MESSA DA REQUIEM
STELLE DELL’ARENA
Fu davvero, come scrisse un pungente critico, la Callas dei poveri? Sì e no. L'aver scelto esattamente lo stesso repertorio della Callas, quello del soprano drammatico di agilità, la poneva inevitabilmente a confronto con quella che era la diva del momento. E poiché i teatri della Gencer non crano quelli della Callas, nacque quello strano appellativo perché parevano diversi i pubblici che applaudivano le due primedonne. I confronti sono sempre spiacevoli ed inutili: la Callas e la Gencer avevano in comune solo una parte del repertorio per il resto diverse le voci, diverso il carattere, diversa bla recitazione.
La Gencer non aveva una figura, come si suol dire, statuaria e impo- nente: era ben proporzionata ma piccolina, un viso grazioso e interessante, capelli nerissimi, uno sguardo penetrante. Recitava bene ma senza il gesto perentorio della Callas e senza assalti dionisiaci. La voce non molto robusta, di buon metallo, partiva dalle note del soprano drammatico e raggiungeva, ma con una certa difficoltà, quelle del soprano leggero. All'inizio della carriera pareva volesse essere più Lucia e Gilda che Leonora o Aida poi chiara- mente si orientò verso il repertorio del soprano drammatico secondo la lezione della Callas, ossia quella del belcantismo ottocentesco che pareva cancellato dall'esperienza verista.
Il debutto areniano della Gencer avvenne con il Ballo in maschera del '62. La parte era decisamente quella del soprano drammatico. Forse perché impaurita dal grande spazio, e nel timore di non essere sentita, la Gencer cantò senza insistere su chiaroscuri, o pianissimo. Ne venne una interpre- tazione di tutto sbalzo del personaggio di Amelia sia nella parte vocale che nella parte scenica. Piacque al pubblico e piacque alla critica, così l'anno dopo venne chiamata per cinque recite di Aida, tre dirette da Serafin e tre dirette da Gavazzeni, i due maestri che dell'acustica areniana conoscevano ogni segreto. È assai probabile che la Gencer abbia approfittato dei loro consigli per la resa perfetta del personaggio della schiava etiope. Abbandonò il canto spiegato e disteso che aveva usato nel Ballo e ricorse a tutte quelle mezze tinte che si addicevano a quell'umbratile figura del Verdi più maturo, quasi al limite della vecchiaia. Ebbe certo le sue impennate nelle frasi scultoree dei duetti con Amneris e col padre Amonasro, ma letteral- mente incantò nel "Numi pietà" o nel "Là tra foreste vergini". Quei pianis- simi non si perdevano, anzi, nell'Arena zeppa di folla, venivano chiaramente percepiti anche nei più lontani gradoni. Inutile dire che il punto di maggior tensione era raggiunto nei "Cieli azzurri" del terzo atto. In questi momenti di estatico rapimento la Gencer faceva veramente ricordare la Callas, non perché la imitasse ma per il colore della frase musicale.
Quasi per confrontarsi con la divina, la Gencer, ancora una volta diretta da Gavazzeni, inaugurava la stagione del 1965 con Norma. La scena montata da Pino Casarini mancava di un'idea unitaria, ma rendeva abba- stanza bene l'atmosfera dell'opera e di conseguenza giustificava la regia di Sandro Bolchi. Ad esempio, la prima scena rappresentava la foresta d'Irminsul e tra le sacre antiche piante Norma ritornava un attimo ancora dopo essere uscita con il corteo per vedere se di lontano Pollione l'avesse seguita come ai giorni del primo amore. La Gencer era ormai di casa all'A- rena, ma non si permetteva di defraudare di una nota il suo pubblico. Dopo il "Pace v'intimo" cantava "Il sacro vischio io mieto" come in un sospiro dolcissimo. Era il giusto preludio alla preghiera "Casta diva". Negli atti seguenti predominava ora il tono elagiaco ora il tono furente e dramma- tico, ma era nel finale che la cantante otteneva con Gavazzeni i più alti esiti per quel senso di catarsi nell'anelito alla morte liberatrice che pareva ricor- dare quella della tragedia classica. Tale era la tensione, dal duetto “In mia mano alfin tu sei" alla preghiera "Deh non volerli vittime" che, finita l'opera, la Gencer aveva bisogno di qualche minuto per ricomporsi ed apparire alla ribalta.
Assai lodata la presenza della Gencer nella Messa da requiem di Verdi, il 9 agosto 1966, sotto la direzione di Antonio Votto. Il fatto di essere un soprano drammatico di agilità le permetteva di passare nel "Libera me Domine" con grande facilità dai momenti della paura del castigo ai momenti della fiducia nella divina misericordia. Era presente in quell'anno anche nell'Aida con Bergonzi e la Cossotto, tre voci eccezionali per una buona direzione di Capuana e una bella regia di Herbert Graf. Non mancava come elemento di discussione l'intervento spettacolare del Corpo di Ballo del Teatro Kirov di Leningrado.
Sempre sotto la direzione di Capuana, la Gencer affrontava nel 1967 la parte di Leonora nella Forza del destino e nel '68 l'altra Leonora, quella del Trovatore. Volente o nolente la Gencer riprendeva il repertorio che in Arena era stato della Callas. E della Callas ricordava qualche momento, come ad esempio in "D'amor sull'ali rosee" del Trovatore eseguita con tutte le finezze del belcanto ottocentesco. Era una lezione che la Gencer lasciava all'Arena, lezione non seguita, come tutte le lezioni degli ottimi maestri. Per continuare la tradizione del soprano drammatico di agilità bisognerebbe che ci fossero voci eccezionali come quella della Callas e della Gencer, ma i miracoli non accadono ogni giorno.