Dagli appunti di Leyla Gencer per il seminario di Trieste
Mi intimidisce partecipare a un Seminario, per di più di
grande tradizione. C'è anche quasi una contraddizione. Come interprete, in
teatro, di tante opere donizettiane, ho la certezza ogni volta di raggiungere
la verità del mio personaggio, e di trasmetterla al pubblico. Adesso, che mi
chiamate proprio in nome di questo senso di verità, dovendoci riflettere sopra,
lo metto in discussione: sento la relatività delle mie interpretazioni, forse
oggi le cambierei in qualche modo. Lo sdoppiamento è difficile.
In ogni caso sono fermamente convinta dei miei principi:
per Donizetti in particolare. Primi fra tutti: fedeltà a ciò che è scritto;
ricerca del valore psicologico, poetico e drammatico del personaggio attraverso
la vocalità; conoscenza approfondita delle convenzioni linguistiche dell'opera
ottocente sca italiana; studio accanito del linguaggio specifico dell'autore e
dell'uso differenziato che egli ne fa.
Vorrei portare un contributo di parole e di esempi
musicali su un argomento popolare e su cui pure mi sembra ci sia una certa
confusione: le Regine. Ne esamino tre inglesi (in quel tempo si diffondevano i
romanzi di Walter Scott - Donizetti ambientò altre opere in Inghilterra, come
Il Castello di Kenilworth e Rosmonda- tutte opere di corte, con congiure,
personaggi infidi, ingiustizie, grande protagonista femminile...). - Sono tre
regine recuperate dalla Donizetti renaissance: Anna Bolena, Maria Stuarda,
Elisabetta nel Roberto Devereux. (La prima ebbe la sua consacrazione nel '57
nella famosa edizione Gavazzeni-Visconti alla Scala, inizio ufficiale del
revival donizettiano attuale. - Imparai la parte come doppio della Callas, poi
l'opera divenne mia nell'edizione RAI '58 e in edizioni successive – Stuarda ed
Elisabetta sono legate alla mia consacrazione donizettiana: creature mie, dopo
d'allora tornate in repertorio).
C'è un pregiudizio: che il linguaggio di Donizetti, per
fretta e per natura, sia generico, ripetitivo: mestiere, talento, routine il «Donizetti
inglese» sarebbe un genere le Regine si rassomiglierebbero fino a
confondersi...
Per lettori e ascoltatori più frettolosi certo che
Donizetti stesso, si può trattare di distrazione, di gusto del paradosso... Per
noi interpreti, però, è un vero rischio, che siamo noi a farlo diventare
generico! Ciò può accadere perché si è noiosi di natura, e allora non c'è
niente da fare, ma più spesso perché 1) si ha poca fiducia nel genio di
Donizetti; 2) si crede che la convenzione dell'opera ottocentesca sia non un
punto di partenza ma una formula immobile; 3) si crede che la vocalità sia un
valore astratto assoluto, senza rapporto con quanto volta per volta può
significare.
Ma il linguaggio donizettiano, la grammatica vocale che
l'interprete deve possedere, si piega ad esprimere intenzioni diverse che vanno
cercate. A saperle leggere » è già tutto scritto nello spartito. Bisogna
ricordare che Donizetti vive in un momento di romanticismo ormai progredito,
vuole legare strettamente la vocalità al dramma, alla conquista di una
teatralità più moderna (più moderna rispetto al primo Ottocento, ma anche nel
senso di congeniale a noi... - meno risolta di quella drammaturgicamente
irraggiungibile di Verdi, ma anche meno bloccata...) C'è evoluzione continua di
strutture, di linguaggio, di vocalità....
- È fondamentale per questo il rapporto con la parola:
l'importanza che assume il recitativo il valore delle pause la coloratura in
funzione espressiva (l'ornamentazione è scritta, non lasciata più all'arbitrio
dei vocalisti) la parola come guida alla psicologia del personaggio. -
Fondamenta li, e collegati, anche altri aspetti, a cominciare dal rapporto
personaggio-ambiente...
Nelle tre opere le tre Regine sono tre personaggi
diversissimi: ciascuno con una sua psicologia coerente fin dall'inizio, un suo
modo d'esprimersi, una propria parabola drammatica. nizetti ne legge i
differenti caratteri con grande modernità.
