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Realizzazione della Divisione Grandi Opere
ARMANDO CURCIO EDITORE
a cura di GIANFRANCO CAPITTA e MICHELE SELVINI
ARMANDO CURCIO EDITORE - Roma
Direttore editoriale: EMANUELE BEVILACQUA Direttore Grandi Opere: NINO SCANNI
Consulenza musicale: NICOS VELISSIOTIS Redazione: GIANCARLA GIOMMARINI Coordinamento: ANNA MARIA DIODORI - MARIA TERESA ROSETTI Produzione: SABINA DI NICOLI
Iconografia: ANTONELLA CARINI Correzione: GASPARE CECCONI Direzione artistica: OLIVIERO CIRIACI Archivio: ULLA NÄSLUNDH
Direttore responsabile: LUCIANO LUCIGNANI
Registrazione del Tribunale di Roma n. 600/89 del 30/10/1989 Stampa: ROTOLITO LOMBARDA Milano
È Il primo incontro di Verdi con Shakespare, premonitore di quelli che segneranno la grande conclusione della sua attivita di compositore. Dopo un periodo di riflessione, in cui sente di voler comporre un’opera di genere «fantastico», sceglie Macbeth per la sua delirante grandezza. E infatti, in ma Inghilterra da cupo Medioevo, l'eroe militare e sua moglie sognano una grandezza che è la più alta possibile, quella regale. E per ottenerla calpestano ogni umano valore. I've cisione del re e dei rivali alla successione, bugie e tradimenti, in una marcia inarrestabile verso il potere. Parallelamente vivono nel privato la propria tragedia, fatta di visioni spaventose e di crisi di sonnambulismo che oggi ci sembra più facile comprendere com gli strumenti della psicanalisi. Intorno a loro prendono corpo fantasmi e orrori che le streghe terrifiche evocano dal fondo scuro della coscienza e della paura.
Una paura che è in grado di stravolgere e forzare, fino alla morte, le stesse leggi di natura: alberi che «si muovono» e uomini non «nati di donna».
Già dentro la migliore tradizione della letteratura fantastica, Verdi compone un'opera che con l'esplosione della sua musica parla a zone profonde dell'ascoltatore, e restituisce a Shakespeare la grandezza sovrumana dalla sua poesia. La nostra edizione propone un cast prestigioso con i nomi di Leyla Gencer, Giangiacomo Guelfi e Giorgio Casellato Lamberti. In appendice un confronto quasi obbligato: nella storica recita diretta da de Sabata alla Scala nel 1952, Maria Callas interpreta due momenti fondamentali dell'opera, la lettura della lettera e Una macchia è qui tuttora... (scena del sonnambulismo).
SINTESI DELLA VICENDA
Atto Primo I due generali di Re Duncano sovrano di scozia, Macbeth e Banco, reduci una vittoriosa compagna contro I ribelli, si imbatto No in un gruppo di strenghe intente ai loro sortilegi. Le sinistre creature profeticamente li salutano: il primo come signore di Glamis e di Cawdor e futuro re di Scozia, il secondo come capostipite di una dinastia di regnanti. Sparite le streghe, un messaggero di re Duncan porta la notizia che il signore di Cawdor si è macchiato di tradimento ed è stato condannato a morte, e che del titolo il sovrano ha insignito Macbeth in premio della sua fedeltà. L'azione si trasferisce nel castello di Macbeth, dove sua moglie sta leggendo la lettera in cui egli le narra le profezie delle streghe. La notizia ravviva la smodata ambizione della donna, la quale è pronta a usare qualsiasi mezzo pur di giungere al trono e teme, più che i nemici, la pavidità del marito. Un servo le annuncia che il re sta per giungere con la corte, intenzionato a pernottare al castello. Il destino sembra dunque sorridere ai suoi criminosi disegni, offrendole la possibilità di sopprimere Duncan e usurparne il trono. Giunto al castello, Macbeth si sente proporre dalla Lady il regicidio per quella notte stessa; dapprima esita davanti al piano delittuoso, ma poi non sa resistere all'assoluta determinazione di lei. Quando esce dalla stanza del re con il pugnale lordo di sangue, l'uomo è sconvolto, incredulo di fronte al delitto che l'ambi zione lo ha spinto a commettere. La moglie cerca di scuoterlo non risparmiando ironiche frecciate al suo conclamato valore, tuttavia non può convincerlo a riportare l'arma insanguinata nelle mani delle guardie addormentate davanti all'appartamento reale e si risolve a compiere ella stessa l'operazione. All'alba Macduff e Banco scoprono il delitto. Nel tumulto generale che ne segue, Macbeth e la moglie si associano ipocritamente allo sdegno e alla costernazione degli ospiti del castello.
