ALCESTE

Christoph Willibald Gluck (1714 - 1987)
Opera in three acts in French
Libretto: Ranieri da Calzabigi
Premièr at the Burgtheater, Vienna - 26 December 1767
07, 09, 12, 15, 20 March 1967
Teatro dell'Opera, Roma

Conductor: Vittorio Gui
Chorus master: Gianni Lazzari
Stage director: Giorgio de Lullo
Scene and costumes: Pier Luigi Pizzi

Admeto MIRTO PICCHI tenor
Alceste LEYLA GENCER soprano
Apollo MAURIZIO PIACENTI bass
Ismene RENZA IOTTI soprano
Evandro GIUSEPPE BARATTI tenor
Grand Sacerdote ATTILIO D’ORAZI tenor
L’Araldo GUIDO GUARNERA bass
L’Oracolo LUIGI RONI bass-baritone
La voce del nüme LUIGI RONI bass-baritone

Corifee FERNANDA CADONI mezzo-soprano
Corifee LIDIA NEROZZI soprano
Leaders of the People soprano, mezzo-soprano, baritone

Time: Ancient
Place: Pherae

Recording date

Photos © FOTO REALE, Roma



GENCER ALLA OPERA DI ROMA 

ALCESTE 
STAGIONE 1966 – 1967







Private photos taken by photo artist Maurizio de Lullo, brother of Stage Director Giorgio de Lulo. © Maurizio de Lullo

1967, Roma

with Stage director Giorgio de Lulla

with İbrahim Gençer and a Friend





























































































A gift to Leyla Gencer from Mario Barsant after her Roman Alceste.  
1967.04.16, Roma

IL PICCOLO                                       
1966.11.18

CORRIERE DELLA SERA                                                

1967.02.28  

AVANTI                                           
1967.03.02

L'UNITA                                              
1967.03.02

AVANTI                                              
1967.03.08

L'UNITA                                               
1967.03.08

CORRIERE DELLA SERA                                                
1967.03.12

L'UNITA                                                
1967.03.15  

CORRIERE DELLA SERA                                                
1967.03.17

JOURNAL d'ORIET                                          
1967.03.21

THE SAN FRANCISCO EXAMINER                                       
1967.04.22

AKIS MAGAZINE                                             
1967.04.22

OPERA MAGAZINE                                             
1967 June

CINQUANT’ANNI DEL TEATRO DELL’OPERA [1928 – 1978]
JOLE TOGNELLI
Stampato in Italia © 1979 Edizioni d’Arte di Carlo E. Bestetti
Franco Soprano
Grandi « voci » e grandi « cantanti » all'Opera.

Mezzo secolo di storia di un grande teatro è, anche e soprattutto, storia di grandi interpreti, di grandi cantanti di grandi voci. Storia d'approdi e di congedi; di meteore e a di costellazioni vivide e fisse; di feudi vagamente provocatori nelle loro incrollabilità, di opzioni spesso a troppa lunga scadenza, e di inesplicabili assenze.