Non basterebbe questa sera e questa notte per
ragionarne... – Qualche evidenza però si riesce già a cogliere attraverso il
confronto dei tre ingressi e dei tre finali.
Anna Bolena (1830.
Argomento: regina d'Inghilterra, giovanissima, moglie d'Enrico VIII, accusata
di tradimenti: nell'opera, intrigo amoroso con il primo fidanzato Percy, cui il
Re finge di credere viene fatta giustiziare dal Parlamento, per volontà del Re,
invaghito di Giovanna Seymour).
Dall'inizio dell'opera, con frasi lunghe e tortuose, si
respira clima cupo di corte, d'intrighi, sospetti, ingiustizia legalizzata.
Per quest'opera, come per le altre duedi cui parliamo,
l'entrata della protagonista avviene con lo schema recitativo/cavatina/cabaletta:
in ciascuna assume caratteri diversi.
Il recitativo inizia con le parole Si taciturna e mesta
mai non vidi assemblea. Bisogna che l'interprete sappia che dall'inizio si
gioca il personaggio, nel colore, nell'accento... Le entrate in recitativo
equivalgono alle entrate d'un'attrice in teatro, non sono parti minori da
sbrigare cantilenando, tanto meno pensando che quel che conta sarà l'aria va
conosciuta (anche dai direttori d'orchestra!) la convenzione dell'opera
romantica, per cui il recitativo é sempre scritto in 4/4, non per indicare una
rigida misura, ma come riferimento di un fraseggio libero, arricchito da
indicazioni dell'autore. - Già negli accordi dell'ingresso c'è la regalità del
personaggio e la malinconia indifesa di questa regina, presaga del proprio
destino (la Callas aveva il colore brunito che rendeva questa malinconia più
evidente; impressionava subito, anche con la figura scenica regale la mia
Bolena ha una vocalità più chiara: l'avevo pensata cosi per la RAI 1958, con
Gavazzeni; giovanissima, adolescente).
La cavatina Come, innocente giovane, non è un'aria
d'effetto: è un discorso. fatto a sé stessa, piano. È uno degli importantissimi
e tipici a parte donizettiani: che hanno un loro colore tipico, come sono
tipici a loro modo. quelli di Corneille o di Goldoni. Dice la malinconica
innocenza perduta, per colpa della sua ambizione che le ha fatto scegliere il
Re; continua il presagio; va messo in evidenza l'accenno al primo amore, che
torna sempre nella sua coscienza, utile alle macchinazioni di Enrico VIII che
l'accusa di adulterio, e sa leggere nella psicologia altrui, sfruttandone le
debolezze. -II canto spianato si salda al canto fiorito: gli abbellimenti, i
gruppetti sono di espressione, non sciorinamento di note per acrobazie vocali:
ad esempio sulla parola il core, si potrà scivolare sulla voce
malinconicamente, come uno. scorrere di pianto...
Il ritratto-confessione si dipana nella cabaletta Non
v'ha sguardo (il taglio operato da Gavazzeni sottolinea con evidenza la
continuità): è lo sfociare dell'espressione. È importante dare esatta
interpretazione ai segni di rinforzando scritti sullo spartito: sono segnali al
cantante, appoggi, accentuazioni, non accenti intesi come colpi improvvisi:
esprimono un fremito di stato d'animo. Raggiunta la coscienza del personaggio
attraverso le prime maggiori evidenze, gli altri segni diventano eloquenti,
naturali, coerenti.
Maria Stuarda (1834.
Argomento: bellissima, affascinante Regina di Scozia, cattolica. Era stata
brevemente anche Regina di Francia. Secondo il mondo. cattolico era erede anche
del trono. d'Inghilterra, per cui ci furono molti intrighi; per questa ragione
fu accusata e giustiziata da Elisabetta cugina e che per tutta la vita ha avuto
gelosia per il fascino di Stuarda. Rimase 20 anni in prigione, secondo Schiller
- e Donizetti a Forteringa dove avviene l'incontro delle due Regine, che storicamente
non s'incontrarono mai).
Recitativo Rallenta il piè, Regina.
-E che? Non ami che ad insolita gioia...