Atto Secondo Il figlio di Duncan, Malcolm, è fuggito in Inghilterra rafforzando il sospetto che possa essere lui il regicida. Due soli uomini possono ancora sbarrare il passo ai Macbeth: Banco e suo figlio Fleanzio. Chiusi nel loro castello, il pretendente al trono e sua moglie meditano come levarli di mezzo. Macbeth oltretutto ricorda la profezia dinastica che le streghe fecero, di ritorno sul campo di battaglia, al suo commilitone. Il regicida ha assoldato alcuni sicari e quando i due giungono al castello, invitati a un banchetto, cadono nella trappola: Banco viene ucciso, ma Fleanzio riesce a fuggire. I Macbeth hanno intanto riunito a festoso convito la loro corte; Lady Macbeth pronuncia un brindisi, cui tutti si uniscono. A un tratto una terribile visione agghiaccia Macbeth: lo spettro insanguinato di Banco è venuto a sedersi nel posto a lui riservato lungo la tavolata. Inorridito, il re appena nominato arretra, pronunciando frasi sconnesse che lasciano interdetti gli ospiti, ai quali lo spettro risulta invisibile. Invano Lady cerca di placare lo scompiglio; i convitati si allontanano e Macbeth, ritrovato il controllo di se stesso, decide di recarsi a interrogare nuovamente le streghe.
Atto Terzo In un'oscura caverna, mentre fuori infuria un violento temporale, radunate attorno a un calderone fumante le streghe sono ancora intente ai loro sortilegi. Nello speco buio entra Macbeth e domanda che gli sia svelato il suo futuro. La risposta delle megere è una serie di apparizioni: i fantasmi consigliano Macbeth di guardarsi da Macduff, lo assicurano che non dovrà temer nulla da alcun «nato di donna» e lo informano che sarà glorioso e invincibile finché la foresta di Birnam non muoverà incontro al suo castello. L'ultima apparizione è costituita da un corteo di otto re guidato da Banco, e Macbeth ne trae conferma che sarà quella stirpe a regnare dopo di lui. La rivelazione è troppo amara perché l'usurpatore possa sopportarla: con un gemito egli si abbatte al suolo privo di sensi. Le streghe scompaiono, non senza prima aver convocato una ridda di spiriti danzanti. Quando rinviene, Macbeth narra alla Lady le apparizioni. Dalle profezie si deduce che il pericolo più immediato è rappresentato da Macduff e, visto che questi è fuggito in Inghilterra, la coppia di tiranni decide di colpirlo negli affetti, trucidandone la sposa e i figli e incendiandone il maniero.
Atto Quatro Sul limitare della foresta di Birnam, i profughi scozzesi piangono la patria oppressa. Macduff, raggiunto dalla notizia dello sterminio della sua famiglia, non sa darsi pace per non aver saputo proteggere la moglie e i figli. L'accampamento dei profughi è raggiunto dall'esercito inglese, alla cui testa si è posto Malcolm che invita Macduff a marciare con lui contro l'usurpatore della corona di Scozia. Malcolm dà ordine ai suoi fanti di strappare rami dagli alberi per mascherare l'avanzata allo sguardo delle vedette di Macbeth. Nel castello, intanto, la Lady si aggira in preda al sonnambulismo, oppressa da orribili incubi. Spiata da un medico e dalla sua dama di compagnia, la regina delira, sfrega le mani cercando di cancellarne il sangue ch'essa sola vi vede, confessa i misfatti suoi e del marito. In un'altra stanza il re, abbandonato ormai da quasi tutti i suoi vassalli, comprende che la situazione precipita e che dovrà fare appello a tutto il proprio valore militare per respingere l'estremo assalto. Lo raggiungono due noti zie. La prima, quella della morte della moglie, lo lascia indifferente; la seconda, quella che la foresta di Birnam sta muovendo incontro al castello, lo allarma e lo convince che la sua buona stella è definitivamente tramontata. Gettate le maschere costituite dagli arbusti, le truppe di Malcolm si lanciano alla carica. Alla testa degli ultimi fedeli, Macbeth tenta una sortita e si trova costretto a un duello solitario con Macduff. La tracotanza del tiranno svanisce quando l'altro gli rivela di non essere «nato di donna», ma di essere stato tolto a forza dal grembo materno. Anche l'ultima predizione si è dunque avverata: Macbeth cade trafitto.
LA NASCITA DELL'OPERA
La creazione di Macbeth giunse al termine di un periodo abbastanza confuso della carriera e delle vita privata del musicista. Con alle spalle nove opere (Di cui L’ultima, Attila, Aveva colto un lusinghiero successo a Venezia nel marzo 1846), Verdi era ormai un autore la cui fama travalicava i confini italiani: i suoi piani includevano un'opera per Napoli (un secondo tentativo dopo la poco fortunata Alzira dell'agosto 1845) e una per Parigi (non necessariamente nuova, ma che, per risultare di prestigio, doveva essere diretta personalmente da lui) oltre a due nuove opere per l'editore Francesco Lucca, di cui una doveva essere una novità assoluta destinata a Londra (per il soggetto c'era incertezza fra il Re Lear di Shakespeare e Il Corsaro di Byron).
