CINQUANT’ANNI DEL TEATRO DELL’OPERA [1928
– 1978]
JOLE TOGNELLI
Stampato in Italia © 1979
Edizioni d’Arte di Carlo E. Bestetti
Franco Soprano
Grandi « voci » e grandi « cantanti » all'Opera.
Mezzo secolo di storia di un grande teatro è, anche e soprattutto,
storia di grandi interpreti, di grandi cantanti di grandi voci. Storia
d'approdi e di congedi; di meteore e a di costellazioni vivide e fisse; di
feudi vagamente provocatori nelle loro incrollabilità, di opzioni spesso a
troppa lunga scadenza, e di inesplicabili assenze.
Nell'occuparci, succintamente, delle grandi voci, che,
nelle vicende di questo primo cinquantennio di vita del Teatro dell'Opera,
lasciarono un segno durevole, offrirono un apporto illuminante, un tocco di
magnificenza, percorreremo in senso cronologico gli avvenimenti che si
susseguirono a partire da quella edizione del Nerone di Boito che il 27
febbraio del 1928 aprì la attività ufficiale dell'Opera, destinata a diventare
poi Ente Autonomo.
In tempi come i nostri, preoccupati fino alla
ostentazione, della fedeltà filologica nella ricerca, a livello vocale, di
canoni esecutivi ragionevolmente vicini al modello, alla tecnica, allo stile
originali, alcune scelte, l'accostamento di certi cantanti a certi ruoli
potranno destare qualche perplessità. E la perplessità prenderà ancor più corpo
quando ad avallare tali scelte saranno proprio quei Marinuzzi o quei Serafin
che, nella cifra totale del loro intervento, diedero un contributo decisivo
alla « crescita » dell'Opera, allo smantellamento d'un clima facilone e
festaiolo ed all'inserimento di rigori da grande teatro. Tuttavia sulla
opinabilità di certe scelte intervengono ampie motivazioni contingenti.
Contingenze, appunto, che ci riportano ad anni nei quali il recupero di una
tecnica vocale, di una psicologia che a questa sovrintende, e d'una poetica che
da questa si sprigiona, erano ancora « in mente dei ». Erano gli anni, appunto,
nei quali la « grande voce » s'esibiva « in prima persona », sfoggiava mezzi
inestimabili, temperamenti gagliardi o delicati, ma nell'insieme si rivelava
poco preoccupata di una ricerca approfondita della variabilità del « momento
storico » nel quale l'opera da interpretare si inseriva. E l'interpretazione,
già viziata alla base, dall'imperversare del trionfante « verismo », finiva con
l'essere esaltazione di « vicende » più che di stili e di poetiche. I Marinuzzi
e i Serafin, i De Sabata ed i Santini ebbero, quindi, moderate possibilità di
esercitare scelte ideali, proprio perché la conformazione psico-tecnica del
cantante « ideale », del cantante all'altezza di recuperare in maniera totale
il repertorio italiano da Rossini a Verdi, s'era ormai dispersa. Ad essi (ai
Marinuzzi, ai Serafin), spetterà il compito d'imbrigliare voci sontuose e
recalcitranti per addomesticarle ad una lettura « credibile » di Monteverdi e
di Gluck, di Rossini, di Bellini, di Donizetti e di Verdi.
Ed è con Verdi, (apriamo la succinta cronistoria) che
appare per la prima volta sulle scene dell'Opera la fugace mitologia di CLAUDIA
MUZIO. È la sera del 19 aprile 1928.
Al podio Gino Marinuzzi. Accanto alla Muzio, Tito Schipa
e Riccardo Stracciari. La stagione della Muzio sarà brevissima: sette anni dopo
si congederà per sempre dal pubblico romano nella Cecilia di Refice. Morirà un
anno dopo, nel 36, a soli 48 anni. A pochi giorni dal debutto nella Traviata,
la Muzio cantò nella Tosca sempre con Marinuzzi ed accanto a Lauri Volpi ed a
Stracciari. E, ancora, nella Cavalleria, con Lauri Volpi e Franci (Lola è la « giovane
» Gianna Pederzini). Nel $28 la Muzio canta nell'Aida e ne La forza del
destino. Nel '29 sarà ancora Violetta, con Pertile e Stabile, questa volta.
Nell'aprile del '32 sarà Mimì ne La bohème; nel '33 Leonora ne La forza del
destino (con Marinuzzi, Merli, Basiola, la Pederzini e Vaghi); ancora Santuzza
nel '33 e nel '34; Desdemona, nell'Otello, nel '34; ancora Violetta nel '35,
finalmente Norma nel febbraio dello stesso anno. Poi, il i Maggio del '35, una
unica recita della Cecilia. La « presenza » della Muzio all'Opera sfugge ad una
storicizzazione compassata. Come ci confermano alcuni « abitués illuminati »
(ai quali c'è da prestar più fede delle testimonianze d'una critica spesso
generica e provinciale dalla quale vanamente si distacca il genio di un
Barilli) la Muzio fu, sotto certi aspetti, una sorta di « profezia della Callas
» a livello di personalità prepotente ed eclettica, di presenza scenica nobile
e galvanizzante, di penetrazione à fondo delle ragioni segrete di quel pathos
che fa del canto strumento di poesia e di tragedia lasciando spazi irrisori e
voluttuari al commento sulle fasi declinanti dei mezzi vocali. Barilli ce la
tramanda come una donna « intima, schiva, d'una ritrosia quasi tragica ».
Seguendo cronologicamente le « apparizioni » che « fanno storia », ci
imbattiamo nei nomi sontuosi di ELISABETH RETHBERG e GIOVANNI MARTI NELLI i
quali, la sera del 10 aprile del '29 partecipano alla prima romana de La
campana sommersa di Respighi. Che con due nomi così illustri si volesse dare il
massimo prestigio alla nuova opera di Respighi è comprensibile. Misterioso, al
contrario, è il fatto, che questa fu l'unica occasione di ammirare sulle scene
romane una Rethberg che fu pari solo alla Ponselle nell'offrirci un certo tipo
di soprano drammatico il più attendibilmente vicino alla lezione tardo-ottocento
di Teresa Stolz. Cantante di gusto infallibile e di musicalità esemplare la
Rethberg s'era affinata alla scuola del lied (aveva, infatti, in repertorio ben
1000 lieder). Ricorderemo che nello stesso '29 che vide l'unica apparizione a
Roma della Rethberg il New York Guild of Vocal Theatre le dedicò una
onorificenza, come « la più perfetta cantante del mondo ». Anche Martinelli
cantò, nel '29, per l'ultima volta a Roma, ne La forza del destino e nello
Chénier.
