II
"Mefistofele,, dal Teatro alla Scala
IL "POVERO VECCHIO,,
CHE DIEDE GLORIA A
BOITO
Il poeta-musicista, che aveva un acuto spirito di
autocritica e d'ironia, così definiva il Mefistofele che al contrario doveva
consegnare il suo nome alla storia della lirica - Protagonisti dell'edizione
scaligera: Cesare Siepi, Leyla Gencer e Gianni Poggi
Photo: Cesare Siepi (Mefistolele)
Per tanti anni – quelli del lungo pe riodo in cui Arrigo
Boito portò nell'animo il tormento del mai compiuto Nerone – il poeta-musicista
fu solito definire il Mefistofele come «un povero vecchio che mi dà da vivere».
Non era solo frutto di quella bonaria vena d'ironia che pur caratterizzava lo
spirito d'Arrigo, tale definizione. Conteneva ed esprimeva un convincimento che
Boito s'era fatto, analizzando con acuto spirito critico quella sua prima
fortunata opera, che gli continuava a recare di ritti d'autore, d'anno in anno.
Si, il Mefistofele era un «povero vecchio», uno spartito terribilmente
invecchiato; e appunto perciò il Nerone avrebbe dovuto essere qualcosa di
nuovo, di straordinariamente nuovo: la rivelazione di una genialità maturata in
anni e anni di sofferenze, di dubbi, di meditazioni. E' noto che, appunto per
l'ansia che lo torturò, d'una perfezione che al suo talento era negata, Boito
non si decise mai a far rappresentare il Nerone; e ci volle l'amore. vole cura
di Toscanini perché l'opera andasse in scena, nel 1924, sei anni dopo che
Arrigo era morto. Ma è noto altresì come il Nerone non abbia saputo camminare
per i teatri del mondo; cosicché ancora oggi è il «povero vecchio» Mefistofele
che «dà da vivere» alla fama di Arrigo Boito musicista. E' segno dunque – poiché
il tempo è giudice che non fallisce, e poiché il Mefistofele, anche a fissarne
la data di nascita al momento del battesimo del «rifacimento» (Bologna 1875),
ormai conta più di ottant'anni che questo spartito non è così «povero» né così
artisticamente «vecchio» come alcuni, e magari lo stesso autore, hanno creduto.
In realtà il Mefistofele nacque in un momento particolare della vita artistica
di Arrigo Boito: nel momento in cui l'equilibrio fra possibilità creatrici e
l'eccessiva abitudine al dubbio, all'autocritica, non era ancor rotto, nello
spirito dell'autore. Fu anzi, opera di ardimento, diremmo di presunzione:
nacque nell'unico momento in cui il mite, saggio Arrigo Boito, si dimostrò «presuntuoso».
E non era da definir presunzione, quella di voler «descriver fondo a tutto
l'universo», riassumendo in un melodramma un poema come il Faust goethiano? Non
era presunzione, da parte di un giovane ventiseienne – tanti anni contava Arrigo
quando il primo Mefistofele apparve – pretendere di «rinnovare» schema del
melodramma italiano, quello schema sulla cui falsariga alcuni musicisti, che si
chiamavano Rossini, Bellini, Do. nizetti e Verdi, avevano scritto tanti capolavori?
Boito osò, presunse, diciamolo pure; provò l'amarezza della sconfitta, quando
l'opera sua andò in scena alla Scala (1868) e cadde clamorosamente; poi
sperimentò la gioia della rivincita, quando il Mefistofele – di parecchio
sfrondato, però, e largamente – rifatto risorse a Bologna.
Opera di un giovane sospinto da ardimento di tanto
superiore a quelle che erano le sue effettive possibilità artistiche in campo
musicale, il Mefistofele dunque risultò lavoro di scarso equilibrio, i cui
valori sono, di atto in atto, assai oscillanti e ineguali. L'ardire, e cioè la
polemica esercitata da Boito ventiseienne, fruttarono pagine che oggi dobbiamo
effettivamente riconoscere come «povere» e invecchiate. Ma la profonda
convinzione nell'importanza dell'opera sua, la profonda fiducia in se stesso,
insomma, che di quell'ardire, di quella presunzione, erano l'aspetto positivo,
diedero vita ad altre pagine che non possono essere giudicate né povere né
invecchiate: il pubblico le apprezza tuttora, la critica le valuta
affermativamente.