Quest'ingresso già dall'inizio in orchetra dà senso di
apertura, di libertà. C'è la situazione e c'è il personaggio da presentare, in
questo primo uscire all'aria dopo tanto tempo, lasciando libere le reazioni
dell'animo. È fondamentale il colore, molto diverso da Bolena e da Devereux:
più luminoso, più speranzoso, più vitale perché que sto senso di libertà, di
aria, di profumi sono legati al senso della vita (ed è anche la natura
romantica specchio del personaggio, sono parole della tradizione letteraria dal
Settecento fino al Foscolo...). Dopo anni di prigionia non è rassegnata, pensa
ancora di poter vincere la partita.
Non c'è tristezza (come in Bolena). Non c'è sete di
potere (come in Elisabetta dove ogni frase è scolpita). C'è questo riaprirsi
alla vita in modo fascinoso, femminile. L'emozione della libertà la fa tornare
alla sua adolescenza felice in Francia dove fu educata (era personaggio
coltissimo, parlava sei lingue, scriveva in latino, compose poesie, Ronsard
scrisse di lei...) e crebbe in amicizia al Re che fu poi suo sposo. C'è il
personaggio complesso (anche maturo come vedremo poi, aveva 45 anni quando
mori, cioè al tempo di questi avvenimenti) che si presenta col fascino di
queste reazioni allo scoperto. La Stuarda è sempre avvolta in quest'aura di
femminilità. Cavatina: O nube, che lieve... È un moto completamente diverso da
quello di Anna Bolena: anche se c'è un richiamo al paese ove fu educata e
quindi un richiamo al passato, si esplica diretto, spontaneo, quasi uscendo di
sè per inseguire il volo d'una nube. Occorre cercare la voce più leggiadra
possibile, non si può cantare una nube che passa con faccia truce. C'è
movimento, andare di immagini e pensieri, un aspetto di cedevolezza che fa
parte della femminilità del personaggio e convive con la statura regale,
religiosa e alla fine eroica. (Cantandola ho sempre avvertito una parentela con
Tu, che le vanità da Don Carlos, che pure si apre con un'invocazione solenne
alla Bossuet: saranno le rimembranze di fiori, fontane, Schiller, la natura, la
Francia... Tutte cose che riflettendo vengono a coincidere: cantando, comunque,
mi veniva istintivo di cercare nelle due arie un comune e particolare incantato
colore di rimembranza).
Roberto Devereux (1837. Argomento: Roberto Devereux, favorito della già anziana Regina,
cade in disgrazia per fallita missione in Irlanda e'per sospetto di infedeltà
sentimentale. La colpevole è Sara, damaconfidente della Regina, sposa al Duca
di Nottingham, suo ministro. Per vendicarsi Elisabetta condanna Roberto a
morte; se ne pente, ma troppo tardi)..
Domina nell'opera il ritratto di Elisabetta: grande
Regina e personaggio tormentato. Dice uno storico che le indecisioni l'hanno
fatta grande. «Prender tempo» era il suo motto, ed era la strategia perfetta
per la politica inglese nel mondo ai suoi tempi, il segreto del suo successo.
Indecisione, sospettosità sono l'aspetto della sua personalità che viene
dall'infanzia ed adolescenza tormentata di questa figlia di Enrico VIII e di
Anna Bolena, sempre in pericolo, minacciata e che perciò ha imparato a
difendersi con furbizia, scaltrezza, sospettosa di tutti, prontissima a
captare. Sospettosa e traumatizzata anche con gli uomini. Recitativo Duchessa,
alle fervide preci...
Dai primi accordi di presentazione Elisabetta la Grande è
introdotta nella sua imponenza regale. C'è il senso della Corte inglese nel suo
massimo splendore che Donizetti ha sentito e reso in musica: eco delle musiche
solenni, pompose da cerimonia in usonelle Corti. Elisabetta entra dal fondo
palcoscenico, in magna pompa, coil suoi paggi. È un macigno.
Col colore di grande autorità, di comando: tutto è
scandito poiché quello che dice è legge. Accetta di ricevere Devereux dopo il
fallimento d'Irlanda, ma c'è interno dubbio, senso di inchiesta sulla sua
fedeltà. Fa le sue confidenze a Sara, ma sempre da Regina. Pur essendo molto
legata al Devereux lo condannerà a morte; è un nodo freudiano, grandioso: si
vendica dell'uomo, quasi per vendicarsi della condanna di sua madre... (Quando
studio le mie opere ho l'abitudine di leggere tutto quello che si può sull'argomento,
perché mi serve per l'interpretazione. Se qualche volta esagero sta al regista
e direttore d'orchestra correggermi). Naturalmente, cavatina e cabaletta sono
determinate da questo recitativo scultoreo e denso di tensione.