Tuttavia nessuno di questi piani apparve per il momento destinato ad andare in porto. Soprattutto il progetto di scrivere a Londra un'opera per l'impresario Benjamin Lumley, destinata ad andare in scena all'Her Majesty's Theatre, per quanto bene avviato, dovette essere accantonato. A impedire che il musicista prendesse nuovi impegni fu un peggioramento delle sue condizioni di salute. Non era la prima volta che ciò accadeva: per quanto in tarda età apparisse il prototipo della vecchia quercia robusta, senile nell'aspetto ma anche terribilmente vigoroso, Verdi (che nella primavera del 1846 aveva 32 anni) fu di salute piuttosto cagionevole.
Assai pessimista e tendenzialmente ipocondriaco andava incontro a emicranie, a mali di gola e a crampi allo stomaco di probabile origine psicosomatica. La genesi di tali malesseri andava ricercata nel superlavoro e nella forte dose di tensione nervosa a cui l'artista si sottoponeva nell'intento di rispettare i rigidi termini dei contratti che aveva sottoscritto con gli impresari. Autentico stakanovista, insensibile alla fatica nell'imminenza di una creazione, Verdi pagava lo stress di un'attività compositiva condotta a tempi strettissimi con una sorta di crollo nervoso che lo coglieva a cose fatte.
Certo è che, dopo Attila, le condizioni di stanchezza fisica e mentale preoccuparono più del consueto i suoi medici, tanto da far sussurrare la temuta possibilità di quello che con termine ottocentesco si definisce «esaurimento nervoso». I medici veneziani intimarono al compositore sei mesi di riposo assoluto e un accentuato metabolismo dei liquidi. A questo scopo gli suggerirono la cura delle acque alle terme di Recoaro e Verdi, rassegnato, ottemperò ai loro ordini. Il periodo termale in compagnia del fedele Muzio, suo amico e discepolo, non fu tuttavia trascorso dal musicista in modo del tutto inoperoso, poiché egli lesse una serie di lavori teatrali che potevano prestarsi alla riduzione operistica. Fra i tanti, uno che lo colpì particolarmente fu Die Räuber (I Masnadieri) di Friedrich Schiller, letto in una traduzione italiana in versi di Andrea Maffei. Quel lavoro era destinato a diventare un melodramma in quattro parti che sarebbe andato in scena all'Her Majesty's Theatre di Londra il 22 luglio 1847.
Quando nell'autunno del 1846 Verdi diede segni di ripresa, accettò un'offerta dell'impresario Lanari del teatro della Pergola di Firenze. Dopo i primi contatti, impresario e compositore si accordarono per un'opera di genere «fantastico». La scelta evidentemente veniva da Verdi, il quale sapeva di poter contare su Lanari, uomo di teatro aperto a tentativi un po' originali e disposto a notevoli investimenti per l'allestimento scenico. La scelta dell'argomento fu molto rapida, perché Verdi già ne scrive all'impresario in pieno periodo di convalescenza. In una lettera datata 17 maggio 1846 il musicista dichiara di avere «in vista due argomenti entrambi fantastici e bellissimi che sceglierò quale sarà più adatto ai sogetti». Quelli che Verdi chiama i sogetti altri non sono che i cantanti protagonisti, sulle dimensioni vocali dei quali egli pretende di calare il proprio lavoro, scegliendo in tal modo preliminarmente fra i due progetti che in quel momento lo attirano. Il primo argomento è Die Ahnfrau (L'Avola) del drammaturgo austriaco Franz Grillparzer, il secondo è il Macbeth di William Shakespeare. Entrambe le vicende vengono definite «fantastiche» per la ricchezza di fenomeni soprannaturali che vi si verificano. Gli elementi di Macbeth sono noti: streghe, foreste che camminano, apparizioni. L'Avo la, lavoro oggi completamente dimenticato, narra invece di un amore incestuoso tra fratelli, con il macabro contorno di omicidi, suicidi e addirittura il bacio mortale di uno spettro (Die Ahnfrau, ossia l'avola, l'antenata appunto).
Verdi scartò il drammone di Grillparzer e appuntò la propria scelta sul capolavoro elisabettiano, all'epoca ancora poco conosciuto in Italia. La decisione, naturalmente, è legata ai sogetti che Lanari gli ha proposto. Essendo indisponibile Gaetano Fraschini e ormai in declino Napoleone Moriani, entrambi tenori, l'opera da Grillparzer, incentrata su una figura giovanile e dai connotati eroici (dunque tenorile) come Jaromir, non è realizzabile. Disponibile invece si dichiara a Verdi, che lo ha personalmente interpellato, il baritono Felice Varesi, perfetto come attore e che con la sua voce brunita si presenta adatto per un personaggio tetro e pieno di risvolti inquietanti come Macbeth.