Nell'occuparci, succintamente, delle grandi voci, che, nelle vicende di questo primo cinquantennio di vita del Teatro dell'Opera, lasciarono un segno durevole, offrirono un apporto illuminante, un tocco di magnificenza, percorreremo in senso cronologico gli avvenimenti che si susseguirono a partire da quella edizione del Nerone di Boito che il 27 febbraio del 1928 aprì la attività ufficiale dell'Opera, destinata a diventare poi Ente Autonomo.
In tempi come i nostri, preoccupati fino alla ostentazione, della fedeltà filologica nella ricerca, a livello vocale, di canoni esecutivi ragionevolmente vicini al modello, alla tecnica, allo stile originali, alcune scelte, l'accostamento di certi cantanti a certi ruoli potranno destare qualche perplessità. E la perplessità prenderà ancor più corpo quando ad avallare tali scelte saranno proprio quei Marinuzzi o quei Serafin che, nella cifra totale del loro intervento, diedero un contributo decisivo alla « crescita » dell'Opera, allo smantellamento d'un clima facilone e festaiolo ed all'inserimento di rigori da grande teatro. Tuttavia sulla opinabilità di certe scelte intervengono ampie motivazioni contingenti. Contingenze, appunto, che ci riportano ad anni nei quali il recupero di una tecnica vocale, di una psicologia che a questa sovrintende, e d'una poetica che da questa si sprigiona, erano ancora « in mente dei ». Erano gli anni, appunto, nei quali la « grande voce » s'esibiva « in prima persona », sfoggiava mezzi inestimabili, temperamenti gagliardi o delicati, ma nell'insieme si rivelava poco preoccupata di una ricerca approfondita della variabilità del « momento storico » nel quale l'opera da interpretare si inseriva. E l'interpretazione, già viziata alla base, dall'imperversare del trionfante « verismo », finiva con l'essere esaltazione di « vicende » più che di stili e di poetiche. I Marinuzzi e i Serafin, i De Sabata ed i Santini ebbero, quindi, moderate possibilità di esercitare scelte ideali, proprio perché la conformazione psico-tecnica del cantante « ideale », del cantante all'altezza di recuperare in maniera totale il repertorio italiano da Rossini a Verdi, s'era ormai dispersa. Ad essi (ai Marinuzzi, ai Serafin), spetterà il compito d'imbrigliare voci sontuose e recalcitranti per addomesticarle ad una lettura « credibile » di Monteverdi e di Gluck, di Rossini, di Bellini, di Donizetti e di Verdi.
Ed è con Verdi, (apriamo la succinta cronistoria) che appare per la prima volta sulle scene dell'Opera la fugace mitologia di CLAUDIA MUZIO. È la sera del 19 aprile 1928.
Al podio Gino Marinuzzi. Accanto alla Muzio, Tito Schipa e Riccardo Stracciari. La stagione della Muzio sarà brevissima: sette anni dopo si congederà per sempre dal pubblico romano nella Cecilia di Refice. Morirà un anno dopo, nel 36, a soli 48 anni. A pochi giorni dal debutto nella Traviata, la Muzio cantò nella Tosca sempre con Marinuzzi ed accanto a Lauri Volpi ed a Stracciari. E, ancora, nella Cavalleria, con Lauri Volpi e Franci (Lola è la « giovane » Gianna Pederzini). Nel $28 la Muzio canta nell'Aida e ne La forza del destino. Nel '29 sarà ancora Violetta, con Pertile e Stabile, questa volta. Nell'aprile del '32 sarà Mimì ne La bohème; nel '33 Leonora ne La forza del destino (con Marinuzzi, Merli, Basiola, la Pederzini e Vaghi); ancora Santuzza nel '33 e nel '34; Desdemona, nell'Otello, nel '34; ancora Violetta nel '35, finalmente Norma nel febbraio dello stesso anno. Poi, il i Maggio del '35, una unica recita della Cecilia. La « presenza » della Muzio all'Opera sfugge ad una storicizzazione compassata. Come ci confermano alcuni « abitués illuminati » (ai quali c'è da prestar più fede delle testimonianze d'una critica spesso generica e provinciale dalla quale vanamente si distacca il genio di un Barilli) la Muzio fu, sotto certi aspetti, una sorta di « profezia della Callas » a livello di personalità prepotente ed eclettica, di presenza scenica nobile e galvanizzante, di penetrazione à fondo delle ragioni segrete di quel pathos che fa del canto strumento di poesia e di tragedia lasciando spazi irrisori e voluttuari al commento sulle fasi declinanti dei mezzi vocali. Barilli ce la tramanda come una donna « intima, schiva, d'una ritrosia quasi tragica ». Seguendo cronologicamente le « apparizioni » che « fanno storia », ci imbattiamo nei nomi sontuosi di ELISABETH RETHBERG e GIOVANNI MARTI NELLI i quali, la sera del 10 aprile del '29 partecipano alla prima romana de La campana sommersa di Respighi. Che con due nomi così illustri si volesse dare il massimo prestigio alla nuova opera di Respighi è comprensibile. Misterioso, al contrario, è il fatto, che questa fu l'unica occasione di ammirare sulle scene romane una Rethberg che fu pari solo alla Ponselle nell'offrirci un certo tipo di soprano drammatico il più attendibilmente vicino alla lezione tardo-ottocento di Teresa Stolz. Cantante di gusto infallibile e di musicalità esemplare la Rethberg s'era affinata alla scuola del lied (aveva, infatti, in repertorio ben 1000 lieder). Ricorderemo che nello stesso '29 che vide l'unica apparizione a Roma della Rethberg il New York Guild of Vocal Theatre le dedicò una onorificenza, come « la più perfetta cantante del mondo ». Anche Martinelli cantò, nel '29, per l'ultima volta a Roma, ne La forza del destino e nello Chénier.
« Il 18 aprile del 1929 debutta all'Opera FIODOR SCHALIAPIN nel Boris Godunov. Anche questa sarà l'unica apparizione sulle scene del nostro Teatro di una delle più prepotenti e soggioganti personalità del nostro tempo. In quella stessa edizione del Boris debuttò, nel ruolo di Pi men, un illustre basso italiano: GIACOMO VAGHI, il cui contributo sarà apprezzatissimo nelle stagioni a venire.