In tutto il comportamento di Elisabetta, si manifestano
stati d'animo recisi e contrastanti: la collera regale (allora i gruppi di note
diventano come staffilate: accento, violenza, nitidezza: Un perfido, un vile,
un traditor...) e tenerissimo ricordo doloroso (negli incontri con l'amato:
Alma infida, ingrato core...); mentre un'aura di grandiosità passa dal
personaggio al Coro, all'orchestra.
Anche i Finali delle tre opere, imperniati sulla
protagonista, si svolgono. nella formula, adattata con molta libertà,
recitativo/aria/cabaletta. La cabaletta non è però rapida, ornamentale, come
un'eredità dell'aria di bravura. È invece solenne: non per nulla spesso nelle
cabalette finali delle sue opere Donizetti scrive l'indicazione « Maestoso ».
La ripetizione della cabaletta chiede minime variazioni e vi partecipa il Coro
(Coro romantico: lezione della tragedia greca, filtrata attraverso Mayr...).
Anna Bolena. Si conclude
con una scena di pazzia, abbastanza ricorrente in Donizetti (il modulo della
pazzia arriva dalla commedia dell'Arte tramite il famoso delirio di Ermengarda
ripudiata, che muore perdonando, nell'Adelchisi addice alla nuova esuberanza
sentimentale, oltre che tragica, delle prime donne dell'epoca romantica).
Recitativo Piangete voi? D'onde tal pianto?. È preceduto
da un Coro di Ancelle stupendo, la Regina si rivolge a loro, in una scena di
delirio con cambiamenti continui fra semicoscienza e coscienza: idee che
passano e vanno a finire nel nulla, ricordi, rimembranze, incubi, attimi in cui
rivive le fasi della sua tragica vicenda con aperture di gioia e nostalgia di
fanciullezza, di innocenza che conflusicono nella famosa aria – Vuole voce adeguata:
forse eterea, quasi gia dell’aldila. – È necessario stare nel tempo, pur non
essendo rigorosamente nel tempo scandito. Bisogna dare gli spazi perché le
parole diventino vere: ad esempio È questo giorno di nozze... Il Re
m'aspetta... chiede di dare il tempo al pensiero/immagine: ecco perché la
psicologia è tutt'uno con la vocalità, ne è la guida. Ad esempio ancora, più
avanti, dopo il senso di colpa esploso. col ricordo di Percy, è necessario,
muovendo e agitando, far sentire il sovrapporsi nella fragile mente, delle due
persone, nell'ambivalenza del pensiero che vaga tra l'amato d'un tempo e il Re,
pure amato (Ei m'accusa... El mi sgrida... Mi perdona, mi perdona...) fino alla
dichiarazione di nuda infelicità, e all'invocazione Toglimi da questa miseria
estrema, tanto protesa che sembra ormai una preghiera a Dio.
Aria Al dolce guidami. Il colore del corno inglese
nell'introduzione in orchestra prepara il ritorno all'infanzia/adolescenza: nel
cuore della campagna inglese. Dopo l'angosciata confusione tra i due amori del
recitativo (e) della sua vita) si approda al senso di purificazione, di calma,
di protezione ritrovata, che porta a un tempo felice, nella memoria, e finisce
con un'invocazione al primo amore. Necessario non turbare l'intimità e la
linearità: risolvere con grande fantasia di colori all'interno della vocalità
specifica. (Quando ho cantato Anna Bolena al festival di Glyndebourne visitai
il castello nel Surrey dove ella nacque e visse la sua adolescenza, dove
incontrò la prima volta Enrico VIII, e dove adesso i ritratti di Holbein
ricordano gli avvenimenti. Ho ritrovato, nel clima esatto, il castello, i
platani, il rio...).
Cabaletta Coppia iniqua. Anna vi arriva dopo una scena
variamente articolata. È un finale molto scandito, con colori cupi: vocalità di
forza del soprano drammatico di agilità donizettiano effetto di bruschi slanci
verso gli acuti, seguiti da ripiegamenti nella zona centrale o grave. Sembra
un'invettiva, ma è una denuncia e condanna, lanciata perdonando con forza e
superiorità (cioè: io non sono un'adultera, gli adulteri siete voi, coppia
iniqua; non mi voglio vendicare di voi, per il vostro delitto, e vado al
cospetto di Dio perdonando). È un perdono protestante, con scatto di coliera
regale.