« Il 18 aprile del 1929 debutta all'Opera FIODOR
SCHALIAPIN nel Boris Godunov. Anche questa sarà l'unica apparizione sulle scene
del nostro Teatro di una delle più prepotenti e soggioganti personalità del
nostro tempo. In quella stessa edizione del Boris debuttò, nel ruolo di Pi men,
un illustre basso italiano: GIACOMO VAGHI, il cui contributo sarà
apprezzatissimo nelle stagioni a venire.
Sempre nel '29 AURELIANO PERTILE trionfa in due sue
interpretazioni proverbiali: Andrea Chénier e Lohengrin; fra gli interpreti di
quest'ultima appare il nome di IVA PACETTI che, già nel corso della stagione
era stata scelta da Marinuzzi per il ruolo di Leonora nella « prima » in lingua
italiana del beethoveniano Fidelio. La Pacetti sarà elemento di punto per le
future stagioni dell'Opera ove canterà quasi ininterrottamente fino al 1947,
distinguendosi anche nel repertorio straussiano e destando solo qualche
perplessità nel poco avveduto accostamento al puro belcantismo di Imogene nel
Pirata di Bellini (1935, direttore Serafin, Beniamino Gigli « Gualtiero »).
Fra gli avvenimenti del '28-'29 registriamo ancora il
trionfo di LAURI VOLPI nel Trovatore (con Marinuzzi, la Scacciati, la Anitua e
Franci), il trionfo, non meno clamoroso, di Tito Schipa nell' Elisir d'amore,
il debutto di FLORICA CRISTOFOREANU nella Carmen, la partecipazione di ANTONIN
TRANTOUL alla prima del Fra Gherardo di Pizzetti, il successo di ROSETTA
PAMPANINI nell'Iris, il debutto di BIDU SAYAO nel Barbiere (con Franci,
protagonista) la edizione in lingua italiana della Walkiria, diretta da
Marinuzzi, con NAZARENO DE ANGELIS la HALFGREEN e la COBELLI, e, infine, le
prime apparizioni della STIGNANI nella Forza del destino. Alla stagione 26/29
partecipa trionfalmente TOTI DAL MONTE, già cinta di allori scaligeri e toscaniniani
e ormai inarrivabile nel conferire ai ruoli di Lucia e Amina nella Sonnambula
una tale sequenza di suoni cristallini e immacolati, di funambulismi
virtuosistici (ma anche di tenere meditazioni) da rendere tangibile, oggi,
irrilevata allora, la improbabilità stilistica e il totale sradicamento del
personaggio dal modello originale. Ma, questo, come è noto, è un compromesso
cui dovremo pazientemente sottostare fino all'avvento della Callas.
Singolare l'assenza di Gigli dal primo cartellone del
costituito Ente Pubblico. Assenza che, i collezionisti di quelle « querelles »
che, da sempre, rendono ancor più suggestivo il mondo dell'opera, potranno
anche trovare motivata dalla presenza di Lauri Volpi allo spettacolo
inaugurale. Da ricordare fra gli avvenimenti del '28 le recite di MIGUEL FLETA
nella Lucia.
BENIAMINO GIGLI appare nel successivo cartellone del
l'Ente (29/30) nella Marta di Flotow accanto a MAFALDA FAVERO. Da recuperare
per la Storia, da questo cartellone, il ritorno di SCHIPA nell'Elisir d'amore,
NAZARENO DE ANGELIS protagonista del Mefistofele, GIANNINA ARANGI LOMBARDI,
PERTILE, MONTESANTO e la CASAZZA nel Ballo in maschera, EVA TURNER, per la
prima e unica volta a Roma, quale protagonista dell'Isabeau, il ritorno del
Trovatore con Lauri Volpi e con la Scacciati e la Arangi Lombardi che s'alternano
nel ruolo di Leonora, il Guglielmo Tell con Lauri Volpi, Franci e la Arangi
Lombardi.
Nella Stagione 30-31 troviamo la PAMPANINI e Pertile
nella Manon Lescaut, la Arangi Lombardi e Stabile nella Dannazione di Faust di
Berlioz, sempre la Arangi Lombardi (Contessa) la Saraceni, la Pederzini,
Stabile e Cirino in una edizione « all'italiana » de Le nozze di Figaro,
diretta da Marinuzzi. Torna lo Chénier con Pertile e GILDA DALLA RIZZA cantante
prediletta da Puccini e dalla Carelli e che mancava da Roma dal '25. In questa
stagione si insei definitivamente nel repertorio l’Adriana Lecouvrerur per merito
della suggestiva bellezza e del grande temperamento di Giuseppina Cobelli e
dell'antagonista Gianna Pederzini le quali « ad occhi chiusi » si contendono
Aureliano Pertile. Della stessa stagione è la « rentrée » di GABRIELLA
BESANZONI nella Carmen, opera della quale la cantante offriva una versione
assai suggestiva ma che aveva perso ogni attendibile aggancio col l'« opéra
comiper il disperato salvataggio de Le maschere, ultimo saggio que ». Sempre
nel '31 inutile dispiegamento di grandi voci dell'atrofizzata, ma ormai
santificata, vena creativa di Pietro Mascagni.
Nella stagione 31-32 troviamo, per la prima volta in un
ruolo di rilievo. MARIA CANIGLIA, Eva in un'edizione de I maestri cantori
diretta da Marinuzzi. È praticamente un debutto che ci fornisce indicazioni
precise sulla naturale fisionomia della voce della Caniglia, voce squisitamente
Ilirica, come confermeranno le sue più felici esecuzioni degli anni a venire e,
poi, precocemente avviatasi ad una graduale alterazione delle proprie
caratteristiche, per addentrarsi in un repertorio drammatico (segnatamente
quello verdiano) che porterà la cantante al sommo della popolarità locale, ma
che lascerà perplessi i cultori del vocalismo verdiano non viziati e dirottati
da quell'armamentario di disinvolture tecniche, di eccessi temperamentali, di
compiacenti adattamenti della tessitura prescritta che la Caniglia aveva
ereditato dal « mal gusto » verista, consegnandoli, financo, verso la fine
della propria carriera, al vocalismo della Norma. Tuttavia, quella della
Caniglia, fu una stagione lunga e felice che la vide assurgere al ruolo di «
first lady » del Teatro dell'Opera. Ruolo, per altro ch'essa largamente meritò
per la completezza e la bellezza dei mezzi, allorché ella seppe metterli al
servizio di ruoli ad essa più congeniali, come quelli di Tosca, Maddalena di
Coigny, di Santuzza, di Wally. Fu nello Chénier che la Caniglia cantò per
l'ultima volta a Roma il I settembre 1957.