Sempre nel '29 AURELIANO PERTILE trionfa in due sue interpretazioni proverbiali: Andrea Chénier e Lohengrin; fra gli interpreti di quest'ultima appare il nome di IVA PACETTI che, già nel corso della stagione era stata scelta da Marinuzzi per il ruolo di Leonora nella « prima » in lingua italiana del beethoveniano Fidelio. La Pacetti sarà elemento di punto per le future stagioni dell'Opera ove canterà quasi ininterrottamente fino al 1947, distinguendosi anche nel repertorio straussiano e destando solo qualche perplessità nel poco avveduto accostamento al puro belcantismo di Imogene nel Pirata di Bellini (1935, direttore Serafin, Beniamino Gigli « Gualtiero »).
Fra gli avvenimenti del '28-'29 registriamo ancora il trionfo di LAURI VOLPI nel Trovatore (con Marinuzzi, la Scacciati, la Anitua e Franci), il trionfo, non meno clamoroso, di Tito Schipa nell' Elisir d'amore, il debutto di FLORICA CRISTOFOREANU nella Carmen, la partecipazione di ANTONIN TRANTOUL alla prima del Fra Gherardo di Pizzetti, il successo di ROSETTA PAMPANINI nell'Iris, il debutto di BIDU SAYAO nel Barbiere (con Franci, protagonista) la edizione in lingua italiana della Walkiria, diretta da Marinuzzi, con NAZARENO DE ANGELIS la HALFGREEN e la COBELLI, e, infine, le prime apparizioni della STIGNANI nella Forza del destino. Alla stagione 26/29 partecipa trionfalmente TOTI DAL MONTE, già cinta di allori scaligeri e toscaniniani e ormai inarrivabile nel conferire ai ruoli di Lucia e Amina nella Sonnambula una tale sequenza di suoni cristallini e immacolati, di funambulismi virtuosistici (ma anche di tenere meditazioni) da rendere tangibile, oggi, irrilevata allora, la improbabilità stilistica e il totale sradicamento del personaggio dal modello originale. Ma, questo, come è noto, è un compromesso cui dovremo pazientemente sottostare fino all'avvento della Callas.
Singolare l'assenza di Gigli dal primo cartellone del costituito Ente Pubblico. Assenza che, i collezionisti di quelle « querelles » che, da sempre, rendono ancor più suggestivo il mondo dell'opera, potranno anche trovare motivata dalla presenza di Lauri Volpi allo spettacolo inaugurale. Da ricordare fra gli avvenimenti del '28 le recite di MIGUEL FLETA nella Lucia.
BENIAMINO GIGLI appare nel successivo cartellone del l'Ente (29/30) nella Marta di Flotow accanto a MAFALDA FAVERO. Da recuperare per la Storia, da questo cartellone, il ritorno di SCHIPA nell'Elisir d'amore, NAZARENO DE ANGELIS protagonista del Mefistofele, GIANNINA ARANGI LOMBARDI, PERTILE, MONTESANTO e la CASAZZA nel Ballo in maschera, EVA TURNER, per la prima e unica volta a Roma, quale protagonista dell'Isabeau, il ritorno del Trovatore con Lauri Volpi e con la Scacciati e la Arangi Lombardi che s'alternano nel ruolo di Leonora, il Guglielmo Tell con Lauri Volpi, Franci e la Arangi Lombardi.
Nella Stagione 30-31 troviamo la PAMPANINI e Pertile nella Manon Lescaut, la Arangi Lombardi e Stabile nella Dannazione di Faust di Berlioz, sempre la Arangi Lombardi (Contessa) la Saraceni, la Pederzini, Stabile e Cirino in una edizione « all'italiana » de Le nozze di Figaro, diretta da Marinuzzi. Torna lo Chénier con Pertile e GILDA DALLA RIZZA cantante prediletta da Puccini e dalla Carelli e che mancava da Roma dal '25. In questa stagione si insei definitivamente nel repertorio l’Adriana Lecouvrerur per merito della suggestiva bellezza e del grande temperamento di Giuseppina Cobelli e dell'antagonista Gianna Pederzini le quali « ad occhi chiusi » si contendono Aureliano Pertile. Della stessa stagione è la « rentrée » di GABRIELLA BESANZONI nella Carmen, opera della quale la cantante offriva una versione assai suggestiva ma che aveva perso ogni attendibile aggancio col l'« opéra comiper il disperato salvataggio de Le maschere, ultimo saggio que ». Sempre nel '31 inutile dispiegamento di grandi voci dell'atrofizzata, ma ormai santificata, vena creativa di Pietro Mascagni.
Nella stagione 31-32 troviamo, per la prima volta in un ruolo di rilievo. MARIA CANIGLIA, Eva in un'edizione de I maestri cantori diretta da Marinuzzi. È praticamente un debutto che ci fornisce indicazioni precise sulla naturale fisionomia della voce della Caniglia, voce squisitamente Ilirica, come confermeranno le sue più felici esecuzioni degli anni a venire e, poi, precocemente avviatasi ad una graduale alterazione delle proprie caratteristiche, per addentrarsi in un repertorio drammatico (segnatamente quello verdiano) che porterà la cantante al sommo della popolarità locale, ma che lascerà perplessi i cultori del vocalismo verdiano non viziati e dirottati da quell'armamentario di disinvolture tecniche, di eccessi temperamentali, di compiacenti adattamenti della tessitura prescritta che la Caniglia aveva ereditato dal « mal gusto » verista, consegnandoli, financo, verso la fine della propria carriera, al vocalismo della Norma. Tuttavia, quella della Caniglia, fu una stagione lunga e felice che la vide assurgere al ruolo di « first lady » del Teatro dell'Opera. Ruolo, per altro ch'essa largamente meritò per la completezza e la bellezza dei mezzi, allorché ella seppe metterli al servizio di ruoli ad essa più congeniali, come quelli di Tosca, Maddalena di Coigny, di Santuzza, di Wally. Fu nello Chénier che la Caniglia cantò per l'ultima volta a Roma il I settembre 1957.
Nel '32 torna Gilda Dalla Rizza per cantare la Francesca da Rimini al fianco del giovane e già felicemente collaudato GALLIANO MASINI. Poche settimane dopo la Dalla Rizza, quarantenne, si esibisce nella Traviata (in una edizione nella quale subentreranno GINA CIGNA e MERCEDES CAPSIR).
Il '32 ci riserva un altro avvenimento: il ritorno di ROSA RAISA nella Norma. La Raisa mancava da Roma dalla stagione 15-16 nel corso della quale aveva cantato l'Aida e la Francesca da Rimini. Si trattò, dunque, d'una « rentrée » in fine carriera; quando, cioè, solo a tratti la Raisa poté riconfermare d'essere stata, come la « storicizza » Celletti, « uno dei pochissimi soprano del secolo che abbia potuto affrontare il repertorio Falcon» e quello drammatico verdiano con la facilità e l'opulenza di mezzi delle cantanti della metà dell'ottocento. »