Maria Stuarda. Molto diversa
l'atmosfera: la Regina è consapevole, e domina regalmente anche i suoi
sentimenti e le sue paure in piena femminilità. La le fasi della sua tragica
vicenda con struttura è simile a quella di Anna aperture di gioia e nostalgia
di fanciul Bolena, inizia con il Coro di Ancelle lezza, di innocenza che
confluiscono che la portano a morte (anche qui nella famosa aria. Vuole voce
adeanalogie con Adelchi e però anche con guata; forse eterea, quasi già
dell'aldi i cinque episodi della Cantata Lamenlà. E necessario stare nel tempo,
pur to e morte di Maria Stuarda di Carisnon essendo rigorosamente nel tempo
simi: i luoghi della teatralità barocca scandito. Bisogna dare gli spazi che
fluisce in quella romantica...).
Recitativo e aria Anna, tu sola resti... D'un cuor che
muore. Clima di commossa partecipazione, dimensione cattolica, canto non al
Coro ma con il Coro, in dialogo:, anche la grande invocazione Deh, tu d’un’umile/preghiera
al suono e cantata in mezzo al Coro/popolo. Il perdono a Elisabetta muovendo e
agitando, far sentire il non è lo scatto di ribellione di Bolena, sovrapporsi
nella fragile mente, delle è una specie di mistico approdo.
Cabaletta Ah, se un giorno da queste siero che vaga tra
l'amato d'un tempo ritorte. Sono le ultime parole che dice nel solita tempo «Maestoso»
prima del patibolo, si appoggia a Leicester, personaggio cui nell'opera è
legata sentimentalmente, ma anche l'affetto è protesa superato da questa
rassegnazione, deve confluire in un dominio religioso, quasi da santa,
l'esperienza di vita vissuta di donna con colpe, eroismi e grande fede; la
tensione esce da sola negli acuti. - Non bisogna distrarre con variazioni la
ripetizione che inizia con la stessa frase ma nel modo maggiore: in un canto
raccoltissimo questo mutamento prende tutta la sua intensità.
Roberto Devereux. Il grande finale di Elisabetta è un delirio angosciato, terrorizzato,
grandioso.
Recitativo E Sara in questi orribili momenti. È in stile
tragico, «Maestoso» ma ansioso: sta aspettando Sara con ansia, rimorsi,
angoscia; spera di poter risolvere la situazione, annullare la sentenza.
Approda alla frase bellissima lo sono donna alfine: confessa la sua ambivalenza
di Regina e donna, è un ultimo sussulto dove vorrebbe cambiare la condanna.
Continuamente mutamenti di tempo descrivono il carattere mutevole di lei, il
cambiare idea. Passano angosce, sospetti, momenti di gelosia, senso del tempo
che fugge, l'anello che potrebbe salvarlo; terrorizzata all'idea di vederlo
morto vorrebbe fermare il tempo.
Aria Vivi, ingrato. Purché vivo, lo vede accanto alla
rivale. lo vede da accentratrice gelosa quale è lei che non ammette
l'infedeltà: è pagina disperata, col peso enorme di ogni parola nella
solitudine. La donna ferita piange, ma la coscienza della regalità le fa
misurare l'enormità di quel pianto vietato che nessuno deve vedere: la frase la
Regina, la Regina d'Inghilterra... si lancia in uno spazio solitario
sconfinato, con l'arpeggio strapiombante. Cabaletta Quel sangue versa. to. Alla
rivelazione del tradimento di Sara e al compimento della sentenza che la corsa
con l'anello regio non è valsa a fermare, subentra nella Regina disperazione e
follia. Il rapporto vocalità/teatralità stringe il ritmo pesante e l'ossessione
delle immagini. Sulle parole accese del Cammarano la realtà si stravolge in
visioni della morte di lui, con senso di terrore evidenziato. Nello
stravolgimento (di situazioni, immagini, voce...) rivela la donna passionale
che non è stata (aveva 63 anni al tempo di questi avvenimenti), rinnega persino
il regno per cui ha lottato tutta la vita, abdica. La seconda volta, quando si
ripete la stessa melodia, sulle parole diverse, ancor più ossessive, il fluire
del ritmo e della musica può cambiare anche senza dover aggiungere nulla:
dipende dall'interprete. Nel momento in cui rifiuta tutto, nega tutto, non si
mette a far mostra di bravure vocali aggiunte. È una pazza al culmine della
disperazione, sempre col peso della sua regalità. Mentre ora il Coro la incita
alla calma, vede e sente in modo sempre più esasperato. Per me è uno dei finali
più sconvolgenti della drammaturgia donizettiana e romantica.