Nel '32 torna Gilda Dalla Rizza per cantare la Francesca
da Rimini al fianco del giovane e già felicemente collaudato GALLIANO MASINI.
Poche settimane dopo la Dalla Rizza, quarantenne, si esibisce nella Traviata
(in una edizione nella quale subentreranno GINA CIGNA e MERCEDES CAPSIR).
Il '32 ci riserva un altro avvenimento: il ritorno di
ROSA RAISA nella Norma. La Raisa mancava da Roma dalla stagione 15-16 nel corso
della quale aveva cantato l'Aida e la Francesca da Rimini. Si trattò, dunque,
d'una « rentrée » in fine carriera; quando, cioè, solo a tratti la Raisa poté
riconfermare d'essere stata, come la « storicizza » Celletti, « uno dei
pochissimi soprano del secolo che abbia potuto affrontare il repertorio Falcon»
e quello drammatico verdiano con la facilità e l'opulenza di mezzi delle
cantanti della metà dell'ottocento. »

Il '32 ci elargisce anche una Fedora con la Cobelli e
Pertile e il ritorno del verdiano Macbeth diretto da Antonio Guarnieri, con
BENVENUTO FRANCI e BIANCA SCACCIA TI. Verso la fine del '32 troviamo Guarnieri
alle prese con la BESANZONI in una proposta dell'Orfeo di Gluck. Il '33 s'avvia
con una piccola polemica « in orbace » fra cond nitori e detrattori delle «
italiche » bellezze della Gioconda di Ponchielli. Il pubblico è tutto dalla
parte di Beniamino Gigli, Giannina Arangi Lombardi, Gianna Pederzini, e
Benvenuto Franci e Giacomo Vaghi. In un Barbiere di Siviglia del '33 ci
imbattiamo nella superlativa eleganza vocale e scenica di CARLO GALEFFI, in una
Rosina meno leziosa del consueto, Mercedes Capsir, nella forbita grazia tantino
troppo sul rigo che, pure, farà la fortuna di SALVATORE BACCALONI, una volta
insediatosi al Metropolitan. Nello stesso anno Galeffi conferma nel Rigoletto e
nel Simon Boccanegra la sua eccezionale categoria di cantante-attore fra i più
rappresentativi del nostro tempo. Sempre nel '33, dopo le prove già felicissime
offerte nel re Borgia dà conferma d'una sapienza di canto fuori dall'ordinario
e pare quasi riesca e precorrere i tempi della attuale felice restaurazione
donizettiana: il tempo della Callas, di LEYLA GENCER (che dalla stessa
Arangi Lombardi attingerà i segreti di una alta scuola) della CABALLÈ. Accanto
alla Arangi Lombardi, figura, nel ruolo di Gennaro, il nome di Gigli. Beniamino
Gigli, che nelle due prime stagioni dell'Ente s'era « concesso » con parsimonia,
nella stagione 33-34 fa la sua grande « rentrée » e si esibisce, ancora, nello
Chénier, nella Manon di Massenet (sarà al fianco di una Manon che non tarderà a
diventare proverbiale: Mafalda Favero). È in questo periodo che ha virtualmente
inizio quella sorta di « mito» che legherà indissolubilmente il nome di Gigli
ai fasti del Teatro dell'Opera. Gigli che, giovanissimo, aveva cantato per la
prima volta a Roma nelle stagioni 16-18, non era più tornato all'Opera fino al
1930. Vi ritornava completamente allo scoperto ponendosi in diretta
competizione con l'arte sopraffina di Pertile, con l'acciaio dei mezzi e
l'accento scultoreo di Merli, con le finezze quasi immateriali di Schipa e,
soprattutto, con la personalità prepotente e bifronte di Lauri Volpi, il quale
conquisterà le platee con i mezzi più funambuleschi ma più ovvii di cui
disponeva, mandando, in parte, a farsi benedire proprio quella predicazione»
che l'ha portato, oggi, alle soglie della santificazione. Se, in effetti, le
vicende liriche romane verranno vivacizzate dagli scontri fra i partiti opposti
dei sostenitori di Volpi e quelli di Gigli, a livello di maturata presa di
coscienza del senso autentico e contrastante delle due « cause » abbracciate,
gli scontri non parvero alimentati da un preciso senso critico. E se da questi
« scontri » che i due illustri protagonisti nulla fecero per alimentare
(esattamente come accadrà trent'anni dopo per la Callas e la Tebaldi) Gigli ne
sortirà clamorosamente vincente, fu in gran parte perché la causa di Volpi fu
mal sostenuta; si fece vessillo provocatorio di un loggionismo dall'acuto e dal
sopracuto argentei, lancinanti, intermina epidermicamente vellicato, quasi
sessualmente lacerato, bili (non di rado cronometrati) ma sostanzialmente
insensibile a quel recupero del metodo di fonazione squisitamente ottocentesco
che Volpi andava propagandando. Nel Guglielmo Tell come nei Puritani, nel
Trovatore o nel Rigoletto quella di Volpi rimase una lezione eternamente
incompiuta nella quale la dignità del sublime cantore languorose, che,
compromettevano sensibilmente il rigore d'antico stampo, all'improvviso si
degradava in prolissità dell'intonazione, o in furibonde impennate
temperamentali che facevano tremare dalle fondamente il fragile edificio «
classicheggiante » che Volpi s'era prodigato ad erigere. Con il risultato
d'insieme che si poté dire di Volpi quel che Rossini disse di Wagner: «
Monsieur... a de beaux moments, mais de mauvais quarts d'heures aussi. «
Tuttavia i « beaux moments » di Lauri Volpi furono cosi folgoranti da restare
gemme isolate nella storia dell'Opera e in quella della vocalistica, e
risplendettero con l'indistruttibilità del diamante fino a quel febbraio del
'59 nel quale il grande tenore cantò, per l'ultima volta, a Roma. Allo
splendore delle « gemme isolate » Gigli contrapponeva la continuità della «
tenuta » che non lo vide mai emergere, a livello storico, su posizioni di
rottura, né mai sottostare alla decantazione del mal gusto imperante; semmai
facendosi, di questo, un mediatore catalizzante, destinato a convogliare
l'entusiasmomento, il fanatismo ad un certo modiseducazione radicale. In realtà
l'organizzazione vocale delle masse, senza operare una di Gigli era talmente
perfetta da concedergli, con l'impiego della pura tecnica, straordinari effetti
temperamentali che, privi di ogni meccanico artificio, sgorgavano con una
semplicità franca e immediata, illuminavano il momento musicale e drammatico
con una « verità » che fu frutto più di istinto che di meditazione. Gigli, in
definitiva, adulò il pubblico ma non lo involgarì; in una certa misura
determinò, sottolineò la « datazione » di un certo gusto interpretativo ma lo «
storicizzò », anche, proponendocene una versione costantemente sorvegliata dai
rigori del metodo. E fu la ineccepibilità del metodo che concesse anche a Gigli
di prodigarsi, sulle scene dell'Opera, fino al 1953, anno in cui cantò nella
Fedora, a pochi giorni di distanza, da una acclamatissima interpretazione della
Manon di Massenet.