Il '32 ci elargisce anche una Fedora con la Cobelli e Pertile e il ritorno del verdiano Macbeth diretto da Antonio Guarnieri, con BENVENUTO FRANCI e BIANCA SCACCIA TI. Verso la fine del '32 troviamo Guarnieri alle prese con la BESANZONI in una proposta dell'Orfeo di Gluck. Il '33 s'avvia con una piccola polemica « in orbace » fra cond nitori e detrattori delle « italiche » bellezze della Gioconda di Ponchielli. Il pubblico è tutto dalla parte di Beniamino Gigli, Giannina Arangi Lombardi, Gianna Pederzini, e Benvenuto Franci e Giacomo Vaghi. In un Barbiere di Siviglia del '33 ci imbattiamo nella superlativa eleganza vocale e scenica di CARLO GALEFFI, in una Rosina meno leziosa del consueto, Mercedes Capsir, nella forbita grazia tantino troppo sul rigo che, pure, farà la fortuna di SALVATORE BACCALONI, una volta insediatosi al Metropolitan. Nello stesso anno Galeffi conferma nel Rigoletto e nel Simon Boccanegra la sua eccezionale categoria di cantante-attore fra i più rappresentativi del nostro tempo. Sempre nel '33, dopo le prove già felicissime offerte nel re Borgia dà conferma d'una sapienza di canto fuori dall'ordinario e pare quasi riesca e precorrere i tempi della attuale felice restaurazione donizettiana: il tempo della Callas, di LEYLA GENCER (che dalla stessa Arangi Lombardi attingerà i segreti di una alta scuola) della CABALLÈ. Accanto alla Arangi Lombardi, figura, nel ruolo di Gennaro, il nome di Gigli. Beniamino Gigli, che nelle due prime stagioni dell'Ente s'era « concesso » con parsimonia, nella stagione 33-34 fa la sua grande « rentrée » e si esibisce, ancora, nello Chénier, nella Manon di Massenet (sarà al fianco di una Manon che non tarderà a diventare proverbiale: Mafalda Favero). È in questo periodo che ha virtualmente inizio quella sorta di « mito» che legherà indissolubilmente il nome di Gigli ai fasti del Teatro dell'Opera. Gigli che, giovanissimo, aveva cantato per la prima volta a Roma nelle stagioni 16-18, non era più tornato all'Opera fino al 1930. Vi ritornava completamente allo scoperto ponendosi in diretta competizione con l'arte sopraffina di Pertile, con l'acciaio dei mezzi e l'accento scultoreo di Merli, con le finezze quasi immateriali di Schipa e, soprattutto, con la personalità prepotente e bifronte di Lauri Volpi, il quale conquisterà le platee con i mezzi più funambuleschi ma più ovvii di cui disponeva, mandando, in parte, a farsi benedire proprio quella predicazione» che l'ha portato, oggi, alle soglie della santificazione. Se, in effetti, le vicende liriche romane verranno vivacizzate dagli scontri fra i partiti opposti dei sostenitori di Volpi e quelli di Gigli, a livello di maturata presa di coscienza del senso autentico e contrastante delle due « cause » abbracciate, gli scontri non parvero alimentati da un preciso senso critico. E se da questi « scontri » che i due illustri protagonisti nulla fecero per alimentare (esattamente come accadrà trent'anni dopo per la Callas e la Tebaldi) Gigli ne sortirà clamorosamente vincente, fu in gran parte perché la causa di Volpi fu mal sostenuta; si fece vessillo provocatorio di un loggionismo dall'acuto e dal sopracuto argentei, lancinanti, intermina epidermicamente vellicato, quasi sessualmente lacerato, bili (non di rado cronometrati) ma sostanzialmente insensibile a quel recupero del metodo di fonazione squisitamente ottocentesco che Volpi andava propagandando. Nel Guglielmo Tell come nei Puritani, nel Trovatore o nel Rigoletto quella di Volpi rimase una lezione eternamente incompiuta nella quale la dignità del sublime cantore languorose, che, compromettevano sensibilmente il rigore d'antico stampo, all'improvviso si degradava in prolissità dell'intonazione, o in furibonde impennate temperamentali che facevano tremare dalle fondamente il fragile edificio « classicheggiante » che Volpi s'era prodigato ad erigere. Con il risultato d'insieme che si poté dire di Volpi quel che Rossini disse di Wagner: « Monsieur... a de beaux moments, mais de mauvais quarts d'heures aussi. « Tuttavia i « beaux moments » di Lauri Volpi furono cosi folgoranti da restare gemme isolate nella storia dell'Opera e in quella della vocalistica, e risplendettero con l'indistruttibilità del diamante fino a quel febbraio del '59 nel quale il grande tenore cantò, per l'ultima volta, a Roma. Allo splendore delle « gemme isolate » Gigli contrapponeva la continuità della « tenuta » che non lo vide mai emergere, a livello storico, su posizioni di rottura, né mai sottostare alla decantazione del mal gusto imperante; semmai facendosi, di questo, un mediatore catalizzante, destinato a convogliare l'entusiasmomento, il fanatismo ad un certo modiseducazione radicale. In realtà l'organizzazione vocale delle masse, senza operare una di Gigli era talmente perfetta da concedergli, con l'impiego della pura tecnica, straordinari effetti temperamentali che, privi di ogni meccanico artificio, sgorgavano con una semplicità franca e immediata, illuminavano il momento musicale e drammatico con una « verità » che fu frutto più di istinto che di meditazione. Gigli, in definitiva, adulò il pubblico ma non lo involgarì; in una certa misura determinò, sottolineò la « datazione » di un certo gusto interpretativo ma lo « storicizzò », anche, proponendocene una versione costantemente sorvegliata dai rigori del metodo. E fu la ineccepibilità del metodo che concesse anche a Gigli di prodigarsi, sulle scene dell'Opera, fino al 1953, anno in cui cantò nella Fedora, a pochi giorni di distanza, da una acclamatissima interpretazione della Manon di Massenet.
Nella competizione fra Gigli e Lauri Volpi si inserirono (e non di rado con pronunciamenti più autorevoli, anche se meno appariscenti) TITO SCHIPA ed AURELIANO PERTILE, il primo con la tipicità d'un colore, d'un metodo, d'una essenzialità interpretativa che gli lasciano un posto isolato nella vocalistica del nostro secolo, il secondo per quel fascino impagabile che è la suprema conquista delle voci « non belle » e, come tali, non handicappate da quella prodigalità della natura che, spesso, atrofizza il gusto della ricerca, della risoluzione inedita, di quella vittoria dello spirito sulla materia che é la derivante d'un travaglio emozionantissimo.
Nel seguire cronologicamente la « presenza» delle grandi Voci in cinquant'anni di Storia del Teatro dell'Opera, ci imbattiamo nella unica e fugace apparizione di LILY PONS la quale, alla vigilia del suo ufficiale inserimento fra i « big » del Metropolitan, tiene la sera del 10 giugno del '33, un concerto, nel quale le sono accanto GIUSEPPE DE LUCA ed EZIO PINZA. Anche Ezio Pinza, che aveva cantato a Roma nel '20 e nel '21, diverrà uno dei dominatori delle scene nuovayorkesi e tornerà a Roma, nel '36, per cantarvi il Mefistofele e L'amore dei tre re. Di ben altro rilievo l'incidenza dell'arte grandissima di De Luca nelle vicende dell'Opera, teatro nel quale cantò per la prima volta nel 1906; l'ultima, ben quarant'anni dopo: nel 1945 in una indimenticabile recità del Don Pasquale con Schipa, Tajo e l'astro nascente di Alda Noni. Dopo il concerto straordinario del '33 De Luca tornò all'Opera fra il '36 e il '37 per sostenere il ruolo di Napoleone nella Madame Sans-Gêne di Giordano e per una recita straordinaria del Rigoletto.
Fra i baritoni che ebbero ampia circolazione e meritata fortuna, in quegli anni, sulle scene dell'Opera figura il nome di BENVENUTO FRANCI che profuse i suoi mezzi, eccezionalmente doviziosi, in quasi tutto il repertorio verdiano e verista ed esibì la propria versatilità di interprete passando dal gioco variatissimo del Gianni Schicchi ai « classici » rigori dell'Orfeo monteverdiano. La presenza di Franci all'Opera abbraccia un arco che va dal 1917 al 1952.
In quegli anni, fra il '30 ed il '66, si consolidano anche le posizioni di due grandi mezzosoprano: EBE STIGNANI e GIANNA PEDERZINI. La prima si impone per il rigore di una tecnica inflessibile, per una bellezza e completezza di mezzi tali da prendere il sopravvento totale sull'agnosticismo dell'interprete che, in Donizetti come in Bellini, in Verdi come in Rossini restituisce posizioni primarie alla ineccepibilità del metodo e dello stile; la seconda vincente, in partenza, per un fascino fisico ed uno scavo di interprete che la resero la più convincente Carmen di quegli anni. (primato che la Pederzini detenne fino agli inizi degli anni '50). La Carmen della Pederzini fu un capolavoro di istinto e, insieme, di misura; qualità che unite alla « tipicità » dei mezzi, fascinosi, ma non esorbitanti, spinsero l'intelligente interprete ad avvicinarsi, più d'altre mai, al « modello » originale sopranile. Per le stesse ragioni la Pederzini fu un perfetto « Falcon » nella sua nobile Charlotte nel Werther (ruolo che ella sostenne al fianco di Schipa fino agli anni '50), in quel periodo la Pederzini nel congedarsi dalle scene affidò alla sua rara intelligenza di interprete ruoli spiccatamente caratterizzati ne La dama di picche, nei Dialoghi delle Carmelitane di Poulenc e nel Medium di Menotti. Si ricorderà, infine, che, nel 1941, la Pederzini, fu la prima a restituire il ruolo di Rosina, nel Barbiere, al registro originale di « contralto d'agilità ».
Nel '35 registriamo per la prima in Italia nell'Arianna a Nasso di Richard Strauss la presenza di tre celebrati cantanti tedeschi quali ANNY KONEZNY, ADELE KERN e CHARLES KULLMANN. Nel '37 il tenore francese JOSÉ LUCCIONI canta nella Carmen, Gilda Dalla Rizza appare per l'ultima volta nel Piccolo Marat, LICIA ALBANESE canta nell'Africana e nell'Amico Fritz. Nel '38 trionfa nel Mefistofele Nazareno De Angelis, per riproporre, poi, la propria sontuosa voce di basso in una edizione in lingua italiana della Tetralogia wagneriana diretta da Serafin. A questa edizione prende parte il più accreditato tenore wagneriano di quegli anni: FIORENZO TASSO, specialista anche del repertorio pizzettiano. Ancora nello stesso anno la magnifica affermazione di Gina Cigna quale protagonista della « prima » all'Opera dell'Alceste di Gluck. Alla fine di quell'anno TITO GOBBI fa il suo debutto nel ruolo di Lelio ne Le donne curiose di Zandonai. Dopo un inizio, per forza di cose, un tantino in sordina, Gobbi entrerà a far parte del numero di cantanti prediletti dal pubblico romano per un insieme inscindibile di caratteristiche scenico-vocali che nella loro originalità ranno ad esami elettroscopici troppo puntigliosi (per non si prestequanto concerne il disinvolto metodo di fonazione) e faranno di Gobbi uno dei più grandi cantanti-attori del nostro tempo accostabile, per certi aspetti, solo a Mariano Stabile del quale, purtroppo, mancherà a Gobbi, dotato di voce più robusta e legnosa, la morbidezza dell'emissione che consentì a Stabile nell'arco di una carriera che raggiungerà il mezzo secolo e variate le sue interpretazioni. Da Stabile Gobbi eredita di rendere ancor più sottili anche la triade delle interpretazioni fondamentali: Falstaff, Jago nell'Otello e Scarpia nella Tosca. Tuttavia mezzi più doviziosi permisero a Gobbi di spaziare più largamente nel repertorio verdiano e in quello verista.
Se, in quegli anni, Gobbi si pone alacremente sul tracciato di Stabile, GINO BECHI ci offre una sorta di gigantografia dei difetti di Gobbi; difetti dapprima non avvertibili perché oscurati dalle riserve giovanili di una voce estremamente estesa ed ampia negli armonici; tuttavia, in seguito, la meccanica dilatazione dei suoni e tutta una serie di espedienti atti a forzarne gli effetti affrettarono il declino del cantante. Cantante che pur godette d'un periodo di popolarità strepitosa dal '40 all'immediato dopoguerra e che nei suoi momenti migliori seppe disegnare un drammatico Rigoletto ed un suggestivo Nabucco. Lontano da ogni lezione rossiniana il suo, pur applauditissimo, Figaro nel Barbiere.
Nel periodo in cui tutti i grandi cantanti erano « di casa » all'Opera di Roma, ci limiteremo a segnalare gli avvenimenti più « isolati », relegando per forza di cose nella « routine » presenze pur insigni e ciascuna meritevole d'una segnalazione a parte.