Per la versificazione del lavoro shakespeariano Verdi scelse il suo fido collaboratore Francesco Maria Piave. Scrivendogli in data 4 settembre 1846, gli allegava una stesura in prosa della vicenda e lo pregava di tener presente, durante la versificazione, il fatto che «questa tragedia è una delle più grandi creazioni umane», Le attese del musicista erano dunque anche più alte dei suoi standard consueti, già molto elevati. Tre settimane più tardi, ricevendo da Piave i primi versi, subito si lamentò per la prolissità del testo inviatogli, «Poche parole... poche parole... stile conciso» raccomandò Verdi in calce alla lettera di risposta. Il compositore voleva consérvare ai dialoghi l'aforistica, quasi biblica, brevità, che conferisce alla tragedia shakespeariana quei contorni arcaici di scontro fra psicologie primitive in cui risiede gran parte del suo fascino.
Per dar vita a Macbeth, Verdi lavorò lentamente, rifiutando qualsiasi altra committenza e anzi abbandonando per il momento anche I Masnadieri, con i quali era relativamente a buon punto. Mentre ancora stava componendo le pagine più importanti sotto il profilo musicale, si preoccupò di scrivere a Lanari, cercando di fare in modo che l'allestimento corrispondesse alla visione «fantastica» del dramma che gli si veniva disegnando nella mente. Per Macbeth la produzione ricorse agli «effetti speciali» più avanzati dell'epoca: le apparizioni degli spiriti nella caverna (terzo atto), per esempio, vennero realizzate con una lanterna magica. Verdi si informò a Londra circa i modi in cui le scene delle apparizioni venivano realizzate delle compagnie di prosa shakespeariane più famose. Scrivendo a Lanari, gli raccomandava di non essere avaro nel numero dei coristi. Le streghe dovevano poter essere divise in tre gruppi, la miglior soluzione risultando quella di tre capannelli da sei coriste ciascuno, per un totale di diciotto elementi. Con Lanari, Verdi si inquietava anche perché il cantante che doveva interpretare Banco non voleva rientrare in scena nelle vesti dello spettro, ma pretendeva che fosse un figurante ad apparire nel corso del banchetto al castello. Verdi trovava la richiesta inaccettabile: in primo luogo perché compito di un cantante d'opera era quello di recitare non meno di quello di cantare, poi perché ci si esponeva al rischio che l'imperfetta somiglianza fisica del figurante con il cantante non facilitasse l'identificazione da parte del pubblico.
Oltre alle angustie di natura teatrale, ve ne furono come di consueto anche di natura poetica. Con Macbeth il compositore cercava di attuare una drammaturgia nuova, più asciutta, ma la metrica tradizionalmente regolare di Piave contrastava con tale proposi to. Quando il poeta ebbe consegnato l'intero libretto, Verdi, con l'irruenza che gli era consueta, gli mandò una letteraccia, in cui gli annunciava che solo grazie all'intervento di Sant'Andrea (ossia l'amico Andrea Maffei) aveva potuto ottenere un coro delle streghe nel terzo atto e una scena del sonnambulismo come erano nei suoi desideri. Sul libretto ufficiale distribuito a Firenze finì in tal modo col non figurare il nome di Piave. Per la fine del 1846 due atti risultano composti, «salvo le arie», perché Verdi vuole tagliarle sulle misure vocali dei protagonisti fiorentini. Nel frattempo, dopo Varesi come Macbeth, Lanari ha messo sotto contratto Marianna Barbieri-Nini (che rimpiazza Sofia Löwe) come Lady. Fiorentina verace, idolo del pubblico della Pergola, la Barbieri-Nini non era una belcantista, ma con il timbro «soffocato» della voce e l'aspetto inquietantemente aggressivo appariva il prototipo del vilain in gonnella. Alla metà di gennaio del 1847, quando Verdi partì per Firenze, gli occorrevano ancora una quindicina di giorni per dedicarsi all'orchestrazione, che egli era solito completare nel periodo delle prove al pianoforte. Essendo poi Macbeth andato in scena alla Pergola il 14 marzo, il tempo dedicato alle prove fu di quasi due mesi. In questi sessanta giorni il maestro «torchio» i cantanti, cercando di far loro comprendere quanto le sue intenzioni fossero risolutamente volte a una drammaturgia nuova. Macbeth, pur musicato, non doveva ridursi a una semplice sequenza aria-recitativo-aria, ma doveva conservare l'unitarietà e la progressione dell'originale shakespeariano. Il canto doveva divenire parte integran te dell'azione, non una sua interruzione (sia pure sotto forma di commento all'azione). Che il pubblico fiorentino del 1847 abbia compreso la novità di un simile percorso compositivo, anche se i cronisti riferiscono di accoglienze festose, è dubbio. Muzio, naturalmente, fece un resoconto di parte della serata: «Ieri sera fu la grande rappresentazione del Macbeth, quale, secondo il solito delle opere di Verdi, ha prodotto un immenso fanatismo, avendo dovuto comparire sul palco nel corso della rappresentazione 38 volte, e posso assicurarvi che il Macbeth è una grand'opera, estremamente grande e magnifica. Nel sortire che feci con Verdi dal teatro fossimo attorniati da una immensità di popolo e questi ci accompagnarono in mezzo agli evviva sino al nostro albergo essendo distante dal teatro quasi un miglio; Verdi di quando in quando dovette fermarsi a ringraziare la popolazione fiorentina, quale era composta dalla prima gioventù».