Vediamole, queste pagine che fanno ancor oggi vivo e
vitale il Mefistofele boitiano. Ecco, sopra ogni altro episodio musicale, il «Prologo».
Il «tema» iniziale è la parafrasi dell'idea melodica con cui si apre il
Lohengrin wagneriano; ma acquista qui efficacia, appunto per il misticismo del
soggetto drammatico. La lotta fra Dio e il Demonio si realizza in musica, con
lo squillare di questo «tema», al quale si contrappone il satanismo dello «scherzo
strumentale», quando Mefistofele appare. Ma ancor prima dell'apparizione del
Maligno, ancor prima della possente esplosione vocale di costui (il suo
blasfemo e ghignante «Ave Signor», con quel che segue, diede origine a tutta
una maniera di trattare il satanico in musica, dalla quale fu suggestionato per
sino Verdi, quando volle dar voce alla malvagità di Jago), Boito aveva fermato
la più bella ispirazione musicale della sua vita d'artista, scrivendo quel coro
«Ave Signor», degli angeli e dei santi, in cui l'idea melodica, progredendo di
grado in grado, ascendendo verso il «fortissimo», diviene davvero l'equivalente
sonoro d'una sublime aspirazione all'eterno, all'assoluto. Fra le grandi pagine
della musica romantica, questo coro ha ogni diritto d'essere annoverato, specie
nella versione che chiude il «Prologo», che è poi la stessa che chiude l'opera.
Dopo il «Prologo», l'ascoltatore trova ancora molti
luoghi in cui ristorare l'attenzione alle fonti della melodia: la danza
popolaresca «Il bel giovinetto se viene alla festa...», la romanza d'impronta
beethoveniana «Dai campi, dai prati» (fu considerata ispirata dal secondo tempo
della Sonata a Kreutzer di Beethoven) e la vaga melodia «Colma il tuo cuor d'un
palpito» cantata da Faust nel «quadro del giardino». Ma la critica preferisce «saltare»,
nella sua ricerca di valori assoluti, al «quadro» della morte di Margherita. In
questa scena l'eroina goethiana acquista le dimensioni della più dolorosa
femminilità, per merito della musica boitiana, e diviene una delle più
appassionate ed amate «eroine» del melodramma italiano. La «nenia» ch'ella
canta vaneggiando, non appena s'è alzato il sipario («L'altra notte in fondo al
mare»), riempie la tetra scena del carcere di cupe ombre presaghe. La catastrofe
è imminente. Solo la «canzone del salice» dell'Otello verdiano riuscirà a «fissare»
con determinatezza altrettanto efficace i limiti sentimentali dell'imminente
sciagura. E poi è l'incontro con Faust, in cui torna l'onda dei ricordi («Eppure,
mio Dio dice la Margherita di Goethe – tutto ciò che mi ci ha condotto era cosi
buono, così caro!»); il duetto «Lontano, lontano...» aggiunge le dimensioni del
sogno al vaneggiamento dell'agonizzante. Ma su tutto l'episodio, spiccano alcuni
brani di recitativo; in essi le virtù dell'«accento», proprio nel senso monte.
verdiano del termine, rifulgono come raramente nel melodramma italiano dell'Ottocento.
Si ascolti attentamente il recitativo di Margherita: «Vien, vo' narrarti un
tetro ordin di tombe...», ove appunto l'accento musicale trova stupendamente
l'equivalente del crollo morale, della desolazione, della disperazione. Qui
Boito, quale trageda musicale, ebbe il suo momento di grazia, la sua parte di
genio.
Eppoi c'è l'ultima idea melodica del «quadro» mirabile,
quello «Spunta l'aurora pallida...» che il poeta musicista aggiunse, dopo la
trionfale rappresentazione bolognese, per accontentare un'interprete che doveva
ripetere l'opera a Venezia, e che completa così efficacemente, così
poeticamente, il personaggio di Margherita, redenta – per virtù di questa
melodia – anche dalle tenebre della coscienza violentata, e ormai avviata al
Cielo. Qui, la critica si ferma; lascia agli appassionati del melodramma il
piacere di valutare i «quadri» seguenti, stilisticamente ibridi, e non immuni
dalla retorica (come, ad esempio, nella perorazione che chiude il «Sabba
classico»); mai i luoghi di cui s'è fatto cenno sono più che sufficienti a
salvare il Mefistofele da quelle accuse di «povertà» e di «vecchiezza» che pur
gli furono contestate dal suo ipercritico autore. [Teodoro Celli]