MEFISTOFELE

Arrigo Boito (1842 - 1918)
Opera in four acts in Italian
Libretto: Arrigo Boito 
Premièr at Teatro all Scala, Milan – 5 March 1868
22, 25, 27, 30 March - 03 April 1958
Teatro alla Scala, Milano

Conductor: Antonino Votto
Chorus master: Norberto Mola
Stage director: Tatiana Pavlova
Scene and costumes: Attilio Colonnello

Mefistofele CESARE SIEPI bass
Faust GIANNI POGGI tenor
Margherita LEYLA GENCER soprano [Role debut]
Matha STEFANIA MALAGU’ mezzo-soprano
Wagner FRANCO RICCIARDI tenor
Elena ANNA DE CAVALLIERI soprano
Pantalis FIORENZA COSSOTTO mezzo-soprano
Nereo ANGELO MERCURIALI tenor

Time: Middle Ages
Place: Heaven; Frankfurt, Germany; Vale of Tempe, Ancient Greece

Photos © ERIO PICCAGLIANI, Milano 

Note: Due to Gencer's illness she couldn't make first two performances. Young soprano Cesy Broggini substituted her at the first two performances.
 

Gencer's costume





























RADIOCORRIERE.TV                                     
1958 March 23 - 29
II "Mefistofele,, dal Teatro alla Scala

IL "POVERO VECCHIO,,

CHE DIEDE GLORIA A BOITO

Il poeta-musicista, che aveva un acuto spirito di autocritica e d'ironia, così definiva il Mefistofele che al contrario doveva consegnare il suo nome alla storia della lirica - Protagonisti dell'edizione scaligera: Cesare Siepi, Leyla Gencer e Gianni Poggi

Photo: Cesare Siepi (Mefistolele)

Per tanti anni – quelli del lungo pe riodo in cui Arrigo Boito portò nell'animo il tormento del mai compiuto Nerone – il poeta-musicista fu solito definire il Mefistofele come «un povero vecchio che mi dà da vivere». Non era solo frutto di quella bonaria vena d'ironia che pur caratterizzava lo spirito d'Arrigo, tale definizione. Conteneva ed esprimeva un convincimento che Boito s'era fatto, analizzando con acuto spirito critico quella sua prima fortunata opera, che gli continuava a recare di ritti d'autore, d'anno in anno. Si, il Mefistofele era un «povero vecchio», uno spartito terribilmente invecchiato; e appunto perciò il Nerone avrebbe dovuto essere qualcosa di nuovo, di straordinariamente nuovo: la rivelazione di una genialità maturata in anni e anni di sofferenze, di dubbi, di meditazioni. E' noto che, appunto per l'ansia che lo torturò, d'una perfezione che al suo talento era negata, Boito non si decise mai a far rappresentare il Nerone; e ci volle l'amore. vole cura di Toscanini perché l'opera andasse in scena, nel 1924, sei anni dopo che Arrigo era morto. Ma è noto altresì come il Nerone non abbia saputo camminare per i teatri del mondo; cosicché ancora oggi è il «povero vecchio» Mefistofele che «dà da vivere» alla fama di Arrigo Boito musicista. E' segno dunque – poiché il tempo è giudice che non fallisce, e poiché il Mefistofele, anche a fissarne la data di nascita al momento del battesimo del «rifacimento» (Bologna 1875), ormai conta più di ottant'anni che questo spartito non è così «povero» né così artisticamente «vecchio» come alcuni, e magari lo stesso autore, hanno creduto. In realtà il Mefistofele nacque in un momento particolare della vita artistica di Arrigo Boito: nel momento in cui l'equilibrio fra possibilità creatrici e l'eccessiva abitudine al dubbio, all'autocritica, non era ancor rotto, nello spirito dell'autore. Fu anzi, opera di ardimento, diremmo di presunzione: nacque nell'unico momento in cui il mite, saggio Arrigo Boito, si dimostrò «presuntuoso». E non era da definir presunzione, quella di voler «descriver fondo a tutto l'universo», riassumendo in un melodramma un poema come il Faust goethiano? Non era presunzione, da parte di un giovane ventiseienne – tanti anni contava Arrigo quando il primo Mefistofele apparve – pretendere di «rinnovare» schema del melodramma italiano, quello schema sulla cui falsariga alcuni musicisti, che si chiamavano Rossini, Bellini, Do. nizetti e Verdi, avevano scritto tanti capolavori? Boito osò, presunse, diciamolo pure; provò l'amarezza della sconfitta, quando l'opera sua andò in scena alla Scala (1868) e cadde clamorosamente; poi sperimentò la gioia della rivincita, quando il Mefistofele – di parecchio sfrondato, però, e largamente – rifatto risorse a Bologna.