In realtà le accoglienze negative non dovettero mancare se un cronista del tempo, Abramo Basevi, dovette constatare: «Benevole accoglienze, ma più in riguardo dell'autore presente che alla musica, la quale non piacque che per metà...». E il critico musicale del giornale Il Ricoglitore ricevette una lettera di questo tono: «... Spero che lei non farà come quei fanatici e venali persone di lodare ciò che merita biasimo. L'opera del Verdi che fu presentata ieri sera alla Pergola è una vera porcheria, dunque esso non si faccia a dire nel suo articolo che fu un vero trionfo per il Maestro poiché fu chiamato 25 volte quei che lo chiamavano erano satelliti, persone pagate a far ciò».
Non molti anni dopo la prima, convinto del valore della sua opera, l'autore pensò di allargarne l'uditorio effettuandone una traduzione francese. Ne abbiamo notizia da una lettera che Verdi scrisse all'inizio del 1852 a Napoléon Roqueplan, uno dei direttori del l'Opéra di Parigi. Passarono tuttavia dodici anni prima che il progetto assumesse comcretezza. Se ciò accadde, fu per l'interessamento di Léon Carvalho, dal 1856 direttore del Théâtre Lyrique, e soprattutto dell'editore francese di Verdi, Léon Escudier. Fir mato il relativo contratto, Verdi effettuò una revisione del suo vecchio lavoro sopra un nuovo libretto francese di Nuitter e Beaumont, e vi introdusse nuovi numeri musicali: l'aria di Lady La luce langue nel secondo atto, il duetto finale del terzo, il coro degli esuli nell'ultimo, oltre all'intera scena della battaglia dopo l'ultima aria del protagoni sta. La seconda edizione di Macbeth andò in scena al Théâtre Lyrique di Parigi il 21 apri le 1865 con madame Reyalla come Lady e monsieur Ismael come suo marito, ma le accoglienze dei parigini furono ancora più incerte di quelle ricevute dall'opera alla prima fiorentina. Nonostante Carvalho telegrafasse all'autore un testo pieno d'iperboli (succès immense, chef d'oeuvre), la stampa fu assai critica, mettendo in dubbio persino l'effettiva conoscenza di Shakespeare posseduta da Verdi.
Gli spettatori destinati ad apprezzare nel giusto valore la lettura verdiana di Shakespea re erano destinati a essere quelli del XX secolo, e comunque non senza l'ausilio di interi sommovimenti del gusto, quale fu la Verdi Renaissance fra le due guerre lingua tedesca (auspici direttori del calibro di un Fritz Busch), o di singoli interpreti di genio (Maria Callas soprattutto) nel secondo dopoguerra.
LA PRIMA LADY MACBETH
Racconta dunque la Barbieri-Nini che una singolarità del Verdi durante le prove era di non dir quasi mai una parola. Questo non significava già che il maestro fosse contento: tutt'altro. Ma finito un pezzo, egli faceva cenno al Romani (il vecchio Pietro Romani, il più grande concertatore di Opere del nostro secolo, l'amico di Rossini), [...]; e al cenno del Verdi il Romani gli si accostava, andavano in fondo al palcoscenico, e col quaderno sotto gli occhi l'autore accennava cennava col dito i punti in cui l'esecuzione non era quella voluta da lui.
«Dimmi tu come devo fare», replicava con molta pazienza il Romani. Ma il Verdi raramente spiegava quel benedetto come. Si aiutava con gesti, con grandi percosse sul libro, rallentando con la mano o rafforzando i tempi, e poi, come se avesse avuto luogo fra i due una lunga e persuasiva spiega zione, il Verdi tornava addietro dicendo: «Ora hai capito: così». [...]
Le prove del Macbeth, tra pianoforte ed orchestra, furono più di cento: il Verdi impla cabile non badava a stancare gli artisti, a tormentarli per ore e ore col medesimo pezzo: e finché non fosse raggiunta quella interpretazione, che a lui pareva si accostasse il meno peggio all'ideale della sua mente, non passava ad un'altra scena. Non era troppo amato dalle masse, perché non usci mai dalle sue labbra una parola d'incoraggiamento [...] e la sboccata vena di quegli arguti Fiorentini, un po' impermealiti, si sfogava in epiteti, qualcheduno dei quali somigliava a capello a quella parte del violino che serve a stringere e allentare le corde. Ma i direttori dello spettacolo, Pietro Romani concertatore e Alamanno Bigi direttore d'orchestra, e gli artisti che avevano un nome giustamente celebre come la Barbieri-Nini e il Varesi, subivano a poco a poco il fascino di quella volontà ferrea, di quell'indomita fantasia non mai contenta di sé, e che tornava ogni giorno a suggerire qualche nuova interpretazione, magari cozzante con quella del giorno avanti, ma più perfetta, più artisticamente efficace. [...] E qui volentieri lascio parlare la Barbieri-Nini [...]
