, è portata a confidarsi con Giovanna ed a rivelarle il penoso stato in cui versa (« Non v'ha sguardo a cui sia dato... »). Giovanna sente vivissimo il rimorso per il male causato alla regina, ma quando Enrico la raggiunge e le rinnova la promessa di unirsi a lei, è pronta ad accantonare ogni scrupolo, incapace di opporsi alla volontà regale. Alla ricerca di un pretesto per disfarsi della moglie, Enrico ha fatto subdolamente richiamare dall'esilio Lord Riccardo Percy, che un tempo lontano aveva intensamente amato Anna. Il suo sentimento verso di lei non è venuto meno durante la lunga separazione, ed intensissimo è pertanto il desiderio di incontrarla (« Da quel dì che, lei perduta... Ah! così ne' dì ridenti... »); alla vista del giovane, Anna non riesce a nascondere un indefinito senso di inquietudine, mentre il re, che vede realizzarsi man mano il suo piano, ordina ai suoi uomini di spiare ogni passo della regina e di Percy (« Io sentii sulla mia mano... Or che reso ai patrii lidi... Questo dì per noi spuntato... »). Questi ha finalmente ottenuto un incontro con Anna: se la regina rivela l'amarezza per il proprio attuale stato, il giovane continua a sperare nel suo sentimento e rievoca con parole struggenti gli anni del loro amore. Ma Anna non può ascoltarlo: anzi gli ingiunge, anche per non suscitare la collera del re, di abbandonare per sempre l'Inghilterra, provocando in tal modo la risoluta reazione di Percy, che snuda la spada per trafiggersi (« S'ei t'abborre, io t'amo ancora... Per pietà del mio spavento... »). Anna lancia un grido: da una porta laterale esce all'improvviso il paggio Foto di scena da Anna Bolena (Comunale di Bologna, 1978-79) Smeton, anch'egli segretamente e senza speranza innamorato della sovrana, armigeri e lo stesso re, che si dimostra sorpreso ed indignato nello scorgere due estranei negli appartamenti regali. Il giovane Smeton è il primo a gettarsi ai piedi di Enrico implorando la grazia sovrana, ma per un gesto maldestro gli scivola a terra un'immagine di Anna da lui conservata gelosamente; è per il re, che vede così coronati dal successo gli sforzi compiuti per liberarsi della moglie, la prova inequivocabile del tradimento di Anna. Ella verrà quindi giudicata e con lei saranno processati Percy e Smeton, ritenuti corresponsabili dell'accaduto («In quegli sguardi impresso... Ah! segnata è la mia sorte... »).
Atto secondo. Anna, tenuta segregata nelle sue stanze e privata persino della compagnia delle dame, viene raggiunta da Giovanna Seymour che, intimamente tormentata dal rimorso, le consiglia, per aver salva la vita, di dichiararsi colpevole. Anna rifiuta, poi, quando Giovanna confessa di essere essa stessa destinata al trono, con gesto generoso le concede il perdono non ritenendola colpevole di una situazione di cui soltanto il re è l'unico responsabile («Sul suo capo aggravi un Dio... Sul guancial del regio letto... Inesperta... lusingata... Va, infelice, e teco reca... »). Smeton, intanto, dinanzi al Tribunale ha ammesso la sua colpa, pregiudicando così in maniera irreparabile la posizione di Anna. Questa e Percy vengono a loro volta condotti in giudizio ma, prima di varcare la soglia della sala ove è riunito il Consiglio dei Pari, si imbattono in Enrico, cui protestano ancora una volta la loro innocenza; il re però ha già deciso nel suo animo la sorte che sarà loro riservata e si mostra irremovibile. Non riesce a scuoterlo da tale irragionevole ostinazione neppure l'intervento di Giovanna, che intercede a favore della sua signora, non volendo essere ritenuta corresponsabile della sua morte («Per questa fiamma indomita...») In quell'attimo si schiudono le porte dell'aula del Consiglio e viene emessa la sentenza: Anna è condannata al patibolo e con essa i suoi complici ed istigatori (« Ah! pensate che rivolti... »). Nella sua prigione Anna è in attesa del momento supremo: ha ottenuto di tenere con sé, negli ultimi istanti, le sue damigelle che, in preda alla più viva commozione, l'assistono con affetto e premura, mentre con il pensiero ella ritorna agli anni felici ed ormai lontani della giovinezza («Piangete voi?... Al dolce guidami castel natio... »). Ma a ricondurla alla realtà è un drappello di arcieri, pronto per scortarla al patibolo: all'idea della morte vicina Anna comincia a delirare e non sembra avvedersi di Percy, che gli è accanto rassegnato al proprio destino, né del disperato Smeton che, gettatosi ai suoi piedi, si addossa la responsabilità della condanna: involontario strumento della volontà del sovrano, si è dichiarato colpevole nella speranza di salvarla, ignorando che, con tale confessione, la trascinava con sé al patibolo. Mentre si ode un festoso suono di campane che annuncia le imminenti nozze fra Enrico VIII e Giovanna Seymour, Anna, con una parola di perdono sulle labbra, porge il capo alla scure (« Coppia iniqua, l'estrema vendetta... »).