Opera di un giovane sospinto da ardimento di tanto superiore a quelle che erano le sue effettive possibilità artistiche in campo musicale, il Mefistofele dunque risultò lavoro di scarso equilibrio, i cui valori sono, di atto in atto, assai oscillanti e ineguali. L'ardire, e cioè la polemica esercitata da Boito ventiseienne, fruttarono pagine che oggi dobbiamo effettivamente riconoscere come «povere» e invecchiate. Ma la profonda convinzione nell'importanza dell'opera sua, la profonda fiducia in se stesso, insomma, che di quell'ardire, di quella presunzione, erano l'aspetto positivo, diedero vita ad altre pagine che non possono essere giudicate né povere né invecchiate: il pubblico le apprezza tuttora, la critica le valuta affermativamente.
Vediamole, queste pagine che fanno ancor oggi vivo e vitale il Mefistofele boitiano. Ecco, sopra ogni altro episodio musicale, il «Prologo». Il «tema» iniziale è la parafrasi dell'idea melodica con cui si apre il Lohengrin wagneriano; ma acquista qui efficacia, appunto per il misticismo del soggetto drammatico. La lotta fra Dio e il Demonio si realizza in musica, con lo squillare di questo «tema», al quale si contrappone il satanismo dello «scherzo strumentale», quando Mefistofele appare. Ma ancor prima dell'apparizione del Maligno, ancor prima della possente esplosione vocale di costui (il suo blasfemo e ghignante «Ave Signor», con quel che segue, diede origine a tutta una maniera di trattare il satanico in musica, dalla quale fu suggestionato per sino Verdi, quando volle dar voce alla malvagità di Jago), Boito aveva fermato la più bella ispirazione musicale della sua vita d'artista, scrivendo quel coro «Ave Signor», degli angeli e dei santi, in cui l'idea melodica, progredendo di grado in grado, ascendendo verso il «fortissimo», diviene davvero l'equivalente sonoro d'una sublime aspirazione all'eterno, all'assoluto. Fra le grandi pagine della musica romantica, questo coro ha ogni diritto d'essere annoverato, specie nella versione che chiude il «Prologo», che è poi la stessa che chiude l'opera.
Dopo il «Prologo», l'ascoltatore trova ancora molti luoghi in cui ristorare l'attenzione alle fonti della melodia: la danza popolaresca «Il bel giovinetto se viene alla festa...», la romanza d'impronta beethoveniana «Dai campi, dai prati» (fu considerata ispirata dal secondo tempo della Sonata a Kreutzer di Beethoven) e la vaga melodia «Colma il tuo cuor d'un palpito» cantata da Faust nel «quadro del giardino». Ma la critica preferisce «saltare», nella sua ricerca di valori assoluti, al «quadro» della morte di Margherita. In questa scena l'eroina goethiana acquista le dimensioni della più dolorosa femminilità, per merito della musica boitiana, e diviene una delle più appassionate ed amate «eroine» del melodramma italiano. La «nenia» ch'ella canta vaneggiando, non appena s'è alzato il sipario («L'altra notte in fondo al mare»), riempie la tetra scena del carcere di cupe ombre presaghe. La catastrofe è imminente. Solo la «canzone del salice» dell'Otello verdiano riuscirà a «fissare» con determinatezza altrettanto efficace i limiti sentimentali dell'imminente sciagura. E poi è l'incontro con Faust, in cui torna l'onda dei ricordi («Eppure, mio Dio dice la Margherita di Goethe – tutto ciò che mi ci ha condotto era cosi buono, così caro!»); il duetto «Lontano, lontano...» aggiunge le dimensioni del sogno al vaneggiamento dell'agonizzante. Ma su tutto l'episodio, spiccano alcuni brani di recitativo; in essi le virtù dell'«accento», proprio nel senso monte. verdiano del termine, rifulgono come raramente nel melodramma italiano dell'Ottocento. Si ascolti attentamente il recitativo di Margherita: «Vien, vo' narrarti un tetro ordin di tombe...», ove appunto l'accento musicale trova stupendamente l'equivalente del crollo morale, della desolazione, della disperazione. Qui Boito, quale trageda musicale, ebbe il suo momento di grazia, la sua parte di genio.
Eppoi c'è l'ultima idea melodica del «quadro» mirabile, quello «Spunta l'aurora pallida...» che il poeta musicista aggiunse, dopo la trionfale rappresentazione bolognese, per accontentare un'interprete che doveva ripetere l'opera a Venezia, e che completa così efficacemente, così poeticamente, il personaggio di Margherita, redenta – per virtù di questa melodia – anche dalle tenebre della coscienza violentata, e ormai avviata al Cielo. Qui, la critica si ferma; lascia agli appassionati del melodramma il piacere di valutare i «quadri» seguenti, stilisticamente ibridi, e non immuni dalla retorica (come, ad esempio, nella perorazione che chiude il «Sabba classico»); mai i luoghi di cui s'è fatto cenno sono più che sufficienti a salvare il Mefistofele da quelle accuse di «povertà» e di «vecchiezza» che pur gli furono contestate dal suo ipercritico autore. [Teodoro Celli]