«Di tutto lo spartito il maestro ebbe grande cura durante la prova, e mi ricordo che, mattina e sera, nel foyer del teatro o sul palcoscenico (secondo che le prove erano al pianoforte o in orchestra) guardavamo con tre pidazione il maestro appena compariva, cercando d'indovinare dai suoi occhi, o dal modo suo di salutare gli artisti, se ci fosse per quel giorno qualche novità. Se mi veniva incontro quasi sorridente, e diceva qualche cosa che potesse parere un complimento, ero certa che per quel giorno mi si serbava una grossa aggiunta alla prova. Chinavo rassegnata la testa, ma a poco a poco finii anch'io per prendere una gran passione per questo Macbeth, che usciva in modo tanto singolare da tutto quello che s'era scritto e rappresentato fino allora.
Mi ricordo che erano due, per il Verdi, i punti culminanti dell'Opera: la scena del sonnambulismo, e il duetto mio col baritono. Durerete fatica a crederlo, ma la scena del sonnambulismo mi portò via tre mesi di studio: io per tre mesi, mattina e sera, cercai di imitare quelli che parlano dormendo, che articolano parole (come mi diceva il Verdi) senza quasi muover le labbra, e lasciando immobili le altre parti del viso, compresi gli occhi. Fu una cosa da ammattire. E il duo col baritono che incomincia: Fatal mia donna, un murmure, vi parrà un'esagerazione, ma fu provato più di centocinquanta volte: per ottenere, diceva il maestro, che fosse più discorso che cantato. Sentite questa, ora. La sera della prova generale, a teatro pieno, il Verdi impose anche agli artisti d'indossare il costume, e quando lui s'impuntava in una cosa, guai a contradirlo! Eravamo dunque vestiti e pronti, l'orchestra in ordine, i Cori sulla scena, quando il Verdi, fatto cenno a me e al Varesi, ci chiamò dietro le quinte: disse che per fargli piacere andassimo con lui nella sala del foyer per fare un'altra prova a pianoforte di quel maledettissimo duo. "Maestro", dissi io atterrita, "siamo già in costume scozzese: come si fa?". "Vi metterete un mantello". E il Varesi baritono, stufo della singolare richiesta, si provò ad alzare un po' la voce dicendo: "Ma l'abbiamo provato centocinquanta volte, perdio!". "Non dirai così fra mezz'ora: saranno centocinquantuna". Bisognò per forza obbedire al tiranno. Mi ricordo ancora delle truci occhiate, che gli scagliava addosso il Varesi avviandosi al foyer, col pugno sull'elsa della spada pareva meditasse di trucidare il Verdi, come avrebbe dovuto più tardi trucidare il re Duncano. Peraltro si piegò, rassegnato anche lui; e la centocinquantunesima prova ebbe luogo, mentre il pubblico impaziente tumultuava in platea. E voi saprete che quel duo, chi dicesse che destò entusiasmo e fanatismo non direbbe nulla: fu qualche cosa d'incredibile, di nuovo, di non mai successo. Dappertutto dove ho cantato il Macbeth, e tutte le sere durante la stagione della Pergola, il duo bisognò ripeterlo perfino tre volte, perfino quattro: una volta dovemmo subire la quinta replica! La sera della prima rappresentazione non dimenticherò mai che, prima della scena dal sonnambulismo, che è una delle ultime dell'Opera, il Verdi mi girava attorno inquieto, senza dir nulla: si vedeva benissimo che il successo, di già grande, non sarebbe stato definitivo per lui se non dopo quella scena. Mi feci dunque il segno della croce (è un'abitudine che si conserva anch'oggi sul palcoscenico per i momenti difficili) e andai avanti. I giornali di quel tempo vi diranno se io interpretai giustamente il pensiero drammatico e musicale del grandissimo Verdi, nella scena del sonnambulismo. Io so questo: che appena calmaca la furia degli applausi, rientrata tutta commossa, tremante e disfatta nel camerino, vidi spalancarsi l'uscio (ero già mezza spogliata) e il Verdi entrò, agitando le mani e movendo le labbra, come volesse fare un gran discorso: ma non riuscì a pronunziare una sola parola. Io ridevo e piangevo, e non dicevo nulla neanch'io: ma guardando in faccia il maestro mi avvidi che aveva gli occhi rossi anche lui. Ci stringemmo le mani forte forte, poi lui, senza dir nulla, uscì a precipizio. Quella forte scena di commozione mi compensò ad usura di tanti mesi di assiduo lavoro e di trepidazioni continue». (da: Eugenio Checchi, Giuseppe Verdi: il genio e le opere, Barbera, Firenze 1926).