Nella competizione fra Gigli e Lauri Volpi si inserirono
(e non di rado con pronunciamenti più autorevoli, anche se meno appariscenti)
TITO SCHIPA ed AURELIANO PERTILE, il primo con la tipicità d'un colore, d'un
metodo, d'una essenzialità interpretativa che gli lasciano un posto isolato
nella vocalistica del nostro secolo, il secondo per quel fascino impagabile che
è la suprema conquista delle voci « non belle » e, come tali, non handicappate
da quella prodigalità della natura che, spesso, atrofizza il gusto della
ricerca, della risoluzione inedita, di quella vittoria dello spirito sulla
materia che é la derivante d'un travaglio emozionantissimo.
Nel seguire cronologicamente la « presenza» delle grandi
Voci in cinquant'anni di Storia del Teatro dell'Opera, ci imbattiamo nella
unica e fugace apparizione di LILY PONS la quale, alla vigilia del suo
ufficiale inserimento fra i « big » del Metropolitan, tiene la sera del 10
giugno del '33, un concerto, nel quale le sono accanto GIUSEPPE DE LUCA ed EZIO
PINZA. Anche Ezio Pinza, che aveva cantato a Roma nel '20 e nel '21, diverrà
uno dei dominatori delle scene nuovayorkesi e tornerà a Roma, nel '36, per cantarvi
il Mefistofele e L'amore dei tre re. Di ben altro rilievo l'incidenza dell'arte
grandissima di De Luca nelle vicende dell'Opera, teatro nel quale cantò per la
prima volta nel 1906; l'ultima, ben quarant'anni dopo: nel 1945 in una
indimenticabile recità del Don Pasquale con Schipa, Tajo e l'astro nascente di
Alda Noni. Dopo il concerto straordinario del '33 De Luca tornò all'Opera fra
il '36 e il '37 per sostenere il ruolo di Napoleone nella Madame Sans-Gêne di
Giordano e per una recita straordinaria del Rigoletto.
Fra i baritoni che ebbero ampia circolazione e meritata
fortuna, in quegli anni, sulle scene dell'Opera figura il nome di BENVENUTO
FRANCI che profuse i suoi mezzi, eccezionalmente doviziosi, in quasi tutto il
repertorio verdiano e verista ed esibì la propria versatilità di interprete
passando dal gioco variatissimo del Gianni Schicchi ai « classici » rigori
dell'Orfeo monteverdiano. La presenza di Franci all'Opera abbraccia un arco che
va dal 1917 al 1952.
In quegli anni, fra il '30 ed il '66, si consolidano
anche le posizioni di due grandi mezzosoprano: EBE STIGNANI e GIANNA PEDERZINI.
La prima si impone per il rigore di una tecnica inflessibile, per una bellezza
e completezza di mezzi tali da prendere il sopravvento totale sull'agnosticismo
dell'interprete che, in Donizetti come in Bellini, in Verdi come in Rossini
restituisce posizioni primarie alla ineccepibilità del metodo e dello stile; la
seconda vincente, in partenza, per un fascino fisico ed uno scavo di interprete
che la resero la più convincente Carmen di quegli anni. (primato che la
Pederzini detenne fino agli inizi degli anni '50). La Carmen della Pederzini fu
un capolavoro di istinto e, insieme, di misura; qualità che unite alla «
tipicità » dei mezzi, fascinosi, ma non esorbitanti, spinsero l'intelligente
interprete ad avvicinarsi, più d'altre mai, al « modello » originale sopranile.
Per le stesse ragioni la Pederzini fu un perfetto « Falcon » nella sua nobile
Charlotte nel Werther (ruolo che ella sostenne al fianco di Schipa fino agli
anni '50), in quel periodo la Pederzini nel congedarsi dalle scene affidò alla
sua rara intelligenza di interprete ruoli spiccatamente caratterizzati ne La
dama di picche, nei Dialoghi delle Carmelitane di Poulenc e nel Medium di
Menotti. Si ricorderà, infine, che, nel 1941, la Pederzini, fu la prima a
restituire il ruolo di Rosina, nel Barbiere, al registro originale di «
contralto d'agilità ».