Vorrei anche ricordarvi una cosa. C'è un'opera, fra
queste, dove due Regine sono direttamente a confronto. È Maria Stuarda. Vorrei
che la riascoltaste, prima o poi, e notaste come, se è una esecuzione
intelligente, balzano profondamente definite le due figure, coerenti con la
realtà storica. Elisabetta potente, ma segnata dai traumi della sua adolescenza
tremenda, osteggiata, abituata a destreggiarsi fra incertezze. Per lei la
Stuarda è un incubo di tutta la vita, per la bellezza, perché è Regina (e
rivale), perché è amata, ha avuto un figlio... Maria Stuarda impulsiva e
sciagurata, nasce in un mondo felice. Muore il padre, ed a 2 mesi e mezzo già è
Regina di Scozia. Inconsapevolmente è contesa da tutti; per proteggerla i Guisa
(sua madre) la portano in Francia dove ha adolescenza meravigliosa, educazione
raffinata, gioca con chi sarà suo futuro sposo (Re di Francia). E quando questo
muore torna in Scozia sempre Regina, per di più spinta da tutto il mondo
cattolico a impadronirsi del Regno inglese. Per me queste differenze e distanze
sono un fatto naturale, vitale. In teatro la contesa fra le due Regine divental
anche un fatto di rivalità vocale, come il conflitto di potere nei due bassi
Re/Inquisitore nel Don Carlos. Ci vuole grande rigore nello spettacolo. Quando
cantai Stuarda, per la prima volta, a Firenze, all'inaugurazione Maggio '67,
l'altra Regina, cioè Elisabetta, era la Verrett, sontuosa vocalmente e
scenicamente. Il primo atto è tutto di Elisabetta, Stuarda entra al secondo.
Ricordo che nella mia egocentrica prepotenza di soprano, ignoravo quell'atto,
per me non esisteva. Continuamente parlando lo annullavo «Giorgio, quando entro
al primo atto... » E ogni volta De Lullo mi correggeva Non è il primo, cara. È
il secondo... Quando abbiamo provato i bellissimi costumi di Pizzi, oltre ai
miei molto semplici, eleganti, derivati dalla pittura del tempo, vidi quelli
della Verrett: al primo atto, vestita di bianco, in portantina, sembrava un
idolo; poi il costume rosso, tutto bordato di volpi rosse... Tentai l'implorazione
«Ma Giorgio, io neanche un pelo, non è possibile. Almeno un collettino di
pelliccia... ». Ma De Lullo fu irremovibile «No, tu niente: un cappottino, i
guanti; con le mani in tasca».
In scena, poi, si vive Donizetti come un'accensione di
fuoco. Per l'invettiva del duetto ebbi una lite col direttore d'orchestra.
L'incontro è nel parco. Elisabetta arriva con la sua imponente suite, Maria con
la sua Dama e Talbot. La prigioniera si inginocchia e implora; l'altra la
insulta. «Trema» «No» e come una belva mi rialzavo, e c'è la famosa invettiva.
Il direttore pretendeva di farmela cantare battendo il tempo, ma il recitativo
va giocato con una certa libertà. Bisogna che dopo tanto lirismo del
personaggio venga fuori la Regina, col tumulto, la ribellione... Dice cose
tremende e la frase deve allargarsi (« Profanato è il soglio inglese, vil
bastarda... »), non può marciare a tempo. Ho fatto un recitativo che, ora, non
consiglierei a nessuno (perché non fa bene alla voce), ma ne è uscita una cosa
molto violenta, aggressiva, che ha avuto l'applauso a scena aperta, ha portato
all'acme il clima del duetto. È possibile che la tecnica maturata del belcanto
consenta di trovare altre soluzioni vocali, con suoni più da manuale: sarà
giusto seguirli, ma se consentono di esprimere la stessa intensa partecipazione.