«UNA VOCE ASPRA, SOFFOCATA, CUPA»
Abbiamo veduto quanta cura Verdi abbia prestato al realismo con il quale barbieri-Nini e Varesi dovevano impersonare la sinistra coppia di tranni scozzesi. In particolare per la Lady macbeth era la stessa natura bifida. della vocalità del personaggio a rendere indispensabili tali attenzioni. La protagonista da un lato si vede infatti affidare momenti da diseuse, da attrice di prosa, come nel caso della scena della lettera; in altri momenti, invece, come nella scena del brindisi, alla Lady competono passaggi irti di vocalizzi d'agilità. Proprio per la difficoltà di creare una sutura fra le due componenti del ruolo, già nell'Ottocento la critica si dimostrò incontentabile con i soprani che ereditarono da Marianna Barbieri-Nini il ruolo della regina di Scozia. Quando l'opera debuttò alla Scala il 24 febbraio 1849, per esempio, protagonista fu la Gruitz e sulla sua prestazione i recensori si divisero. In un primo tempo prevalsero posizioni di elogio come quella del cronista della Gazzetta Privilegiata di Milano, che ne esaltò «i modi di canto, di azione e la magnifica voce che hanno il vantaggio di farsi sempre apprezzare sotto qualsiasi personaggio essa rappresenti, per cui ora sotto le spoglie di Lady Macbeth emerger seppe sull'incomoda tessitura della faticosa sua parte», Quando la Gruitz tornò alla Scala tre anni dopo, il vento critico si dimostrò del tutto mutato. Il cronista della Gazzetta Musicale di Milano deplorò «le puntature, i cambiamenti nel recitativo, adagio e cadenza alla cavatina e il ticchio di far aggiungere una battuta alla conclusione della cabaletta (... vegga il pugnal...) invece di cantarla come fu scritta originalmente dal suo autore». Il critico del Cosmorama Pittorico, occupandosi del medesimo spettacolo, fu ancora più tranchant: «Figuratevi che dei due principali personaggi della tragedia, uno (la Gruitz) commise il tristo errore di credersi adatto rappresentar una parte che non gli s'attagliava... La Gruitz è una mezzo soprano, e non sappiamo perché ella s'ostini a voler sacrificarsi nell'opere di Verdi, in una Luisa Miller e in un Macbeth, ove il suo buon volere si consuma in vani sforzi...».
A esternare giudizi severi nei confronti delle interpreti della Lady fu più di tutti l'autore; scrivendo al poeta Salvatore Cammarano da Parigi (23 novembre 1848), Verdi giudicò inadatta al ruolo anche una delle più illustri belcantiste dell'epoca come il soprano Eugenia Tadolini.
«[...] So che state concertando il Macbeth, e siccome è una Opera a cui m'interesso più che alle altre, così permettete che ve ne dica alcune parole. Si è data alla Tadolini la parte di Lady Macbeth, ed io resto sorpreso come Ella abbia accondisceso fare questa parte. Voi sapete quanta stima ho della Tadolini, ed Ella stessa lo sa; ma nell'interesse comune io credo necessario farvi alcune riflessioni. La Tadolini ha troppo grandi qualità per fare quella parte! Vi parrà questo un assurdo forse!!... La Tadolini ha una figura bella e buona, ed io vorrei Lady Macbeth brutta e cattiva. La Tadolini canta alla perfezione; ed io vorrei che Lady non cantasse. La Tadolini ha una voce stupenda, chiara, limpida, potente; ed io vorrei in Lady una voce aspra, soffocata, cupa. La voce della Tadolini ha dell'angelico; la voce di Lady vorrei che avesse del diabolico. Sottomettete queste riflessioni all'Impresa, al M° Mercadante, che egli più delli altri approverà queste mie idee, alla Tadolini stessa, poi fate nella vostra saggezza quello che stimate meglio. Avvertite che i pezzi principali dell'Opera sono due: il Duetto fra Lady e il marito ed il Sonnambulismo: se questi pezzi si perdono, l'Opera è a terra: e questi pezzi non si devono assolutamente cantare: bisogna agirli, e declamarli con una voce ben cupa e velata: senza di ciò non vi può essere effetto». Rammentandosi di questa lettera verdiana di significato capitale e citandola, il critico del Gazzettino di Venezia (10 aprile 1968), Mario Messinis, commentando la prestazione di Leyla Gencer al teatro La Fenice, scrive va: «[...] Dunque le cosiddette disuguaglianze e asprezze vocali della Gencer, che le sono state rimproverate con troppa disinvoltura, divengono un veicolo fondamentale di comprensione drammatica e musicale. Il soprano ha infatti una voce "aspra, soffocata e cupa”, l'incarnazione stessa del personaggio, governata però da una tecnica prestigiosa, che è l'investitura ideale del canto melodrammatico ottocentesco. Con questa interpretazione il soprano si è rivelato la più eletta Lady del nostro tempo dopo la Callas».