Nel '35 registriamo per la prima in Italia nell'Arianna a
Nasso di Richard Strauss la presenza di tre celebrati cantanti tedeschi quali
ANNY KONEZNY, ADELE KERN e CHARLES KULLMANN. Nel '37 il tenore francese JOSÉ
LUCCIONI canta nella Carmen, Gilda Dalla Rizza appare per l'ultima volta nel
Piccolo Marat, LICIA ALBANESE canta nell'Africana e nell'Amico Fritz. Nel '38
trionfa nel Mefistofele Nazareno De Angelis, per riproporre, poi, la propria
sontuosa voce di basso in una edizione in lingua italiana della Tetralogia
wagneriana diretta da Serafin. A questa edizione prende parte il più
accreditato tenore wagneriano di quegli anni: FIORENZO TASSO, specialista anche
del repertorio pizzettiano. Ancora nello stesso anno la magnifica affermazione
di Gina Cigna quale protagonista della « prima » all'Opera dell'Alceste di
Gluck. Alla fine di quell'anno TITO GOBBI fa il suo debutto nel ruolo di Lelio
ne Le donne curiose di Zandonai. Dopo un inizio, per forza di cose, un tantino
in sordina, Gobbi entrerà a far parte del numero di cantanti prediletti dal
pubblico romano per un insieme inscindibile di caratteristiche scenico-vocali
che nella loro originalità ranno ad esami elettroscopici troppo puntigliosi
(per non si prestequanto concerne il disinvolto metodo di fonazione) e faranno
di Gobbi uno dei più grandi cantanti-attori del nostro tempo accostabile, per
certi aspetti, solo a Mariano Stabile del quale, purtroppo, mancherà a Gobbi,
dotato di voce più robusta e legnosa, la morbidezza dell'emissione che consentì
a Stabile nell'arco di una carriera che raggiungerà il mezzo secolo e variate
le sue interpretazioni. Da Stabile Gobbi eredita di rendere ancor più sottili
anche la triade delle interpretazioni fondamentali: Falstaff, Jago nell'Otello
e Scarpia nella Tosca. Tuttavia mezzi più doviziosi permisero a Gobbi di
spaziare più largamente nel repertorio verdiano e in quello verista.
Se, in quegli anni, Gobbi si pone alacremente sul
tracciato di Stabile, GINO BECHI ci offre una sorta di gigantografia dei
difetti di Gobbi; difetti dapprima non avvertibili perché oscurati dalle
riserve giovanili di una voce estremamente estesa ed ampia negli armonici;
tuttavia, in seguito, la meccanica dilatazione dei suoni e tutta una serie di
espedienti atti a forzarne gli effetti affrettarono il declino del cantante.
Cantante che pur godette d'un periodo di popolarità strepitosa dal '40
all'immediato dopoguerra e che nei suoi momenti migliori seppe disegnare un
drammatico Rigoletto ed un suggestivo Nabucco. Lontano da ogni lezione
rossiniana il suo, pur applauditissimo, Figaro nel Barbiere.
Nel periodo in cui tutti i grandi cantanti erano « di
casa » all'Opera di Roma, ci limiteremo a segnalare gli avvenimenti più « isolati
», relegando per forza di cose nella « routine » presenze pur insigni e
ciascuna meritevole d'una segnalazione a parte.
Nel '38 canta per l'unica volta a Roma VIORICA URSULEAC
in un'edizione in lingua italiana de La donna senza ombra di Richard Strauss.
Fra i grandi « di casa » appare, poi, nel '40, un grande baritono ungherese:
SANDOR SVED, protagonista di un'edizione del Guglielmo Tell, con MAZAROFF
(Arnoldo) e nel cui « cast » figuravano, in ruoli comprimari, due baritoni
destinati ad inserirsi a lettere maiuscole nei successivi capitoli di Storia
del nostro teatro: GIUSEPPE TADDEI e PAOLO SILVERI.
Siamo così giunti agli anni della « guerra ».
L'innaturale amplesso italo-tedesco, avrà fra i rarissimi risvolti positivi
quello di offrire al Teatro dell'Opera l'opportunità di ospitare grandi
complessi e famosi cantanti tedeschi. Nel gennaio del '39 Victor De Sabata
presenta il Tristano e Isotta per la prima volta a Roma in lingua originale.
Tristano é MAX LORENZ, ormai storicizzato come uno dei più grandi interpreti
wagneriani del secolo. Meno blasonata I'Isotta di GERTRUD RÜNGER, famosissimi
gli altri interpreti: Margarete Klose, Paul Schöffler e Ludwig Weber. Nel '39
tornerà anche la Tetralogia, ancora in lingua italiana, ma con la
partecipazione della DE NEMETHY nel ruolo di Brunilde. Un'altra celebre
cantante tedesca, ANNY HELM SBISA, sarà Elektra nel '40. È dello stesso anno il
debutto di MAGDA OLIVERO nell'Adriana Lecouvreur. Cantante fra le più complete,
fascinose e suggestive del nostro tempo, la Olivero dopo l'exploit iniziale
interromperà, per vicende personali, la propria carriera, riprendendola nel
dopoguerra, periodo nel quale nascerà una seconda primavera che vedrà la grande
cantante consegnata a sempre più spiccate e inimitabili attitudini d'in
terprete. Ma di questo secondo periodo, per circostanze puramente incidentali,
il Teatro dell'Opera se ne avvantaggerà ben poco. Resteranno, tuttavia,
memorabili le interpretazioni che la Olivero offrì nella Tosca e nella
Fanciulla del West.
Sempre nel '40 tornano Francesco Merli e Stabile
interpreti insuperabili dell'Otello. Accanto ad essi l'arte finissima di
Gabriella Gatti. Quest'ultima sarà, nello stesso anno, una Norma di grande
eleganza stilistica ma di irrilevante incidenza tragica.
In questo periodo ogni « cast » ci propone nomi che
meriterebbero un « commento » cui solo lo spazio limitato a nostra disposizione
ci impone di sottrarci; nomi gloriosi come quelli di MALIPIERO e della NICOLAI,
di BORGIOLI e della OLTRABELLA, di TAGLIABUE e della SOMIGLI, di PASERADETTI. È
di quel periodo anche rimarchevole ma fugace RO e di MASCHERINI, della MAGNONI
e della ADAMI CORRADETTI. E di quel periodoanche rimarchevole ma fugace fortuna
del tenore GIUSEPPE LUGO. Più duratura, perché meglio consegnata a squisiti
valori musicali e belcantistici, la fortuna, grandissima, di FERRUCCIO
TAGLIAVINI, che ad un certo punto eguagliare l'intensità di consensi e di
popolarità raggiunte da un Gigli e da uno Schipa. Modelli dei quali, in
effetti, Tagliavini ricalcava la lezione preziosa adattandola alla propria
spiccata personalità.