Perché una sola cosa è certa: un'artista non deve mai rinunciare assolutamente
a nulla di ciò che sente e capisce, quando individua qualche barlume di verità.
Leyla Gencer
Seminar notes arranged by © Lorenzo Arruga
Turkish translation by © Ayşen Zülfikar [Below]
Lezioni-concerto ai
"Seminari di Primavera”
Interrompendo una tradizione quella delle "master-classes" su
particolari aspetti dell'interpretazione musicale - i "Seminari di
Primavera" hanno proposto nel 1982 un'alternativa inedita, se non nella
forma, certo nella distribuzione "spettacolare", affidata in presa
diretta alla televisione.
L'Auditorium di Trieste della Radiotelevisione italiana non ha dunque
ospitato i consueti corsi "a tema" aperti ad una classe scelta di
pianisti, violinisti, cantanti, bensì una serie di
"lezioni-concerto", il cui peso era interamente sostenuto dai
Maestri.
È stato così l'artista a raccontare se stesso attraverso i problemi
dell'interpretazione, nello stesso tempo eseguendo gli esempi musicali. Che
l'esperienza dell'interprete possa trasmettere una lezione estetica
fondamentale oltre che affascinante i Seminari triestini avevano già ampiamente
dimostrato, anticipando chi recentemente ha scoperto l'importanza anche a
livello accademico di portare in cattedra attori come Eduardo e registri come
Grotowski, e offrendo contribuiti determinanti all'approfondimento interpretativo
soprattutto con Carlo Zecchi (per il pianoforte), Franco Gulli (per il
violino), Gianandrea Gavazzeni (per la direzione) e per la lirica da camera
(una "specialità" dei Seminari triestini in una Civiltà del Lied di
nobile tradizione) con Anton Dermota ed Elisabeth Schwarzkopf.
Questa volta però la ripresa TV, partendo da un momento squisitamente
didattico, ha esaltato la spettacolarità potenziale e discreta di queste
lezioni, come potremo presto vedere dalle sintesi televisive realizzate per la
"terza rete" dal regista Mario Licalsi.
E se Graziella Sciutti ha fatto della sua elegante conversazione sulla
"soubrette" mozartiana, un Recital dallo stile impeccabile; se Mieczyslaw
Horszowski, prodigioso novantenne, ha fatto dei suoi tre concerti un
emozionante messaggio di poesia, da Bach a Beethoven; Serge Lifar - che già lo
scorso anno aveva lasciato il ricordo della creazione di una coreografia
estemporanea in prima assoluta, per Gabriella Cohen e Tuccio Rigano ha profuso
nelle sue conferenze illustrate sullArt du Ballet" tutte le risorse di una
personalità dilagante con l'evidenza istintiva della gestualità della danza.
Ma lezione e spettacolo hanno trovato una rara prospettiva nel Seminario di
Leyla Gencer sugli "Aspetti della vocalità donizettiana". La Gencer,
che affrontava per la prima volta un'esperienza di docente, ha tracciato un
avvincente itinerario interpretativo delle eroine donizettiane (dalle sue
"regine" a "Caterina Cornaro") e insieme un autoritratto a
tutto tondo.
Due giornate di lezioni con la collaborazione pianistica di Ennio
Silvestri: oltre quattro ore di conversazione e di concerto, sostenute con una
resistenza incredibile, con una classe ed uno stato di grazia vocale straordinario.
Saper leggere Donizetti: un discorso tanto difficile ed ambizioso (benché
sorretto dal ricordo di episodi personali), avrebbe potuto, per la sua stessa
metodologia critica, neutralizzare l'arcata lirico-drammatica della
rievocazione. Invece e qui sta la sorprendente bravura di Leyla Gencer ogni
citazione musicale trovava il proprio spiraglio, saldandosi alla successiva in
una continua corrispondenza emozionale.
Una lettura, quindi, che è divenuta subito "lezione di teatro",
sul sontuoso palcoscenico televisivo (abitato dalle immagini care all'interpretazione
genceriana) allestito da Mario Fiorespino con le luci di Franco Ferrari: una
degna cornice per un'esperienza appassionante, forse più delle stesse grandi
imprese sceniche di Leyla.
Gianni Gori