COMMENTO ALLA DISCOGRAFIA
Cio che forse piu colpisce in una prima scorsa alla discografia di macbeth e la totale assenza, fino a epoca recente, di soprani Italiani nel ruolo della protagonista, fino all’edizione EMI del 1976 diretta da Riccardo Muti con Fiorenza Cossotto nel ruolo della Lady, infatti, è tutto un susseguirsi di interpreti tedesche, greche, americane, scandinave. Il fatto, se desta la meraviglia del profano, non turba i conoscitori di cose operistiche che sanno fin troppo bene come Macbeth sia per la prima volta tornato al successo in questo secolo al di là delle Alpi, per opera della cosiddetta Verdi Renaissance accesasi in terra tedesca fra le due guerre. Un'edizione cruciale, in questo contesto, fu quella che ebbe luogo a Dresda nell'aprile 1928 con Robert Burg nel ruolo di Macbeth, Eugenie Burkhardt in quello della Lady e Ivar Andresen in quello di Banco.
Proposta in lingua tedesca, Macbeth fu un'opera che furoreggiò in Germania e in Austria in quel periodo (anche perché, per l'importanza del «parlato» e della recitazione voluti dall'autore, equivocamente la si accostava al wagneriano Ton und Wort Drama L'anima della Dresden Opera, il direttore d'orchestra Fritz Busch, portò nel 1938 il Mo beth verdiano in Inghilterra al Festival di Glyndebourne. Anche in questa circostanza lo staff fu tutto tedesco: la Lady era il celebre soprano di scuola viennese Vera Schwarz scene e costumi erano di Caspar Neher, la regia firmata da Carl Ebert. Non c'è dunque da stupirsi se la discografia inizia proprio con una versione in lingua tedesca, diretta oltretutto dall'austriaco Karl Böhm, che di Fritz Busch fu il successore all'Opera di Dresda. Dopo l'edizione live fiorentina diretta da Vittorio Gui, con la svede se Astrid Varnay nel ruolo della Lady, fa irruzione sulla scena Maria Callas, destinata a imprimere sul personaggio il proprio incancellabile sigillo. L'edizione scaligera che la vede protagonista nel 1952 è una delle pietre miliari di tutta la discografia verdiana. anche se sovente i critici non hanno potuto fare a meno di notare una certa divaricazio ne d'intenzioni fra la cantante e il più celebre direttore d'orchestra del tempo. Mentre infatti la Callas cerca una comunicazione dura, bruciante, de Sabata resta ancorato al modello shakespeariano, più classicamente composto.
Le edizioni immediatamente successive a questa, anche se sovente superiori tecnicamente (specie quando registrate in studio), non la valgono. La versione Rea presenta un leg gendario Leonard Warren, ma purtroppo sul podio Leinsdorf dovette sostituire Dimitri Mitropoulos; delle due edizioni dal vivo del 1960 la personalità di maggior spicco è quel la della Gencer nella produzione palermitana; la Decca del 1964 vanta, oltre a un direttore del calibro di Thomas Schippers, due protagonisti in gran forma; per contro la Suliotis nel 1970 si dimostra irrevocabilmente in declino, e la presenza di Luciano Pavarotti nel ruolo di Macduff è poco più che una curiosità. L'autentica svolta della discografia ha luogo nel 1976 quando escono contemporaneamente le versioni firmate dai due direttori più titolati della nuova generazione: Claudio Abbado e Riccardo Muti. Da quel momento i collezionisti si sono trovati solo nell'imbarazzo della scelta, avendo a disposizione finalmente due versioni di pari completezza artistica. Si è detto che l'edizione di Abbado, nata dopo un lungo rodaggio sul palcoscenico della Scala, è in grado di offrire psicologie più mosse dei personaggi, mentre quella di Muti è più virtuosistica sotto il profilo orchestrale grazie alla Philharmonia di Londra. Si tratta di schematismi. In realtà entrambe le versioni sono estremamente ricche sotto il profilo musicale e vocale, tanto da rendere del tutto opinabili le preferenze. Tra le versioni venute dopo quelle di Abbado e di Muti, meritano una segnalazione le due firmate da validi direttori italiani come Giuseppe Sinopoli e Riccardo Chailly. L'edizione diretta da quest'ultimo il fatto va segnalato - è il soundtrack di una versione cinematografica dell'opera realizzata dal regista francese Claude D'Anna (e si avvale di una Shirley Verrett che sente un poco gli anni trascorsi dalla versione di Abbado). La versione di Sinopoli, per quanto possa contare su un eccellente Renato Bruson come protagonista (un vero emulo delle caratteristiche espressive che Verdi cercava in Varesi), è purtroppo inficiata da un soprano non all'altezza.