Nel '41 una tournée dei complessi della « Staatsoper » di
Berlino diretti da Heger, da Schüler e dal giovane von Karayan ci offre la
preziosa opportunità di ascoltare all'Opera la KLOSE e MARIA CEBOTARI
nell'Orfeo di Gluck; la FUCHS, VÖLKER e PROHASKA nel Fidelio; HELGE ROSWÄNGE ed
ERNA BERGER nel Ratto dal serraglio; ancora la Cebotari Sofia nel Cavaliere
della rosa, MAX LORENZ, MARIA MÜLLER e BOCKELMANN nei Maestri cantori. Nel '42
viene festeggiata la Lucia di MARGHERITA CAROSIO, cantante che, più degli illustri
lirico-leggeri che l'avevano preceduta, si rivela incline a sottolineare certi
obliterati valori espressivi sia pure in una chiave intimista ancora lontana
dalla aulicità del declamato primo-ottocento. Analogo esperimento la Carosio lo
ripeterà nei Puritani godendo di una temperie critica ancora insensibile a
certe diversificazioni stilistiche. Alla Carosio rimane comunque il merito di
aver sciolto l'algida meccanicità del soprano di coloratura che ancora imperava
in quegli anni nel repertorio ottocentesco. La Carosio parteciperà anche, nel
ruolo di Armidoro, alla prima ripresa nel secolo delle Cecchina di Piccinni
della quale fu protagonista PIA TASSINARI. Fra gli eventi rimarchevoli del '42
il debutto di GIANNA PEDERZINI ne l'Italiana in Algeri, interpretazione con la
quale l'intelligente e duttile cantante ci fornirà una prima « profezia » di
autentico vocalismo rossiniano. Ancora nel '42 Tito Gobbi ci offre una decisiva
testimonianza della sua superiore intelligenza di interprete assumendo il ruolo
di protagonista nella prima italiana del Wozzeck di Berg.
Nel '43 MARGARET GRANDI è Ottavia nell'Incoronazione di
Poppea e GIULIETTA SIMIONATO canta per la prima volta all'Opera, sostenendo il
ruolo di Puck nell'Oberon di Weber. Nelle stagioni successive la Simionato
assumerà gradatamente i ruoli, la dignità e la fama che le competono,
imponendosi, poi, definitivamente come uno dei più grandi mezzosoprano del
secolo, in amichevole competizione con FEDORA BARBIERI la quale, pur essendo
cantante di doviziosi mezzi e di marcato temperamento, all'Opera, darà il
meglio di se stessa proprio in ruoli di sorvegliata e classicheggiante
vocalità: Neris nella Medea e Cornelia nel Giulio Cesare di Haendel. Fra i
grandi mezzosoprano ricorderemo anche CLOE ELMO che, fra le tante ammirate
prestazioni, nel '43 impose una rimarchevole Amneris in un'Aida diretta da De
Sabata.
Nel '43 cantò per la prima volta nella Traviata RINA
GIGLI sulla quale pesò negativamente l'affettuoso ma pesante fardello «paterno»
che fini col precluderle spazi di autonoma affermazione; spazi che spettavano
di diritto ad una cantatrice raffinatissima quale fu la Gigli alla quale, oggi
più che ieri, riconosciamo il fascino impagabile e modernissimo d'uno di quei
timbri « strani » e «misteriosi» che solo le generazioni successive avrebbero
apprezzato in pieno. In una Tosca del '44 compare per la prima volta il nome di
ADRIANA GUERRINI esponente fra le più ragguardevoli di una nuova leva che,
nell'immediato dopoguerra creerà le nuove strutture portanti del Teatro,
avvicendandosi, alle ultime prestazioni samente impeccabili, ora pateticamente
declinanti di ora prodigio quei « big » che avevano trionfato nel ventennio che
abbiamo tentato di sintetizzare. Fra queste « nuove leve » spiccheranno i nomi
di ONELIA FINESCHI e di FRANCESCO ALBANESE, di LUIGI INFANTINO e di ANTONIO
ANNALORO, di MARIO BINCI e di FIORELLA CARMEN FORTI, di ROSANNA CARTERI e di
ELENA RIZZIERI, di ELISABETTA BARBATO e di MARIA PEDRINI di GIANGIACOMO GUELFI
e di MARIO PETRI, dello sfavillante non dimenticato FILIPPESCHI. In quel
periodo si fa strada la vocalità forbita e l'impagabile grazia scenica di ALDA
NONI che coglierà il suo momento di gloria allorché verrà ammirata da Richard
Strauss nel ruolo di Zerbinetta nell'Arianna a Nasso. Prima di passare
all'ultimo capitolo di questa cronistoria inevitabilmente frettolosa e non
priva di dimenticanze che le « vittime » (almeno quelle viventi), vorranno
perdonarci, ricorderemo che nel maggio del '46 cantò per l'unica volta a Roma a
ormai alla fine della propria carriera LAWRENCE TIBBETT, un grandissimo
baritono che per un lungo decennio aveva dominato le scene del Metropolitan. Il
dolente e nobilissimo canto di Tibbett, nel Rigoletto, fu sommerso dalle
polemiche per motivi di « bis » fra Lauri Volpi ed il direttore d'orchestra.
Ormai siamo alla vigilia di una nuova folgorante « svolta
»: uno alla volta, magnificamente giovani, entusiasti, esuberanti,
immediatamente catturati al sesto senso del grande pubblico, puntualmente
respinti dalla miopia dei critici, sì susseguiranno sulle scene dell'Opera, i
predestinati a diventare i miti del nostro tempo (TEBALDI, DI STEFANO, DEL
MONACO, CORELLI); accanto ed essi la artefice della « grande restaurazione »:
MARIA CALLAS. Nell'anno « di grazia » 1947 debuttano GIUSEPPE DI STEFANO, nella
Manon di Massenet, MARIO DEL MONACO nella Tosca e RENATA TEBALDI nell'Otello.
Pochi mesi dopo, nell'estate del 48, appare, per la prima volta, nella
Turandot, il nome « sconosciuto» di MARIA CALLAS. Franco Corelli debutterà più
tardi: nel '52, nella Giulietta e Romeo di Zandonai. Al '46 risale anche la
prima esibizione all'Opera di BORIS CHRISTOFF nel ruolo di Pimen, nel Boris
opera della quale il grande basso di origine bulgara diventerà, negli anni
successivi, per la tipicità dei mezzi vocali e la gestione sovrana del gioco
scenico e della introspezione psicologica, il più accreditato erede delle
glorie di Schaliapin. Di uguale intensità vocale ed espressiva sarà
l'interpretazione di Filippo II, nel Don Carlos, che Christoff proporrà al
pubblico romano.