Nel '38 canta per l'unica volta a Roma VIORICA URSULEAC in un'edizione in lingua italiana de La donna senza ombra di Richard Strauss. Fra i grandi « di casa » appare, poi, nel '40, un grande baritono ungherese: SANDOR SVED, protagonista di un'edizione del Guglielmo Tell, con MAZAROFF (Arnoldo) e nel cui « cast » figuravano, in ruoli comprimari, due baritoni destinati ad inserirsi a lettere maiuscole nei successivi capitoli di Storia del nostro teatro: GIUSEPPE TADDEI e PAOLO SILVERI.

Siamo così giunti agli anni della « guerra ». L'innaturale amplesso italo-tedesco, avrà fra i rarissimi risvolti positivi quello di offrire al Teatro dell'Opera l'opportunità di ospitare grandi complessi e famosi cantanti tedeschi. Nel gennaio del '39 Victor De Sabata presenta il Tristano e Isotta per la prima volta a Roma in lingua originale. Tristano é MAX LORENZ, ormai storicizzato come uno dei più grandi interpreti wagneriani del secolo. Meno blasonata I'Isotta di GERTRUD RÜNGER, famosissimi gli altri interpreti: Margarete Klose, Paul Schöffler e Ludwig Weber. Nel '39 tornerà anche la Tetralogia, ancora in lingua italiana, ma con la partecipazione della DE NEMETHY nel ruolo di Brunilde. Un'altra celebre cantante tedesca, ANNY HELM SBISA, sarà Elektra nel '40. È dello stesso anno il debutto di MAGDA OLIVERO nell'Adriana Lecouvreur. Cantante fra le più complete, fascinose e suggestive del nostro tempo, la Olivero dopo l'exploit iniziale interromperà, per vicende personali, la propria carriera, riprendendola nel dopoguerra, periodo nel quale nascerà una seconda primavera che vedrà la grande cantante consegnata a sempre più spiccate e inimitabili attitudini d'in terprete. Ma di questo secondo periodo, per circostanze puramente incidentali, il Teatro dell'Opera se ne avvantaggerà ben poco. Resteranno, tuttavia, memorabili le interpretazioni che la Olivero offrì nella Tosca e nella Fanciulla del West.
Sempre nel '40 tornano Francesco Merli e Stabile interpreti insuperabili dell'Otello. Accanto ad essi l'arte finissima di Gabriella Gatti. Quest'ultima sarà, nello stesso anno, una Norma di grande eleganza stilistica ma di irrilevante incidenza tragica.
In questo periodo ogni « cast » ci propone nomi che meriterebbero un « commento » cui solo lo spazio limitato a nostra disposizione ci impone di sottrarci; nomi gloriosi come quelli di MALIPIERO e della NICOLAI, di BORGIOLI e della OLTRABELLA, di TAGLIABUE e della SOMIGLI, di PASERADETTI. È di quel periodo anche rimarchevole ma fugace RO e di MASCHERINI, della MAGNONI e della ADAMI CORRADETTI. E di quel periodoanche rimarchevole ma fugace fortuna del tenore GIUSEPPE LUGO. Più duratura, perché meglio consegnata a squisiti valori musicali e belcantistici, la fortuna, grandissima, di FERRUCCIO TAGLIAVINI, che ad un certo punto eguagliare l'intensità di consensi e di popolarità raggiunte da un Gigli e da uno Schipa. Modelli dei quali, in effetti, Tagliavini ricalcava la lezione preziosa adattandola alla propria spiccata personalità.
Nel '41 una tournée dei complessi della « Staatsoper » di Berlino diretti da Heger, da Schüler e dal giovane von Karayan ci offre la preziosa opportunità di ascoltare all'Opera la KLOSE e MARIA CEBOTARI nell'Orfeo di Gluck; la FUCHS, VÖLKER e PROHASKA nel Fidelio; HELGE ROSWÄNGE ed ERNA BERGER nel Ratto dal serraglio; ancora la Cebotari Sofia nel Cavaliere della rosa, MAX LORENZ, MARIA MÜLLER e BOCKELMANN nei Maestri cantori. Nel '42 viene festeggiata la Lucia di MARGHERITA CAROSIO, cantante che, più degli illustri lirico-leggeri che l'avevano preceduta, si rivela incline a sottolineare certi obliterati valori espressivi sia pure in una chiave intimista ancora lontana dalla aulicità del declamato primo-ottocento. Analogo esperimento la Carosio lo ripeterà nei Puritani godendo di una temperie critica ancora insensibile a certe diversificazioni stilistiche. Alla Carosio rimane comunque il merito di aver sciolto l'algida meccanicità del soprano di coloratura che ancora imperava in quegli anni nel repertorio ottocentesco. La Carosio parteciperà anche, nel ruolo di Armidoro, alla prima ripresa nel secolo delle Cecchina di Piccinni della quale fu protagonista PIA TASSINARI. Fra gli eventi rimarchevoli del '42 il debutto di GIANNA PEDERZINI ne l'Italiana in Algeri, interpretazione con la quale l'intelligente e duttile cantante ci fornirà una prima « profezia » di autentico vocalismo rossiniano. Ancora nel '42 Tito Gobbi ci offre una decisiva testimonianza della sua superiore intelligenza di interprete assumendo il ruolo di protagonista nella prima italiana del Wozzeck di Berg.
Nel '43 MARGARET GRANDI è Ottavia nell'Incoronazione di Poppea e GIULIETTA SIMIONATO canta per la prima volta all'Opera, sostenendo il ruolo di Puck nell'Oberon di Weber. Nelle stagioni successive la Simionato assumerà gradatamente i ruoli, la dignità e la fama che le competono, imponendosi, poi, definitivamente come uno dei più grandi mezzosoprano del secolo, in amichevole competizione con FEDORA BARBIERI la quale, pur essendo cantante di doviziosi mezzi e di marcato temperamento, all'Opera, darà il meglio di se stessa proprio in ruoli di sorvegliata e classicheggiante vocalità: Neris nella Medea e Cornelia nel Giulio Cesare di Haendel. Fra i grandi mezzosoprano ricorderemo anche CLOE ELMO che, fra le tante ammirate prestazioni, nel '43 impose una rimarchevole Amneris in un'Aida diretta da De Sabata.
Nel '43 cantò per la prima volta nella Traviata RINA GIGLI sulla quale pesò negativamente l'affettuoso ma pesante fardello «paterno» che fini col precluderle spazi di autonoma affermazione; spazi che spettavano di diritto ad una cantatrice raffinatissima quale fu la Gigli alla quale, oggi più che ieri, riconosciamo il fascino impagabile e modernissimo d'uno di quei timbri « strani » e «misteriosi» che solo le generazioni successive avrebbero apprezzato in pieno. In una Tosca del '44 compare per la prima volta il nome di ADRIANA GUERRINI esponente fra le più ragguardevoli di una nuova leva che, nell'immediato dopoguerra creerà le nuove strutture portanti del Teatro, avvicendandosi, alle ultime prestazioni samente impeccabili, ora pateticamente declinanti di ora prodigio quei « big » che avevano trionfato nel ventennio che abbiamo tentato di sintetizzare. Fra queste « nuove leve » spiccheranno i nomi di ONELIA FINESCHI e di FRANCESCO ALBANESE, di LUIGI INFANTINO e di ANTONIO ANNALORO, di MARIO BINCI e di FIORELLA CARMEN FORTI, di ROSANNA CARTERI e di ELENA RIZZIERI, di ELISABETTA BARBATO e di MARIA PEDRINI di GIANGIACOMO GUELFI e di MARIO PETRI, dello sfavillante non dimenticato FILIPPESCHI. In quel periodo si fa strada la vocalità forbita e l'impagabile grazia scenica di ALDA NONI che coglierà il suo momento di gloria allorché verrà ammirata da Richard Strauss nel ruolo di Zerbinetta nell'Arianna a Nasso. Prima di passare all'ultimo capitolo di questa cronistoria inevitabilmente frettolosa e non priva di dimenticanze che le « vittime » (almeno quelle viventi), vorranno perdonarci, ricorderemo che nel maggio del '46 cantò per l'unica volta a Roma a ormai alla fine della propria carriera LAWRENCE TIBBETT, un grandissimo baritono che per un lungo decennio aveva dominato le scene del Metropolitan. Il dolente e nobilissimo canto di Tibbett, nel Rigoletto, fu sommerso dalle polemiche per motivi di « bis » fra Lauri Volpi ed il direttore d'orchestra.