Inizia, così, il ciclo delle grandi voci degli anni '50 e
'60. Aiutati dalla baldanza dei mezzi giovanili e della penetrazione a vasto
raggio del loro repertorio Di Stefano, Del Monaco e la Tebaldi non tarderanno a
divenire, a Roma come ovunque, i beniamini del pubblico. Più tiepidi alcuni « vati
» della critica votati alla fallace profezia. I « vati », riconoscono,
recalcitranti, la rara bellezza delle voci dei tre cantanti ma pronosticheranno
loro « breve durata ». In effetti i tre futuri « big » domineranno le scene per
il successivo ventennio e ogni loro apparizione sarà per il pubblico romano un
autentico avvenimento, anche nella fase inevitabilmente « declinante » delle
loro lussureggianti carriere. Superfluo ripercorrere le tappe di una «
escalation » ancora così vicina ai nostri ricordi. Meno agevole fu per Maria
Callas la conquista d'una popolarità assoluta, per motivi implicati al
repertorio della cantante. La Callas, infatti, dopo la Turandot, cantò,
all'Opera nel Tristano e Isotta e nel Parsifal. Della copiosità, della
ampiezza, delle risonanze arcane, delle variatissime tinte tragiche della voce
di Maria Callas — tanto per non infrangere le vecchie regole se ne avvidero,
con uno stupore quasi incredulo, più i dilettanti « illuminati » e la
cosiddetta « gente di cultura » che i rappresentanti « ufficiali » della
critica musicale. La popolarità autentica, il clima incandescente del teatro
delirante, s'ebbero allorché la Callas presentò quel biglietto da visita
personale (che s'è fatto oggi « lasciapassare » per l'Immortalità) esibendo
allo stato puro e senza preavviso di sorta l'ormai obliterato vocalismo
ottocentesco nella Lucia e nei Puritani (opera nella quale, accoppiandosi ad un
ancor sfavillante Lauri Volpi, la Callas propose tesori di tecnica e
d'espressività tragica). Il teatro, come si diceva una volta, « andò alle
stelle » anche se è dato supporre — colpito più dal funambulismo d'una voce che
spaziava liberamente su tre « ottave » che dal senso « storico » di una
restaurazione « che la totale mancanza di parametri valutativi rendeva
problematicamente identificabile. Del resto gli « storici » stessi,
storicizzarono con molto ritardo, con molta cautela e con una sostanziale
inadeguatezza alla portata del « fenomeno » che, per istinto genialissimo e
rigore inconsueto di studi, la Callas andava enucleando. Sì che s'avranno da
attendere i primi scritti di Eugenio Gara, di Fedele d'Amico, di Teodoro Celli
e del primo Celletti meglio versato alle sintesi, per avvertire un senso pieno
di consapevolezza, una visione finalmente comparata alla mitologia
ottocentesca, rigorosa nell'avvertimento filologico.
Ufficialmente « santificata » alla Scala, sulla scia
d'una fama che s'era ormai diffusa in tutto il mondo, la Callas tornò ancora
all'Opera con la sua leggendaria Medea. Fu un grande successo ma non fu,
probabilmente, quel trionfo che il « genio callassiano » meritava. In realtà
già fluttuava nell'aria, già si leggeva fra le righe di qualche dioscuro quel
tanto di « canagliesco », quel tanto di snobismo all'incontrario, di estrazione
vagamente provinciale, che, in quella successiva storica sera del 2 gennaio
1958, non offrì alla Callas quel devoto appoggio morale che consente ad un
grande artista di portare avanti una recita in precarie condizioni fisiche.
Dopo quella Norma interrotta la Callas non tornò più all'Opera. Ma il tempo, la
crescita consolatrice delle ultime generazioni, hanno fatto giustizia. Oggi,
all'Opera soprattutto nella immensa e pulsante « galleria » ogni sera, fra un
nuovo entusiasmo è una ennesima delusione, non si parla che di Lei.
Ma, tornando alla cronaca degli anni '50 e '60, se la
Callas e la Tebaldi, Di Stefano e Del Monaco, Corelli, e Christoff e Gobbi
monopolizzarono l'entusiasmo del pubblico, altri valori emersero, altri artisti
dotatissimi ottennero larga messe d'affetti e di plauso. S'andarono, così, mano
a mano imponendo l'adescante vocalismo verdiano di CATERINA MANCINI e di
ANTONIETTA STELLA, il vibrante temperamento di CLARA PETRELLA, la voce
splendente di GIANNI POGGI, l'arte raffinatissima di GIACINTO PRANDELLI, la trascendente
bellezza della POBBE, la breve stagione di FLORIANA CAVALLI, e quella
altrettanto fugace, di ANITA CERQUETTI. E s'impone, soprattutto, la fascinosa
vocalità di VIRGINIA ZEANI che gareggiò con la sfavillante, schietta, estasa,
educatissima voce di GIANNI RAIMONDI in una recita memorabile dei Puritani,
eccelse in una serie interminabile di interpretazioni della Traviata e diede la
misura esatta delle sue variatissime possibilità sostenendo i tre ruoli
femminili ne I racconti di Hoffmann, passando, così dalla piccante coloratura
di Olympia al melanconico e spettrale romanticismo di Antonia. In quella stessa
produzione dei racconti di Hoffmann anche NICOLA ROSSI lità d'espressione che
lo inseriscono, d'autorità, fra i LEMENI confermò quella nobiltà d'accenti,
quella versati « protagonisti » delle più recenti vicende del nostro teatro.
Sempre fra gli annali di quel periodo ritroviamo l’unica apparizione
a Roma, nel 57, della squisita VICTORIA DE LOS Sempre fra gli annali di quel
periodo ritroviamo l'unica ANGELES, nella Manon; ritroviamo BIRGIT NILSSON e
LEONIE RYSANEK, insieme, nella Walkiria, e protagoniste d'eccezione, la prima
del Fidelio, la seconda del Vascello fantasma; ritroviamo MARIA REINING, SENA
JURINAC & RITA STREICH nel Cavaliere della rosa; ritroviamo, ancora,
l'unica apparizione all'Opera di ELIZABETH SCHWARZKOPF (Donna Elvira nel Don
Giovanni); SUTHAUS, la GROB PRANDL, la RYSANEK, la CAVELTI, ERMANN e WEBER in
una straordinaria Tetralogia diretta da Erich Kleiber. E poi, ancora, la
Nilsson e WINDGASSEN nel Tristano.
Ci avviamo così verso l'ultimo periodo: il ventennio che
va dal '56 ad oggi; periodo caratterizzato da fasi alterne quanto alla felice e
illuminata gestione del « repertorio » e delle « voci » e da un moderato
allineamento del Teatro all'accaparramento dei grandi cantanti che sbocciano
all'orizzonte e rigogliosamente fioriscono. Il massiccio schieramento, il
rigore di scelte che concede spazi irrisori alla approssimazione e che sono
tipici del periodo che va dalla fondazione dell'Ente ai primi anni della guerra
si vanno facendo un po' un « paradiso perduto ». Tuttavia la presenza dei nomi
più rappresentativi non manca, semmai si lascia distinguere per un certo suo
carattere d'eccezionalità. Ed è così che accanto alla Tebaldi ed alla Stella, a
Del Monaco e a Di Stefano, all'ultima apparizione di un Corelli che si
dedicherà, poi, esclusivamente alla Scala ed al Metropolitan, approdano
all'Opera una RENATA SCOTTO che incanta nella Sonnambula; una COSSOTTO che,
dopo una timida apparizione nell'Adriana, trionfa poi nel Aida, nel Trovatore,
nella Favorita; appare ALFREDO KRAUS che nel Werther, nella Favorita e nel Don
Pasquale rinnova fasti che parevano perduti; appare CARLO BERGONZI che nel
Trovatore e nella Messa da Requiem di Verdi conferma la sua maestria impareggiabile;
appare, sfuggita, per una sola volta, la grande Aida di LEONTYNE PRICE. Si fa
anche, sporadicamente, qualche « scoperta » destinata ad avere, altrove, grande
rinomanza: GWEENETH JONES, per esempio, che sorprende nella Messa e trionfa
nell'Aida. E accanto a queste le giovani e generose voci di GIANFRANCO
CECCHELE, della ORLANDI MALASPINA; di di ZANASI, della SULIOTIS; le prime
esibizioni di NICOLAI GHIAUROV e RUGGERO RAIMONDI; di PIERO CAPPUCCILLI e
RENATO BRUSON, vale a dire dei due bassi e dei due baritoni, che, in seguito
domineranno il mercato. Accanto ad essi MIRELLA FRENI, che apparirà in tre
differenti « momenti » della sua carriera: da debuttante, nel ruolo di Liù, in
fase di sperimentazione, nei Puritani, e, ormai da « prima donna » della Scala,
nel Faust. E sarà la volta di Gianni Raimondi che rinnoverà i passati splendori
della sua prima apparizione nei Puritani dando il segno di una piena maturità
in una riesumazione dei Masnadieri che offri anche a ILVA LIGABUE l'occasione
di esibire la sua più l'Opera di Berlino, dell'Opera di Amburgo e di quella di
proporrà un Boris Christoff in forma ancora smagliante. Sempre in questo
periodo tre tournées dei complessi del Stoccarda ci offriranno l'occasione di
conoscere voci fatrionfale affermazione di LEYLA GENCER la quale, dopo
mosissime in Germania. Ed è di questo ultimo periodo la una ormai lontana
apparizione nel Don Giovanni, ci prosuo nome ed alla sua arte: Roberto
Devereux, Lucrezia pone quei « revivals » inestimabili strettamente legati al
Borgia, Alceste e, accanto a queste, la più penetrante versione del personaggio
di Lady, nel Macbeth, mai udita dopo quella della Callas. E della Callas la
Gencer rinnova, dapprima, certe perplessità per il timbro strano e misterioso
che essa esibisce per la non ortodossa convivenza di suoni diversi e suggeriti
puramente da urgenze drammatiche, quindi, la forza galvanizzante, la misura
impagabile di offrire una cifra interpretativa che annulla l'analisi del
particolare. Poi le serate indimenticabili dell'unica apparizione all'Opera di
MONTSERRAT CABALLÉ la quale, in autentico stato di grazia, con una
interpretazione stupefacente della Maria Stuarda associa alla pura bellezza dei
suoni una tecnica talmente prodigiosa (che cercherete invano di rivolgervi al
passato con nostalgia), una commozione di fraseggio essenziale e struggente. È
evento memorabile negli annali che abbiamo qui tentato di sintetizzare. Il
pubblico l'avverte sin dalla « generale » a conclusione della quale scoppierà
un tale tripudio d'acclamazioni che la Caballé sarà costretta a presentarsi
alla ribalta. L'episodio non ha precedenti nella storia del nostro Teatro. Ed è
una delle ultime occasioni per il nostro pubblico di annotare avvenimenti che
restano nitidi e isolati nel ricordo. Ma non mancheranno altre occasioni di
tripudio; ce le offriranno LUCIANO PAVAROTTI e Renata Scotto nei Lombardi;
TERESA BERGANZA nel Barbiere; CESARE SIEPI, GRACE BUMBRY e MARTINA ARROYO nel
Don Carlos, così come ce le aveva offerte RICHARD TUCKER nelle sue uniche
recite a Roma nella Manon Lescaut e nella Carmen. Poi il felice approdo a Roma
di KATYA RICCIARELLI nella Giovanna d'Arco di Verdi; quello di LUCIA VALENTINI
TERRANI nella Gazza ladra all'inizio di una rapida escalation› che vedrà la
giovane cantante imporsi a livello internazionale come la più prestigiosa
«belcantista » italiana in quel repertorio rossiniano nel quale rimarrà in
diretta competizione con la Berganza e Marylin Horne.
MARYLIN HORNE, appunto, l'ultimo nome che scriviamo a
caratteri d'oro in questo albo delle grandi voci che hanno reso,
discontinuamente « grande» la Storia del nostro Teatro: Marylin Horne che,
nella recente Storia dell'Opera della UTET, Celletti non esita a definire la
più grande cantante rossiniana del secolo e che, nel recente Tancredi, ce l'ha
ampiamente confermato anche se incalzata assai da vicino dal prezioso vocalismo
esibito dalla nostra MARGHERITA RINALDI.
Queste, dunque, le più appariscenti fra le grandi voci
che nel volgere di cinquant'anni hanno dato carattere e incisività alle
produzioni del Teatro dell'Opera; le voci che hanno edificato e viziato il
pubblico romano; le protagoniste » di serate indimenticabili di quelle che
dalla cronaca passano alla storia ed anche di quelli che Barilli, già un po' a
disagio sulla sua poltrona, definiva « successi raccapriccianti »