Ormai siamo alla vigilia di una nuova folgorante « svolta »: uno alla volta, magnificamente giovani, entusiasti, esuberanti, immediatamente catturati al sesto senso del grande pubblico, puntualmente respinti dalla miopia dei critici, sì susseguiranno sulle scene dell'Opera, i predestinati a diventare i miti del nostro tempo (TEBALDI, DI STEFANO, DEL MONACO, CORELLI); accanto ed essi la artefice della « grande restaurazione »: MARIA CALLAS. Nell'anno « di grazia » 1947 debuttano GIUSEPPE DI STEFANO, nella Manon di Massenet, MARIO DEL MONACO nella Tosca e RENATA TEBALDI nell'Otello. Pochi mesi dopo, nell'estate del 48, appare, per la prima volta, nella Turandot, il nome « sconosciuto» di MARIA CALLAS. Franco Corelli debutterà più tardi: nel '52, nella Giulietta e Romeo di Zandonai. Al '46 risale anche la prima esibizione all'Opera di BORIS CHRISTOFF nel ruolo di Pimen, nel Boris opera della quale il grande basso di origine bulgara diventerà, negli anni successivi, per la tipicità dei mezzi vocali e la gestione sovrana del gioco scenico e della introspezione psicologica, il più accreditato erede delle glorie di Schaliapin. Di uguale intensità vocale ed espressiva sarà l'interpretazione di Filippo II, nel Don Carlos, che Christoff proporrà al pubblico romano.
Inizia, così, il ciclo delle grandi voci degli anni '50 e '60. Aiutati dalla baldanza dei mezzi giovanili e della penetrazione a vasto raggio del loro repertorio Di Stefano, Del Monaco e la Tebaldi non tarderanno a divenire, a Roma come ovunque, i beniamini del pubblico. Più tiepidi alcuni « vati » della critica votati alla fallace profezia. I « vati », riconoscono, recalcitranti, la rara bellezza delle voci dei tre cantanti ma pronosticheranno loro « breve durata ». In effetti i tre futuri « big » domineranno le scene per il successivo ventennio e ogni loro apparizione sarà per il pubblico romano un autentico avvenimento, anche nella fase inevitabilmente « declinante » delle loro lussureggianti carriere. Superfluo ripercorrere le tappe di una « escalation » ancora così vicina ai nostri ricordi. Meno agevole fu per Maria Callas la conquista d'una popolarità assoluta, per motivi implicati al repertorio della cantante. La Callas, infatti, dopo la Turandot, cantò, all'Opera nel Tristano e Isotta e nel Parsifal. Della copiosità, della ampiezza, delle risonanze arcane, delle variatissime tinte tragiche della voce di Maria Callas — tanto per non infrangere le vecchie regole se ne avvidero, con uno stupore quasi incredulo, più i dilettanti « illuminati » e la cosiddetta « gente di cultura » che i rappresentanti « ufficiali » della critica musicale. La popolarità autentica, il clima incandescente del teatro delirante, s'ebbero allorché la Callas presentò quel biglietto da visita personale (che s'è fatto oggi « lasciapassare » per l'Immortalità) esibendo allo stato puro e senza preavviso di sorta l'ormai obliterato vocalismo ottocentesco nella Lucia e nei Puritani (opera nella quale, accoppiandosi ad un ancor sfavillante Lauri Volpi, la Callas propose tesori di tecnica e d'espressività tragica). Il teatro, come si diceva una volta, « andò alle stelle » anche se è dato supporre — colpito più dal funambulismo d'una voce che spaziava liberamente su tre « ottave » che dal senso « storico » di una restaurazione « che la totale mancanza di parametri valutativi rendeva problematicamente identificabile. Del resto gli « storici » stessi, storicizzarono con molto ritardo, con molta cautela e con una sostanziale inadeguatezza alla portata del « fenomeno » che, per istinto genialissimo e rigore inconsueto di studi, la Callas andava enucleando. Sì che s'avranno da attendere i primi scritti di Eugenio Gara, di Fedele d'Amico, di Teodoro Celli e del primo Celletti meglio versato alle sintesi, per avvertire un senso pieno di consapevolezza, una visione finalmente comparata alla mitologia ottocentesca, rigorosa nell'avvertimento filologico.
Ufficialmente « santificata » alla Scala, sulla scia d'una fama che s'era ormai diffusa in tutto il mondo, la Callas tornò ancora all'Opera con la sua leggendaria Medea. Fu un grande successo ma non fu, probabilmente, quel trionfo che il « genio callassiano » meritava. In realtà già fluttuava nell'aria, già si leggeva fra le righe di qualche dioscuro quel tanto di « canagliesco », quel tanto di snobismo all'incontrario, di estrazione vagamente provinciale, che, in quella successiva storica sera del 2 gennaio 1958, non offrì alla Callas quel devoto appoggio morale che consente ad un grande artista di portare avanti una recita in precarie condizioni fisiche. Dopo quella Norma interrotta la Callas non tornò più all'Opera. Ma il tempo, la crescita consolatrice delle ultime generazioni, hanno fatto giustizia. Oggi, all'Opera soprattutto nella immensa e pulsante « galleria » ogni sera, fra un nuovo entusiasmo è una ennesima delusione, non si parla che di Lei.
Ma, tornando alla cronaca degli anni '50 e '60, se la Callas e la Tebaldi, Di Stefano e Del Monaco, Corelli, e Christoff e Gobbi monopolizzarono l'entusiasmo del pubblico, altri valori emersero, altri artisti dotatissimi ottennero larga messe d'affetti e di plauso. S'andarono, così, mano a mano imponendo l'adescante vocalismo verdiano di CATERINA MANCINI e di ANTONIETTA STELLA, il vibrante temperamento di CLARA PETRELLA, la voce splendente di GIANNI POGGI, l'arte raffinatissima di GIACINTO PRANDELLI, la trascendente bellezza della POBBE, la breve stagione di FLORIANA CAVALLI, e quella altrettanto fugace, di ANITA CERQUETTI. E s'impone, soprattutto, la fascinosa vocalità di VIRGINIA ZEANI che gareggiò con la sfavillante, schietta, estasa, educatissima voce di GIANNI RAIMONDI in una recita memorabile dei Puritani, eccelse in una serie interminabile di interpretazioni della Traviata e diede la misura esatta delle sue variatissime possibilità sostenendo i tre ruoli femminili ne I racconti di Hoffmann, passando, così dalla piccante coloratura di Olympia al melanconico e spettrale romanticismo di Antonia. In quella stessa produzione dei racconti di Hoffmann anche NICOLA ROSSI lità d'espressione che lo inseriscono, d'autorità, fra i LEMENI confermò quella nobiltà d'accenti, quella versati « protagonisti » delle più recenti vicende del nostro teatro.
Sempre fra gli annali di quel periodo ritroviamo l’unica apparizione a Roma, nel 57, della squisita VICTORIA DE LOS Sempre fra gli annali di quel periodo ritroviamo l'unica ANGELES, nella Manon; ritroviamo BIRGIT NILSSON e LEONIE RYSANEK, insieme, nella Walkiria, e protagoniste d'eccezione, la prima del Fidelio, la seconda del Vascello fantasma; ritroviamo MARIA REINING, SENA JURINAC & RITA STREICH nel Cavaliere della rosa; ritroviamo, ancora, l'unica apparizione all'Opera di ELIZABETH SCHWARZKOPF (Donna Elvira nel Don Giovanni); SUTHAUS, la GROB PRANDL, la RYSANEK, la CAVELTI, ERMANN e WEBER in una straordinaria Tetralogia diretta da Erich Kleiber. E poi, ancora, la Nilsson e WINDGASSEN nel Tristano.
Ci avviamo così verso l'ultimo periodo: il ventennio che va dal '56 ad oggi; periodo caratterizzato da fasi alterne quanto alla felice e illuminata gestione del « repertorio » e delle « voci » e da un moderato allineamento del Teatro all'accaparramento dei grandi cantanti che sbocciano all'orizzonte e rigogliosamente fioriscono. Il massiccio schieramento, il rigore di scelte che concede spazi irrisori alla approssimazione e che sono tipici del periodo che va dalla fondazione dell'Ente ai primi anni della guerra si vanno facendo un po' un « paradiso perduto ». Tuttavia la presenza dei nomi più rappresentativi non manca, semmai si lascia distinguere per un certo suo carattere d'eccezionalità. Ed è così che accanto alla Tebaldi ed alla Stella, a Del Monaco e a Di Stefano, all'ultima apparizione di un Corelli che si dedicherà, poi, esclusivamente alla Scala ed al Metropolitan, approdano all'Opera una RENATA SCOTTO che incanta nella Sonnambula; una COSSOTTO che, dopo una timida apparizione nell'Adriana, trionfa poi nel Aida, nel Trovatore, nella Favorita; appare ALFREDO KRAUS che nel Werther, nella Favorita e nel Don Pasquale rinnova fasti che parevano perduti; appare CARLO BERGONZI che nel Trovatore e nella Messa da Requiem di Verdi conferma la sua maestria impareggiabile; appare, sfuggita, per una sola volta, la grande Aida di LEONTYNE PRICE. Si fa anche, sporadicamente, qualche « scoperta » destinata ad avere, altrove, grande rinomanza: GWEENETH JONES, per esempio, che sorprende nella Messa e trionfa nell'Aida. E accanto a queste le giovani e generose voci di GIANFRANCO CECCHELE, della ORLANDI MALASPINA; di di ZANASI, della SULIOTIS; le prime esibizioni di NICOLAI GHIAUROV e RUGGERO RAIMONDI; di PIERO CAPPUCCILLI e RENATO BRUSON, vale a dire dei due bassi e dei due baritoni, che, in seguito domineranno il mercato. Accanto ad essi MIRELLA FRENI, che apparirà in tre differenti « momenti » della sua carriera: da debuttante, nel ruolo di Liù, in fase di sperimentazione, nei Puritani, e, ormai da « prima donna » della Scala, nel Faust. E sarà la volta di Gianni Raimondi che rinnoverà i passati splendori della sua prima apparizione nei Puritani dando il segno di una piena maturità in una riesumazione dei Masnadieri che offri anche a ILVA LIGABUE l'occasione di esibire la sua più l'Opera di Berlino, dell'Opera di Amburgo e di quella di proporrà un Boris Christoff in forma ancora smagliante. Sempre in questo periodo tre tournées dei complessi del Stoccarda ci offriranno l'occasione di conoscere voci fatrionfale affermazione di LEYLA GENCER la quale, dopo mosissime in Germania. Ed è di questo ultimo periodo la una ormai lontana apparizione nel Don Giovanni, ci prosuo nome ed alla sua arte: Roberto Devereux, Lucrezia pone quei « revivals » inestimabili strettamente legati al Borgia, Alceste e, accanto a queste, la più penetrante versione del personaggio di Lady, nel Macbeth, mai udita dopo quella della Callas. E della Callas la Gencer rinnova, dapprima, certe perplessità per il timbro strano e misterioso che essa esibisce per la non ortodossa convivenza di suoni diversi e suggeriti puramente da urgenze drammatiche, quindi, la forza galvanizzante, la misura impagabile di offrire una cifra interpretativa che annulla l'analisi del particolare. Poi le serate indimenticabili dell'unica apparizione all'Opera di MONTSERRAT CABALLÉ la quale, in autentico stato di grazia, con una interpretazione stupefacente della Maria Stuarda associa alla pura bellezza dei suoni una tecnica talmente prodigiosa (che cercherete invano di rivolgervi al passato con nostalgia), una commozione di fraseggio essenziale e struggente. È evento memorabile negli annali che abbiamo qui tentato di sintetizzare. Il pubblico l'avverte sin dalla « generale » a conclusione della quale scoppierà un tale tripudio d'acclamazioni che la Caballé sarà costretta a presentarsi alla ribalta. L'episodio non ha precedenti nella storia del nostro Teatro. Ed è una delle ultime occasioni per il nostro pubblico di annotare avvenimenti che restano nitidi e isolati nel ricordo. Ma non mancheranno altre occasioni di tripudio; ce le offriranno LUCIANO PAVAROTTI e Renata Scotto nei Lombardi; TERESA BERGANZA nel Barbiere; CESARE SIEPI, GRACE BUMBRY e MARTINA ARROYO nel Don Carlos, così come ce le aveva offerte RICHARD TUCKER nelle sue uniche recite a Roma nella Manon Lescaut e nella Carmen. Poi il felice approdo a Roma di KATYA RICCIARELLI nella Giovanna d'Arco di Verdi; quello di LUCIA VALENTINI TERRANI nella Gazza ladra all'inizio di una rapida escalation› che vedrà la giovane cantante imporsi a livello internazionale come la più prestigiosa «belcantista » italiana in quel repertorio rossiniano nel quale rimarrà in diretta competizione con la Berganza e Marylin Horne.
MARYLIN HORNE, appunto, l'ultimo nome che scriviamo a caratteri d'oro in questo albo delle grandi voci che hanno reso, discontinuamente « grande» la Storia del nostro Teatro: Marylin Horne che, nella recente Storia dell'Opera della UTET, Celletti non esita a definire la più grande cantante rossiniana del secolo e che, nel recente Tancredi, ce l'ha ampiamente confermato anche se incalzata assai da vicino dal prezioso vocalismo esibito dalla nostra MARGHERITA RINALDI.
Queste, dunque, le più appariscenti fra le grandi voci che nel volgere di cinquant'anni hanno dato carattere e incisività alle produzioni del Teatro dell'Opera; le voci che hanno edificato e viziato il pubblico romano; le protagoniste » di serate indimenticabili di quelle che dalla cronaca passano alla storia ed anche di quelli che Barilli, già un po' a disagio sulla sua poltrona, definiva « successi raccapriccianti »

L'UNITA                                                
1987.03.07  

COMPLETE RECORDING
1967.03.07

Recording Excerpts [1967.03.07]  

Che avvenne… Oh sventurata Act I
Divinità infernal Act I (Finale)
Cotanta Grazia...Al Pianto Vostro Act II (Finale)

FROM CD BOOKLET
NOTE DEL PRODUTTORE / PRODUCER'S NOTE
 
Più di ogni altra informazione sull'ALCESTE di C.W. Gluck, preferiamo riportare integralmente i postulati gluckiani nella famosa prefazione che il compositore fece precedere all'edizione dell'opera dedicata al Granduca di Toscana, e che chiariscono i rigidi dettami riformatori di Gluck nei confronti dell'opera italiana.
"Quando presi a far la musica dell'ALCESTE mi proposi di spogliarla affatto di tutti quegli abusi, che introdotti o dalla mal intesa vanità dei Cantanti, o dalla troppa compiacenza de Maestri, da tanto tempo sfigurano l'Opera italiana, e del più pomposo e più bello di tutti gli spettacoli, ne fanno il più ridicolo, e il più noioso.
Pensai restringere la musica al suo vero ufficio di servire la poesia per l'espressione e per le situazioni della favola senza interrompere l'azione, o raffreddarla con degli inutili super flui ornamenti, e crederei ch'ella far dovesse quel che sopra un ben corretto e ben disposto disegno la vivacità de' colori, e il contrasto bene assortito de' lumi e delle ombre, che servono ad animare le figure senza alterarne i contorni. Non ho voluto dunque né arrestare un attore nel maggior caldo del dialogo per rispettare un noioso ritornello, né fermarlo a mezza parola sopra una vocale favorevole, o a far pompa in un lungo passaggio dell'agilità di sua bella voce, o ad aspettare che l'Orchestra le dia tempo di raccorre il fiato per una cadenza. Non ho creduto di dover scorrere rapidamente la seconda parte di un'aria, quantunque fosse la più appassionata e importante per aver luogo di ripeter regolarmente quattro volte le parole della prima, e finir l'aria dove forse non finisce il senso, per dar comodo al cantante di far vedere che può variare in tante guise capricciosamente un passaggio; insomma ho cercato di sbandire tutti quegli abusi de' quali da gran tempo esclamavano in vano il buon senso, e la ragione. Ho immaginato che la sinfonia debba prevenire gli spettatori dell'azione che ha da rappresentarsi, e formare, per dir così l'argomento: che il concerto degli istrumenti abbia a regolarsi a porzione degl'interessi e della passione, e non lasciare quel tagliente divario fra l'aria e il recitativo, che non tronchi a controsenso il periodo, né interrompa mal a proposito la forza, e il caldo dell'azione. Ho creduto poi che la mia maggior fatica dovesse ridursi a cercare una bella semplicità; ed ho evitato di far pompa di difficoltà in pregiudizio della chiarezza; non ho giudicato pregevole la scoperta di qualche novità se non quando fosse naturalmente somministrata dalla situazione, e dall'espressione; e non v'è regola d'ordine ch'io non abbia creduto doversi di buona voglia sacrificare in grazia dell'effetto. Ecco i miei principi. Per buona sorte si prestava a meraviglia al mio disegno e il libretto, in cui il celebre autore immaginando un nuovo piano per il drammatico aveva sostituito alle fiorite descrizioni, ai paragoni superflui e alle sentenziose e fredde moralità, il linguaggio del cuore, le passioni forti, le situazioni interessanti, e uno spettacolo variato. Il successo ha giustificato le mie massime, e l'universale approvazione in una città così illuminata, ha fatto chiaramente vedere, che la semplicità, la verità, e la naturalezza sono i grandi principi del bello in tutte le produzioni dell'arte. Con tutto questo, malgrado le replicate istanze di persone le più rispettabili per determinarmi di pubblicare colle stampe questa mia opera, ho sentito tutto il rischio che si corre a combattere dei pregiudizi così ampiamente e così profondamente radicati, e mi son veduto in necessità di premunirmi del patrocinio potentissimo di Vostra Altezza Reale implorando la grazia di prefiggere a questa mia opera il suo Augusto nome che con tanta ragione riunisce i suffragi dell'Europa illuminata. Il gran protettore delle belle arti, che regna sovra una nazione, che ha la gloria di averla fatta risorgere dalla universale oppressione e da produrre in ognuna i più grandi modelli, in una città che è stata sempre la prima a scuotere il giogo dei pregiudizi volgari per farsi strada alla perfezione, può solo intraprendere la riforma di questo nobile spettacolo in cui tutte le arti belle hanno tanta parte. Quando questo succeda resterà a me la gloria di aver messa la prima pietra, e questa pubblica testimonianza della sua alta protezione al favore della quale ho l'onore di dichiararmi col più umile ossequio". La presente edizione riunisce il testo italiano di Ranieri Di Calzabigi della rappresentazione viennese del 1767 con la traduzione del testo francese di Bailli du Roullet della rappresentazione parigina del 1776. In pratica tutti i tre atti fusi tra di loro dilatando notevolmente la parte musicale. A questo proposito informiamo gli ascoltatori che, nonostante le lunghe ricerche, non ci è stato possibile reperire il testo completo di questo libretto e perciò con molta pazienza, abbiamo cercato di integrarlo seguendo attentamente l'ascolto delle parti cantate. Qualcosa ci sarà sfuggito o avremo fatto qualche errore, le parti corali sono state quasi impossibili da ricostruire; ce ne scusiamo, nella speranza che venga apprezzato il resto del nostro lavoro. Splendida, classica, preziosa e dolente Alceste già nell'edizione del Maggio Musicale Fiorentino 1966, Leyla Gencer rimane protagonista incontrastata sia a Roma nel 1967 che nelle rappresentazioni successive a Palermo e Genova nel 1968, a Torino nel 1969 e infine a Milano nel 1972. Riteniamo la sua prestazione di Roma rafforzata anche per merito della presenza di Mirto Picchi, come sempre preciso nella sua dizione e vocalmente irreprensibile.
Registrazione di alto livello sonoro, ottenuta da una trasmissione radiofonica, essa è appena disturbata da qualche breve e sottile interferenza atmosferica. Di qualità inferiore, ma ben ascoltabile, il BONUS, captato in sala con un ottimo appareccho a bobina.
 
Rather than any other information about Gluck's ALCESTE, we prefer to quote entirely the postulates the composer wrote in the famous introduction he premised to the score of the opera dedicated to the Grand Duke of Tuscany, explaining his stern reforming dictates concerning Italian opera. "When I began the composition of ALCESTE, I planned to completely strip it of the abuses which, introduced by the singers' misplaced vanity, or by the composers' excessive complacency, have for too long spoiled Italian Opera, and transformed the grandest and most beautiful of all performances into the most ridiculous and boring. I thought of limiting the music to its true task, which is serving poetry in view of the expression and of the development of the plot, without interrupting the action or cooling it down with useless, superfluous embellishments. I believe that the music must accomplish what the brightness of the colours, the well assorted contrast of lights and shadows add to a correct and welldone drawing, animating the figures without changing their outlines. Therefore, I did not want either to stop singers in the full heath of a dialogue to respect a boring "ritornello” or stop them in the middle of a word over a favourable vocal just to show off, in a long passage, the agility of their beautiful voices, or to wait for the orchestra to give them the time to collect their breath for a cadenza. I did not think I had to hurry the second part of an aria, no matter how impassioned and important, just to have the opportunity to repeat the words of the first one four times, or end the aria where perhaps the sense does not finish, just to allow the singer to prove him/herself able to fancifully vary a passage in many ways; in short I tried to banish all the abuses against which good sense and reason have in vain been complaining for a long time. I thought that the sinfonia must forewarn the audience about the action which is going to be performed, and shape - so to speak - the subject; that the harmonizing of the instruments must be adjusted in view of the interests and of the feelings, not leaving a sharp gap between the aria and the recitativo aimlessly cutting the phrase, nor interrupt the strength, the warmth of the action. I also believed that my greater effort should be aimed at a gentle simplicity; and I avoided showing off difficulties at the expense of clarity; I did not think it valuable to discover something new, unless it was naturally required by the situation and by expression; and there is no rule I was not willing to sacrifice at the advantage of effectiveness. Here are my principles. Luckily, the libretto was wonderfully suited to my purpose. Its famous author, planning something new for drama, had put in place of the flourished descriptions, of the superfluous comparisons and of the righteous and cold moralism, the language of the heart, strong passion, interesting situations and a varied performance. Success has proved my principles right, and the general appreciation of such an enlightened city clearly showed that simplicity and naturalness are the great statements of beauty in any work of art. This notwithstanding, in spite of the many requests of the most respectful people prompting me to have this work of mine printed, I felt all the risks of fighting such largely and deeply rooted prejudices, and found myself in need of Your Royal Highness' powerful patronage, begging the favour of premising this work your august name, so rightfully honoured by the whole of enlightened Europe. The great protector of fine arts, reigning over a Nation, who has the glory of having made them revive from general oppression, producing in each one the greatest paragons, in a city that always was the first to shake off the yoke of the vulgar prejudices to try and reach perfection, is the only one who can begin the reform of this noble kind of performance, where all the fine arts have such a large part. When this happens, the glory of having set the first stone will be mine, along with this public evidence of your high protection, to which I have the honour to pronounce myself humbly grateful". This edition puts together the Italian text by Ranieri Di Calzabigi of the Vienna performance of 1767 and the translation of the French text by Bailli du Rollet of the Paris performance of 1776. The three acts are reunited, greatly enlarging the musical part. About this point, we inform the public that, notwithstanding our long research, it was impossible founding the complete text of this libretto. Therefore, with great patience, we have tried to complete it, carefully listening to the sung parts. We might have missed something or made some mistake. The chorus parts have proved impossible to make out. We apologize, hoping that the rest of our work may be appreciated. A wonderful, classic, precious and sorrowful Alceste already in the edition of the Maggio Musicale Fiorentino, 1966, Leyla Gencer remains undisputed protagonist both in Rome in 1967 and in the following performances in Palermo and Genoa in 1968, in Turin in 1969 and lastly in Milan in 1972. We think her performance in Rome in strength and also by the presence of Mirto Picchi, precise in his diction and vocally as flawless as ever.
A recording of high sound quality, obtained from a broadcast, only slightly marred by some short and light atmospheric disturbances. The BONUS is of a lower quality, but has a fairly good sound, since it was recorded in house with a very good tape recorder.

FROM LP BOOKLET
TEATRO DELL'OPERA, ROMA